Repubblica 19.11.16
Massimo Recalcati nel suo nuovo saggio racconta come i grandi pittori ci indicano una via laica al sacro
Per avvicinarci all’Essere ci resta solo l’arte
di Gregorio Botta
Quando
la psicoanalisi si avvicina all’arte gli esiti sono raramente felici:
la tentazione di scavare nelle psicologie degli autori, di rintracciare
ferite biografiche, di leggere l’opera come un sintomo è forte. Massimo
Recalcati lo sa e nel suo “Il mistero delle cose”(Feltrinelli) dichiara
subito che non correrà questo rischio: «In questo libro l’uso della
psicanalisi per leggere l’opera ha rifiutato metodicamente ogni sua
applicazione patografica». L’arte non è un paziente, e non va messa sul
lettino. Bene. Allora perché parlarne inforcando gli occhiali di Lacan?
Perché
si muove sullo stesso terreno della psicoanalisi: l’una e l’altra
parlano della stessa cosa, sono impegnate nella stessa lotta di Giacobbe
con l’angelo sconosciuto. È la battaglia per dare forma a ciò che è
«irraffigurabile, all’alterità assoluta che sfugge sempre alla
rappresentazione». La missione è avvicinarsi il più possibile al mistero
dell’essere, portare l’uomo sulla soglia dell’indicibile.
Ungaretti
cercava di «popolare di nomi il silenzio». È questo che deve fare
l’arte secondo Recalcati. Per il suo libro ha scelto nove artisti
(Giorgio Morandi, Alberto Burri, Emilio Vedova, William Congdon, Giorgio
Celiberti, Jannis Kounellis, Claudio Parmiggiani, Alessandro Papetti e
Giovanni Frangi), alcuni del secolo scorso altri nostri contemporanei,
tutti italiani di nascita o di adozione. Sono autori molto diversi tra
loro (e non solo per fama e mercato). È difficile immaginare — per
esempio — due artisti più lontani di Vedova e Parmiggiani: il primo un
espressionista radicale ed estremo, l’altro un silenzioso poeta
dell’assenza. Eppure, leggendo i densi saggi che Recalcati dedica a
ognuno di loro si scopre il sottile filo rosso che lega l’uno all’altro:
tutti sacerdoti solitari di un movimento che insegue il sogno di
rendere visibile l’invisibile, come diceva Paul Klee, di toccare il
mistero delle cose, (la definizione che dà il titolo al libro è di
Kounellis).
Prendiamo Morandi: nessuno certo si sogna di leggere
la sua opera solo come quella di un semplice artista figurativo,
ostinato oppositore delle correnti astrattiste del suo tempo. Le sue
nature morte racchiudono una visione profonda. Compito del pittore —
scriveva lui stesso — «è far cadere quei diaframmi, quelle immagini
convenzionali che si frappongono tra lui e le cose». Dunque non si
tratta solo di dipingere vasi e barattoli con i magnifici colori tonali
della sua tavolozza. Si tratta di molto di più: di rompere gli schemi
visivi e mentali con cui siamo abituati a classificarli, registrarli e
anestetizzarli nella nostra coscienza. Si tratta di rivelare la
stupefacente intensità della loro presenza. È un lavoro lento, paziente,
ripetitivo — quasi una preghiera laica quotidiana — il cui scopo è
cogliere l’eternità degli oggetti immersi nel tempo. La bottiglia,
dunque, è molto di più di una bottiglia, è «l’icona di un assoluto
altrimenti irraggiungibile, evoca la presenza della Cosa, del reale in
quanto impossibile da rappresentare».
Morandi insegue questo
obiettivo puntando a una progressiva smaterializzazione dei suoi
oggetti: li sfinisce e li consuma a forza di osservarli e dipingerli.
Negli ultimi acquerelli gli oggetti sono talmente rarefatti da diventare
puri segni, ciò che resta di loro levita in uno spazio luminoso, anzi
diventano quello stesso spazio luminoso. È la trasfigurazione finale: «È
questo, se si vuole, il cristianesimo di fondo della sua opera. Dio ha
il volto dell’uomo».
Percorsi paralleli compiono gli altri otto
artisti: dalle ferite di Burri che aprono una squarcio sull’inconscio
dell’opera all’energia di Vedova che invece produce inconscio;
dall’americano Congdon folgorato in Italia dal crocifis- so a Celiberti
ossessionato dai muri dopo un viaggio negli orrori del campo nazista di
Terezìn; dalle visioni di Papetti che emergono dalla fanghiglia al
viaggio al termine della notte e del nero di Giovanni Frangi; dalle
ombre di fumo che dipingono il tempo di Parmiggiani a Kounellis, che
evoca il sacro mettendo in scena semplici e comuni oggetti.
Ecco,
il sacro: tabù dell’Occidente, grande rimosso del nostro tempo. Forse è
questo il tema vero del libro di Recalcati. «L’arte comporta una
vocazione sacra, se per sacro si intende l’accesso alla relazione con
ciò che sfugge a ogni principio di relazione». Sacro, quindi, come
mistero irriducibile dell’essere, non come territorio di questa o quella
religione: anzi se c’è una cosa da cui gli artisti devono fuggire è la
scorciatoia del contenuto, la tentazione di mettere in scena narrazioni
descrittive. L’opera non racconta, è. Incarna quella che Lacan chiamava
estimità: una definizione che nasce da un ossimoro apparente, la
congiunzione di un sentimento di intimità e di estraneità. «La sua
estimità sta nell’essere una parte del mondo e insieme un’apparizione
che esorbita la scena consolidata del mondo». La bellezza, diceva Rilke,
non è che il tremendo al suo inizio.
Certo sono parole inattuali.
Il mainstream è un altro: tra gli smalti brillanti del post-pop e i
manifesti di un’estetica dedicata all’impegno politico, tra le ultime e
stanche provocazioni e i bombardamenti sensoriali di mezzi digitali
sempre più potenti, le vie imboccate dall’arte dei nostri giorni sono
diversissime. Ma non bisogna lasciarsi spaventare dalle mode
contemporanee: Agamben ci ha ricordato che è davvero contemporaneo solo
chi non coincide perfettamente col suo tempo, e proprio per questo è
capace di percepirlo. In fondo l’arte è nata dal rapporto con il sacro. E
proprio quando ci ricorda che è ancora questo, oggi, il suo compito,
Recalcati non coincide con il suo tempo. Ciò che rende tanto più
necessario il suo libro.