Repubblica 19.11.16
Viaggio a Chihuahua, 400 chilometri a Sud
del Texas dove la Ford ha aperto una nuova fabbrica con mille operai.
“Così il presidente eletto si sparerà sui piedi...”
Il tycoon
punta ad azzerare il trattato Nafta: tassa del 35% per le aziende
statunitensi che hanno delocalizzato. E qui sono molte. Importanti. E
non soltanto automobilistiche
In Messico, tra i colossi Usa che si ribellano a Trump “Se ci punisce con i dazi colpirà anche l’America”
di Omero Ciai
Manca
la manodopera e si vedono diversi cartelli con scritto “Vacantes”, c’è
lavoro. Eppure in due giorni si guadagna appena quanto un’ora oltre
confine
80 %
La percentuale delle esportazioni che dal Messico finisce nel mercato americano
40
Dollari: lo stipendio quotidiano dell’operaio messicano. In Texas si guadagnano in un’ora
L’ultima
gaffe di The Donald “Bill Ford mi ha assicurato che non trasferirà in
Messico l’impianto per le Lincoln dal Kentucky”. Ma non era affatto un
progetto aziendale
CHIHUAHUA (MESSICO) IL NUOVO
stabilimento di produzione della Ford, la multinazionale delle auto Usa,
domina una collinetta nella vallata di Chihuahua, 400 chilometri a sud
di El Paso, la prima città del Texas oltre la frontiera. Un miliardo e
mezzo di dollari il costo, più di mille operai messicani e un milione di
motori prodotti all’anno. Martedì scorso, all’inaugurazione del
complesso, si parlava solo di Trump e della minaccia del nuovo
presidente americano di colpire le aziende Usa che hanno delocalizzato
in Messico con una tassa del 35%, cancellando il Trattato di libero
scambio, il Nafta, firmato nel 1994. «Se Trump vuole spararsi con una
pistola sui piedi - dice un manager locale - faccia pure. Chi pagherà il
prezzo più alto di una azione contro il Nafta saranno le aziende
americane che perderanno competitività sui mercati, e il consumatore
americano che pagherà molto di più per avere una macchina nuova». «La
promessa protezionistica di Trump sarebbe soltanto un boomerang per la
nostra economia», ha rilanciato da Los Angeles il numero uno della Ford,
Mark Fields, spiegando che la strategia globale dell’azienda prevede di
continuare a produrre in America i camion e i Suv di grossa cilindrata,
spostando in Messico le auto più piccole come la Fiesta e la Focus.
Insieme alla fabbrica di Chihuahua infatti la Ford sta per inaugurarne
altre due, sempre in Messico: a San Luis de Potosi e nello Stato di
Guanajuato, a nord di Città del Messico. Progetti da 4 miliardi di
dollari di investimenti complessivi decisi molto prima che il
miliardario “no global” arrivasse sulla scena della politica.
Ma
Ford a parte, lungo tutta la frontiera fra il Messico e gli Stati Uniti,
dalla Bassa California a Monterrey, le aziende americane hanno
delocalizzato approfittando dei bassi costi della mano d’opera, degli
incentivi del governo messicano, e dei dazi azzerati, grazie al
Trattato, su import e export. Sono le maledette “maquiladoras”, le
fabbriche di assemblaggio, dove per meno di 4 dollari al giorno migliaia
di uomini e donne cuciono i jeans Levi’s, impacchettano le cartucce
d’inchiostro per le stampanti Lexmark, lavorano nella plastica,
costruiscono parti dei Boeing o gli Air bag delle auto superlusso. L’80
percento di tutte le esportazioni messicane va negli Stati Uniti, un
volume d’affari nell’interscambio che cresce da vent’anni e che oggi
oscilla fra i 400 e i 500 miliardi di dollari. L’America è al primo
posto negli investimenti esteri in Messico ma, sempre il Messico, è
anche la prima destinazione dell’export di Stati americani come la
California, l’Arizona e il Texas. E da questa parte della frontiera gli
economisti giurano che se Trump cancella il Nafta mette a rischio almeno
sei milioni di posti di lavoro, sia qui che là. Senza dimenticare che
l’esplosione di una guerra commerciale avrebbe conseguenze letali, non
solo per il Messico. Davanti all’abbigliamento, ai semilavorati
metallici e all’industria della plastica, a farla da padrone c’è
l’industria dell’auto. Naturalmente le Big Three (General Motors,
Chrysler e Ford) ma anche giapponesi e tedeschi che dal Messico invadono
il mercato americano a prezzi concorrenziali. E sono tutti sbigottiti
dall’elezione di Donald Trump. Li ha presi in contropiede. La Audi
tedesca ha appena aperto, lo scorso primo ottobre, una nuova fabbrica
nello Stato di Puebla, Messico centrale, che produrrà 150mila Q5 da
esportare negli Usa. E la giapponese Toyota sta costruendo un’altra
fabbrica a Guanajuato per 220 mila auto modello Corolla all’anno. Mentre
a Toluca producono la Fiat 500 e la Dodge.
Per capire quanto le
due economie siano ormai completamente integrate e dipendenti, e quanto
le intenzioni di Trump possano essere micidiali, basta osservare il
grafico, pubblicato dal Wall Street Journal, sui pezzi che compongono il
sedile di un’auto assemblati a Milwaukee. L’interno di un poggiatesta
in tela è prodotto in Carolina del Sud, la copertura in cuoio a Saltillo
in Messico. Il telaio in Tennessee, le parti di plastica in Michigan,
la base di ferro di nuovo in Messico. Nello Stato di Chihuahua, da
Ciudad Juarez alle pendici della Sierra di Sinaloa, quella del Chapo,
c’è il pieno impiego. Anzi manca addirittura manodopera. Ovunque si
vedono cartelli con scritto “Vacantes” (C’è lavoro). Negli ultimi mesi
c’è stato anche un fenomeno di reshoring. Aziende che avevano traslocato
in Cina sono tornate qui, senza nemmeno immaginare il ciclone Trump.
Tutte le fabbriche dei parchi industriali cercano personale e se lo
combattono a colpi di megafono con i benefit. A volte si può assistere a
scene tragicamente comiche con gruppi di aspiranti operai che su un
piazzale passano, da una “maquila” a un’altra, a seconda dei benefit che
grida l’uomo del microfono sulla porta. La paga resta bassissima, 4
dollari. Quello che offrono in più sono buoni pasto, qualcuno magari
l’asilo nido per i figli piccoli o i trasporti gratis per chi abita,
come la maggioranza degli ultimi arrivati, molto lontano dalle
fabbriche. La vita all’interno delle maquiladoras è durissima. Zero
sindacati per cominciare. Turni senza soste e contratti a tempo
determinato. Di solito di tre mesi in tre mesi. Le “maquila” in Messico
sono come degli Stati autonomi dove la legge, e soprattutto giornalisti
ed eventuali curiosi, restano fuori. La politica delle grandi
multinazionali è semplice: qui spostano i lavori più facili e umili
della catena produttiva. L’offerta di lavoro per le auto è nella
verniciatura, nei circuiti elettrici e nell’assemblaggio dei motori.
Mentre le funzioni nobili, come la progettazione, l’ingegneria o la
ricerca, sono privilegi della casa madre, in Usa, in Giappone o in
Germania.
Il paradosso di un Paese pieno di emigranti nonostante
il pieno impiego - a Chihuahua la disoccupazione è sotto al 4 percento -
ce lo spiega in due parole Sergio Varuette, un manager che lavora al
Cimav, un istituto governativo di consulenze scientifiche per le aziende
locali. «Un operaio in Messico deve lavorare due giorni per guadagnare
quello che prenderebbe in un’ora dall’altra parte della frontiera, negli
Usa. Finché rimarrà questa differenza abissale nei salari, l’attrazione
dell’altro lato sarà indomabile ». Un esempio è Sixto, un signore
messicano non ancora quarantenne che aveva la residenza in Texas ma è
stato deportato qualche anno fa perché guidava ubriaco. Negli Stati
Uniti ha una moglie e un figlio. Ora vive a Chihuahua con i dollari - le
famose “rimesse” che Trump vuole tassare - che gli spedisce tutti i
mesi sua moglie ma sogna sempre di tornare di là. E paga gli avvocati
che combattono per lui la causa della riunificazione familiare. Le
minacce di Trump terrorizzano i messicani. «Se mette in pratica le sue
promesse scatenerà una crisi senza precedenti», dicono tutti. Ma forse
anche il tycoon riflette. Ieri notte s’è rivenduto con un tweet una
balla evidente per dimostrare ai suoi elettori che mantiene le promesse.
Ha detto che Bill Ford, il presidente della multinazionale omonima, gli
ha assicurato che non trasferirà in Messico la fabbrica delle “Lincoln”
dal Kentucky. Una soluzione che non era affatto tra i progetti
dell’azienda.