Repubblica 18.11.16
La ferita del giovane papa potrà diventare una poesia
di Massimo Recalcati
«CHI
è Dio?», «Dov’è Dio?», «Cos’è Dio?». Sono le domande incalzanti che
risuonano insistenti in The Young Pope, l’ultimo grande film di Paolo
Sorrentino trasmesso per Sky nella forma del serial televisivo che oggi
si conclude. Domande che il giovane papa, Pio XIII, interpretato da un
intensissimo Jude Law, non cessa di porsi sebbene sia stato nominato
inaspettatamente dal Conclave erede di San Pietro. Domande che
costituiscono uno dei centri più forti della narrazione di Sorrentino
sullo sfondo della triste fenomenologia della degradazione morale del
clero e delle sue gerarchie vaticane, dei giochi di potere, del cinismo e
del carrierismo narcisistico.
Nel suo sembiante Pio XIII si
presenta come un papa che non conosce la subdola minaccia del dubbio. Il
suo magistero viene impostato come anti-illuminista e anti-conciliare.
Il suo programma restauratore è quello di rovesciare ogni forma patetica
di evangelizzazione per ripristinare la verticalità assoluta di Dio in
totale controtendenza rispetto al nostro tempo. Appare spietato, persino
sadico, coi suoi nemici cardinali e un abile stratega nel rapporto col
potere temporale. In contrasto con la sua giovane età si presenta come
il difensore implacabile e severo dei principi più dogmatici della
dottrina, antagonista al multiculturalismo ipermoderno, contrario ad
ogni forma di liberalizzazione, integralista, sostenitore della fede
senza incertezze e dell’infallibilità assoluta del pontefice. Con la
stessa ira di Cristo, vuole cacciare i mercanti dal tempio, rifiuta di
offrire la sua immagine alla logica del marketing, è ostile ad ogni
processo di umanizzazione della Chiesa. Vuole restare invisibile,
nell’ombra, testimone dell’assenza.
Il suo carisma non è quello
francescano del servo di Dio, dell’umiltà e della compassione amorevole.
Incarna piuttosto, nella sua durezza scontrosa, l’inaccessibilità di
Dio. La sua teologia è anti- umanistica e Dio-centrica: non è l’uomo che
conta, ma l’alterità assoluta di Dio. Ecco di cosa non dovremmo mai
dimenticarci, ammonisce nel suo primo discorso pronunciato dal balcone
di San Pietro di fronte ad una folla che si rivelerà sempre più
smarrita. Il suo non è il volto del papa buono che sorride alla luce
della luna, ma quello che richiama la tempesta, che decide di stare
nell’ombra, di rimanere invisibile, di sottrarre la propria immagine
umana agli occhi dei fedeli. Nessun movimento verso il popolo, nessuna
empatia; non ristora, non rassicura, non consola, ma avverte che la vita
dell’uomo senza la vita di Dio è vita morta. Il suo discorso è uno
schiaffo deciso ad ogni versione populistica e biecamente utilitaristica
della religione. Riabilita il Dio giudaico, pre-cristiano, quello della
violenza redentrice, come quando nel discorso rivolto ai cardinali, al
limite del delirio, presenta Dio come il costruttore dell’inferno.
Da
dove viene questa teologia non Cristo- centrica ma Dio-centrica? Questa
fede che vorrebbe rigettare ogni forma di dubbio, questa
rappresentazione di Dio come sguardo impassibile? Ecco l’altro grande
centro della narrazione di Sorrentino che viene esposto con una
sensibilità per nulla estranea alla cultura psicoanalitica. Lo sguardo
di Dio è lo stesso che ritorna negli incubi del papa nella forma dello
sguardo freddo e distaccato della madre che da bambino lo abbandona in
un orfanotrofio.
Il segreto di Pio XIII, papa-padre, simbolo più
alto della Legge, è quello di essere stato un figlio scartato,
abbandonato e, dunque, smarrito, profondamente incerto sulla fede
nell’Altro, minato dall’incertezza. Il desiderio dei suoi genitori non
gli ha attribuito alcun valore. Egli ha fatto così esperienza prematura
della morte. La sua vita è stata svuotata di senso dal fallimento del
primo e fondamentale amore. Per questo nella sua vita non ha fatto altro
che ricercare affannosamente in Dio un amore sicuro. Grande tema
sorrentiniano — presentissimo in tutta la sua opera — dell’esperienza
irreversibile e originaria della perdita. Ecco il segreto della fede, al
limite del fanatismo, di Lenny: restaurare l’amore ferito, recuperare
l’oggetto impossibile da recuperare. È il dramma che abbiamo incontrato
anche in Jep, il protagonista della Grande bellezza, confrontato lui
stesso con un primo amore tanto perduto quanto indimenticabile. Lo
stesso incontro d’amore con una ragazza che travolge per una settimana
un giovanissimo Lenny prima della sua entrata in Seminario. Traccia
indelebile della perdita che raddoppia quella dei genitori. Amori che
lasciano ceneri che non smettono di spurgare sangue.
È dalla
ferita inguaribile dell’orfananza che scaturisce la sua scissione più
drammatica: il custode della fede è alla ricerca tormentata della fede,
il padre della Chiesa è un figlio smarrito, traumatizzato dalla perdita
dei suoi genitori. Il volto austero di questo Dio lontano protagonista
della teologia Dio-centrica di Pio XIII incarna lo spirito di vendetta
del figlio abbandonato verso i suoi genitori colpevoli di non averlo
amato? Oppure il problema è ancora un altro, ovvero che l’amore umano è
sempre imperfetto, fonte di dolore e di pena, destinato all’agonia,
mentre la salvezza può darsi solo nell’amore imperituro per Dio. Solo
Dio, infatti, risponde, non abbandona, solo il suo amore è definitivo.
Eppure,
come l’assenza inspiegabile dei suoi genitori, anche Dio resta per
Lenny un mistero inaccessibile. Diventare prete è stato un modo per
continuare a restare figlio? La fede è davvero una vigliaccheria?
Cercare lo sguardo di Dio è cercare lo sguardo perduto della propria
madre? Non è così che si chiude lo straordinario racconto di Sorrentino.
Il giovane papa diventa uomo e il Dio inaccessibile si trasforma in un
Dio del sorriso. L’immagine di Pio XIII potrà rinunciare finalmente al
rifugio dell’ombra. La sua ferita saprà diventare una poesia?