il manifesto 18.11.16
La crisi della cultura fra caste e politica
di Gian Paolo Calchi Novati
Il
giornalismo d’inchiesta in cui eccelle Gian Antonio Stella è
specializzato nella denuncia delle «caste». Una casta tira l’altra in
una catena di complicità fino a formare un establishment
auto-referenziato. La responsabilità maggiore l’ha la politica, che –
connivente o impotente – non riesce a garantire il bene comune facendo
le scelte giuste, sapendo che le risorse sono comunque scarse.
Valendosi
della testimonianza dell’ambasciatore Antonio Armellini e della
documentazione che gli ha fornito, Stella ha denunciato in un articolo
sul Corriere della Sera dell’8 novembre lo sfacelo dell’Istituto
italiano per l’Africa e l’Oriente (Isiao).
Armellini ha svolto per
anni le funzioni di commissario per la liquidazione coatta
amministrativa di un ente pubblico o semipubblico passato attraverso un
procedimento simile al fallimento o alla bancarotta di un’impresa
privata. Sembra che tale liquidazione abbia costituito il primo caso del
genere in Italia. Le difficoltà e le resistenze si sono moltiplicate e
alla fine Armellini si è dimesso per sfinimento e frustrazione. L’ente
di sorveglianza era il ministero degli Esteri, che aveva rapporti
speciali con i due istituti unificati nell’Isiao dal 1995 con una legge
voluta dalla stessa Farnesina: l’Istituto per gli studi del Medio ed
Estremo Oriente (Ismeo) e l’Istituto italo-africano (ultima versione e
denominazione dell’Istituto coloniale italiano, costituito all’inizio
del Novecento).
Risalendo all’indietro nella loro genealogia,
entrambi gli istituti erano il prodotto dell’espansione coloniale, di
dominio o relazioni asimmetriche con qualche spruzzata di grandeur
fascista. Nel dopoguerra venne avviata un’opera, non sempre ben
digerita, di adattamento alla realtà post-coloniale. Prima i due
istituti, separatamente, e poi l’istituto unificato avevano acquisito
una certa risonanza in Italia e nella comunità internazionale degli
studi e della documentazione.
A differenza delle altre potenze
europee con un passato coloniale, l’Italia ha smobilitato gli apparati
della conoscenza e della memoria di quel periodo della nostra storia.
Istituti a pezzi e Il Museo coloniale sparito. Da noi, tutto ciò che la
Seconda Repubblica ha saputo produrre è stato un sacrario in memoria di
Rodolfo Graziani a Filettino.
D’altra parte, i due istituti
avevano imboccato percorsi non propriamente coincidenti e i programmi
dell’Isiao ne risentirono: l’Ismeo era specializzato in scavi
archeologici e nell’insegnamento delle lingue e culture orientali,
l’Istituto italo-africano era rivolto piuttosto all’attualità
dell’Africa in via di decolonizzazione con qualche incursione nella
cooperazione internazionale. L’unificazione risultò fortemente
«sbilanciata»: gli asiatisti monopolizzarono (o quasi) la governance,
concentrando in Asia gran parte del bilancio e avversando il
«sinistrismo» della componente africanistica.
Una prima frattura –
con il distacco di alcuni studiosi dagli organi di indirizzo culturale,
di per sé dotati di scarsissimo potere – si verificò quando la
presidenza rifiutò in extremis, dopo una lunga fase di (presunta)
preparazione d’intesa con le autorità culturali di Addis Abeba, di
organizzare, appunto a Roma a cura dell’Isiao, la XVI Conferenza
internazionale di studi etiopici nel 2007.
Il brusco ritiro della
candidatura da parte dell’Isiao con il pretesto dei costi mise in grave
imbarazzo gli africanisti italiani. Il Congresso fu organizzato poi a
Trondheim in Norvegia.
Nella ricostruzione di Stella è forte la
tentazione di bacchettare una casta accademica che ha sperperato le
risorse nella gestione dell’Isiao e una casta burocratico-ministeriale
che prima ha assistito alla deriva senza esercitare i suoi doveri di
gestione e controllo e poi non ha collaborato a trovare una soluzione
meno drastica del fallimento, della sospensione di ogni attività e
(chissà) di una chiusura definitiva. Intanto la biblioteca dell’Isiao,
che fortunatamente è un bene protetto e non disponibile, è inagibile da
anni e si sta via via impoverendo.
In realtà l’indubbia
responsabilità dei protagonisti diretti non è la sola causa del
disastro. Per anni i finanziamenti dello Stato sono stati elargiti in
ritardo appesantendo il bilancio dell’Isiao con onerosissimi tassi
bancari. La politica ha dimostrato nel caso migliore indifferenza e nel
peggiore insipienza o, peggio, fastidio per questa forma insostituibile
di soft power.
Uno dei luoghi comuni di cui – fra continue riforme
dell’Università, riduzione dei fondi a disposizione della ricerca e
cervellotiche cattedre e borse di studio ad personam – abusano i nostri
governanti nei discorsi della domenica è il primato della cultura. Nella
realtà dei fatti, oltre all’Isiao, altri Istituti italiani dedicati a
studiare le realtà politiche e culturali degli «altri» sono praticamente
spariti dalla scena. L’Istituto per le Relazioni fra l’Italia e i Paesi
dell’Africa, America latina e Medio Oriente (Ipalmo), fondato nel 1971 e
divenuto il centro di elaborazione e promozione del «terzomondismo» in
Italia, ha di fatto interrotto la sua attività con una celebrazione dei
quarant’anni di vita alla Camera dei Deputati voluta dal suo ultimo
presidente, Gianni De Michelis.
Una parabola analoga è stata
vissuta dall’Istituto italo-latino-americano (Iila): partito dalle
geometrie razionaliste dell’Eur e approdato più tardi in un palazzo
patrizio nel centro di Roma, si è dovuto ritirare in un appartamento ai
Parioli. Sia la biblioteca dell’Ipalmo sia quella dell’Iila sono in via
di estinzione.
A quanto si sa, anche le donazioni a università o a
centri di ricerca non sono andate a buon fine a causa dei costi. Lo
stesso Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi) di
Milano, che pure, al pari dell’Istituto Affari Internazionali (Iai),
tiene molto bene il campo sui temi caldi e caldissimi del sistema
internazionale, è stato costretto a trasferire quasi tutte le proprie
raccolte all’Università di Pavia, che sta doverosamente completando la
catalogazione. Anche una fucina di riflessione, ricerca e dibattito come
la Fondazione Basso attraversa una fase di precarietà per la solita
carenze di risorse economiche, che, almeno in parte, spetterebbe allo
Stato, e dunque alla politica, elargire.
Evocare le ambizioni
internazionali dell’Italia e assistere (o contribuire) senza reagire al
decadimento o addirittura alla scomparsa di più o meno antiche
istituzioni per lo studio e l’insegnamento delle realtà politiche,
sociali, economiche e culturali del mondo globalizzato è una
contraddizione lampante di cui la politica, anche quel poco di sinistra
che è rimasto, o non vede la gravità o non la capisce.