sabato 19 novembre 2016

Corriere 19.11.16
«Cara Elsa , c’è un demone in te» Moravia, lettere da un matrimonio
di Antonio Debenedetti

«Elsa cercava di annullarmi e al tempo stesso, per troppa passione, annullava se stessa». È davvero in queste parole, scritte da Alberto Moravia con l’inchiostro d’un autobiografismo un po’ di maniera, la sintesi del matrimonio letterario italiano del XX secolo più enfatizzato da cronisti, ammiratori e detrattori?
Escono adesso 110 lettere, quasi lo scheletro d’un romanzo autobiografico, inviate da Alberto alla moglie Elsa Morante fra il 1947 e il 1983. Chi legge per capire, non fermandosi solo alle curiosità più vicine al pettegolezzo, potrà trovarvi più d’un motivo che collega strettamente sotto il profilo umano questi sfoghi impetuosi e sguarniti a due romanzi di tutto rilievo nella bibliografia moraviana cioè L’amore coniugale (1949) e Il disprezzo (1954). Parallelamente a quelle due opere molto discusse e contestate, nelle prose epistolari ora opportunamente raccolte da Alessandra Grandelis, tornano svestiti di ogni adescamento di natura romanzesca i temi del rapporto di chi scrive, dell’artista, con la realtà matrimoniale. Dell’eros con la quotidianità di cui è pur fatta la vita d’una coppia.
È una sera del lontano 1936. Elsa e Alberto si incontrano in una birreria del centro storico all’epoca frequentata dagli artisti romani più in, a presentarli sembra sia stato il pittore Giuseppe Capogrossi. Bellissimi quadri figurativi, buona famiglia, parente di padre Tacchi Venturi. Alberto, che vuole imporsi in un mondo dove è entrato zoppicando da malato, veste con eleganza. È magro, piacente, loquacissimo, sicuro di sé come può esserlo l’autore d’un capolavoro però discusso, avversato dai moralisti quale Gli indifferenti . Alberto gioisce, s’esalta e trema. Frequenta la nobiltà, viaggia come i più famosi scrittori inglesi e francesi. Sue mete? Gli Stati Uniti e l’Oriente. Elsa, poverissima, non è laureata e vive buttando giù tesi di laurea a pagamento. È fascinosa, ha occhi bellissimi e fa letteralmente la fame, lavorando però a dei racconti che sono tutta la sua speranza. Non può andare dalla sarta, figurarsi, così la moglie d’un critico letterario le regala i suoi vestiti usati.
Oplà! Un particolare importante, di solito trascurato in modo inspiegabile dai biografi. Incombono le leggi razziali. Alberto è di padre ebreo e di madre cattolica, Elsa è di madre ebrea e di padre «ariano». Quale il peso di questa realtà, che i tempi renderanno sempre più emergente, nella loro convivenza iniziata qualche mese dopo cioè nel fascistissimo e razzista 1937? A riguardo tacciono sia Moravia che la Morante per paura di nuocere al loro futuro letterario e più tardi si farà troppo spesso finta di niente. Eppure ci vuol poco a immaginare che proprio quel silenzio sul loro sangue ebraico ebbe il posto d’un compagno segreto, forse d’un insopprimibile «complice» (insieme con la letteratura) della loro vicenda sentimentale.
Un salto di circa un decennio. Con la caduta del regime e la Liberazione inizia un secondo tempo nel ménage di Elsa e Alberto, ufficialmente sposati a partire dal 14 aprile 1941. Moravia diviene sempre più famoso e però discusso, combattuto mentre lo si adula e la Morante inizia a godere del prestigio d’un personaggio insolito nel panorama letterario italiano, misterioso e un po’ stregonesco. Il successo a grandi numeri della Romana nel 1947 e l’anno successivo la pubblicazione di Menzogna e sortilegio di Elsa, giudicato dal leggendario György Lukács «il più grande romanzo italiano moderno», valgono un’incoronazione della coppia. Regneranno brevemente usando quale troni le sedie d’un caffè di piazza del Popolo.
Stiamo ai fatti. Di stagione in stagione l’amorosa convivenza dei primi anni viene mutandosi in un irreparabile disastro. L’esistenza in comune di lui e lei va infatti sempre più trasformandosi in un pasticcio molto cerebrale, irreparabile e doloroso non meno che stranamente autocompiaciuto d’un oscuro male di vivere dove la letteratura, il talento, i nervi logorati dalla creatività hanno un posto di eccellenza.
Chi era lui agli occhi di lei e lei agli occhi di lui? Difficile dirlo. Ci si deve accontentare delle solite battute colte al volo, delle consuete dichiarazioni malate di estemporaneità. Fra le tante, per quanto riguarda la Morante, ho scelto questa. «Alberto? Era un innocente» ha detto un giorno Elsa conversando con Alfonso Berardinelli che me l’ha riferito pochi giorni fa per telefono. La parola «innocente», sempre cosi impegnativa, immaginandola pronunciata dalla voce della Morante, «cantilenante, melodica, mista di registri alti e bassi, di note acute e di morbide curve vocali» (come la descrive Garboli), acquista il valore d’una sentenza cui inchinarsi e obbedire. Alberto, l’uomo che sbuffava lamentandosi di soffrire d’una noia cosmica, aveva in effetti anche all’aspetto qualcosa di innocente. A proposito della noia Alberto Arbasino, perfido e dolcissimo come forse solo lui sa essere a volte, racconta di Moravia che per sottrarsi appunto a un tedio opprimente usciva dal caffè Aragno contando «le macchine che passavano sul corso in un’ora».
E che cosa pensava Alberto di Elsa, quale moglie e amante? «...Non sono mai stato innamorato di lei. Innamorarsi è una cosa, amare un’altra cosa... Elsa l’ho molto amata, mi ha fatto soffrire molto... non posso dire di essere stato innamorato di lei». Questa sentenza l’ho ripresa dalla prefazione, indispensabile guida alla lettura, che Alessandra Grandelis ha preposto al volume moraviano da lei curato Quando verrai sarò quasi felice, sottotitolo Lettere a Elsa Morante 1947-1983 (Bompiani Overlook). Andrà subito aggiunto che mancano, purtroppo, le risposte della Morante perché Alberto cestinava la corrispondenza dopo averne preso visione. L’impressione che si ha leggendo questi sfoghi, confessioni, pensieri messi su carta così come li dettava l’umore del momento, è quella di chi ascolta un qualcheduno mentre parla al telefono, intanto che si infervora affrontando argomenti molto intimi e privati, non potendosi però udire per evidenti motivi le risposte dell’interlocutore. Tanto che si è presi da una curiosità dell’orecchio prima che della mente che porta a chiedersi, sapendo di non poter avere risposta: «Ma Elsa che cosa diceva? Che cosa obiettava?».
Queste 110 lettere, dovute a un Moravia marito amoroso, ma sempre un po’ fuori parte a una moglie difficilissima e affascinante quale doveva essere Elsa, sono tutte in presa diretta. Scoprono il cuore sottraendosi agli artifici dell’intelligenza. È d’obbligo qualche esempio. Eccovelo, dunque: «Tu dici spesso che non ti amo e invece io non posso fare a meno di te» (7 agosto 1950), «Cara Elsa, io ti amo ancora tanto, che basta una tua parola sgarbata per farmi soffrire. Purtroppo c’è in te come un demone che ti spinge a dirmi sempre delle cose spiacevoli. Perché non sarebbe possibile cambiare tutto ciò?» (1950),«Lavora bene e cerca di mangiare cose buone» (1° agosto 1951), «Ho capito che ti amo molto cosi sentimentalmente come fisicamente...Vorrei tanto che tu fossi qui e ho tanto desiderio di baciarti e di fare l’amore con te» (12 agosto 1951), «Ti lascio cara Elsa e ti bacio forte e con affetto nel luogo della tua persona che preferisci» (15 agosto 1951).
A volte Moravia si nasconde dietro atteggiamenti e dichiarazioni del tono volutamente infantile, così il 14 agosto 1951: «Al tuo ritorno a Roma se vorrai ti comprerò l’automobile. Però mi hanno detto che per imparare bisogna incominciare con una macchina di poco prezzo magari usata perché imparare a guidare su una bella macchina nuova vuol dire ridurla inservibile e poi doverla riparare con ingente spesa».
Quell’auto, sfinita dall’uso e di fabbricazione inglese, fu acquistata o almeno così mi raccontava Enzo Siciliano. Elsa si mise al volante e affrontò via Condotti, una delle strade più eleganti di Roma allora transitabile a senso unico. Elsa la imboccò contromano causando un intralcio al traffico e un ingorgo di proporzioni... letterarie.
Cambia la musica e il matrimonio agonizza. Ecco allora che, in un momento di massima crisi del loro rapporto (Elsa era disperata per la morte di Bill Morrow), il 9 agosto 1963 Alberto scrive: «Da qualche tempo la mia vita ha perduto come si dice “il baricentro” e se ne va di qua e di là come una trottola impazzita. Spero solo di poter dire in un romanzo che genere di vita è». In queste ultime parole c’è tutto Moravia, c’è l’uomo che mi dichiarò perché lo scrivessi su questo giornale «io ho una sola religione la letteratura», c’è l’uomo che amiamo e onoriamo perché viveva per narrare e narrava per vivere.