Il Sole 18.11.16
Parla l’ ex capo della Cia e del Pentagono
Panetta: «Non cediamo la Siria alla Russia»
intervista di Ugo Tramballi
Raggelato
dalla vittoria di Donald Trump, Robert De Niro ha pensato di andare a
vivere in Italia, da dove è venuta la sua famiglia. Anche lei ha preso
in considerazione questa opportunità? Leon Panetta, californiano con
padre calabrese, ex capo della Cia e del Pentagono, ride: «Sono sicuro
che molti vogliano fare come lui. Amo l’Italia, amo la gente laggiù ma
la mia casa è qui».
Non deve essere facile vivere nel Paese di
Trump per uno degli uomini più influenti della Washington democratica,
dell’apparato di sicurezza e di governo degli Stati Uniti.
Nell’amministrazione Obama, Panetta è stato direttore della Cia e
segretario alla Difesa; in quella di Bill Clinton il capo del personale
della Casa Bianca. Il chief of staff è la persona più importante
d’America dopo il presidente.
Con Tony Blair, Panetta ha appena
elaborato per il Csis, il centro di studi strategici e internazionali di
Washington, «una nuova strategia completa per contrastare l’estremismo
violento», sapendo che Trump non l’applicherà mai. In queste ore Barack
Obama sta incontrando gli alleati europei nel tentativo poco convincente
di rassicurarli. «Sta cercando di dare speranza al futuro», commenta
Panetta, 78 anni, non nascondendo che i tempi che aspettano gli Stati
Uniti e il mondo saranno difficili. «C’è molta preoccupazione nel mondo
su cosa il nuovo presidente farà o non farà».
Di cosa dovrebbero avere paura gli europei?
La
situazione è molto imprevedibile. Non è ancora chiaro cosa farà Trump
quando si siederà nello Studio Ovale: se ripeterà le dichiarazioni
irresponsabili della campagna elettorale o sarà più cauto e misurato.
Penso saremo in grado di capire quando farà le nomine nel suo governo.
Come
ex segretario alla Difesa pensa anche lei che la Nato sia “obsoleta”?
Tutti i membri tranne cinque non spendono per la difesa il 2% concordato
del Pil. Tra questi l’Italia.
Penso che la Nato sia un’alleanza
estremamente importante per affrontare le minacce nel mondo: in
Afghanistan, Iraq, Libia o contro i tentativi di distruggere l’Europa.
Abbiamo sempre chiesto agli Stati membri di assumersi le loro
responsabilità, garantendo i fondi necessari. Perché non credo ci sia
alcuna alternativa al mantenimento di una forte alleanza anche nel
futuro.
Tra Putin e Trump ci sono molte somiglianze. È possibile
un cambio radicale nelle relazioni fra Stati Uniti e Russia? È credibile
una nuova Yalta che riconosca ai russi sfere d’influenza in Europa?
È
molto preoccupante. Per la mia esperienza ci sono cose sulle quali
dobbiamo accordarci con la Russia, altre no. Le relazioni funzionano se
partiamo da una posizione di forza, non di debolezza. È l’unico modo per
trattare con un uomo come Putin: dobbiamo parlare con lui, costruire
buone relazioni ma ci sono questioni sulle quali dobbiamo tirare una
linea invalicabile per ricordare che non possono fare tutto ciò che
vogliono.
Quindi nessuna nuova Yalta?
Certo che no. Vogliamo un “reset” che sia reciproco e che nessuno metta in pericolo la propria sicurezza nazionale.
Secondo
lei i russi hanno manipolato queste elezioni? Stanno cercando di farlo
anche nel referendum italiano e le prossime elezioni in Europa?
Sono
tempi molto imprevedibili. Abbiamo avuto Brexit, l’elezione di Trump,
presto si vota in Italia, Francia, Germania. Spero che la gente in cerca
di cambiamento capisca che occorre un cambiamento responsabile,
nell’interesse del proprio Paese e degli altri.
Da quello che ha
sempre detto durante la campagna, sembra che in Siria Trump possa
abbandonare i ribelli e avvicinarsi a Bashar Assad, via Mosca.
Spero
di no, che capisca quanto Russia e regime siano corresponsabili della
morte di migliaia di siriani e del problema dei rifugiati che il mondo
sta affrontando. Sarebbe un grave errore se ci ritirassimo lasciando ai
russi la possibilità di determinare il futuro della Siria.
Lei è
il capo della Cia che ha guidato la missione per eliminare Osama Bin
Laden. Lui è morto ma il terrorismo islamico non cessa di esistere.
La
sfida per sconfiggerlo è una combinazione di forza militare,
intelligence e comprensione delle radici del problema: come è nato e
dove si alimenta.
Quindici anni dopo l’11 settembre non sembra un
po’ tardi? Secondo il documento del Csis di cui lei è corresponsabile,
da allora sono stati investiti 1.600 miliardi di dollari, lo 0,0138% per
il soft power.
Quando ero alla Cia e poi al Pentagono ci
chiedevamo sempre come creare una contronarrativa a quella estremista
che arruola migliaia di giovani musulmani. Poi tornavamo al solito
lavoro, all’hard power. Se non vogliamo combattere per altri trent’anni,
dobbiamo finalmente affrontare le cause del problema.
In una visione temporale più ristretta, cosa sarà l’America da qui a quattro anni, alla fine del primo mandato di Trump?
La
mia speranza è che continui a garantire la leadership mondiale, che sia
capace di costruire alleanze e partnership nel mondo. Che non affronti
solo lo Stato Islamico ma tutti i problemi, compresa la minaccia
cibernetica, il vero campo di battaglia del futuro. L’ambizione di Trump
è “prima di tutto l’America”. La realtà è che non puoi fare nulla senza
garantirne la sicurezza che non è raggiungibile se non si collabora col
mondo. La mia è una previsione? No, è una speranza per la quale prego.