La Stampa 18.11.16
Memoria senza più i testimoni, la svolta del cinema sulla shoah
di Ariela Piattelli
Dare
la dimensione fisica dell’orrore attraverso l’assenza dell’immagine,
perché per il cinema la Shoah è già memoria e eredità, e non più
testimonianza diretta. Gli ultimi film che si confrontano con il tema
della Shoah, lo fanno senza rappresentare l’orrore. È la tendenza della
nuova onda di registi. Il cinema si riorganizza per far fronte alla
progressiva scomparsa delle voci dei testimoni, per raccontare la Shoah
in modo del tutto nuovo, senza immagini dello sterminio e portando i
carnefici e i negazionisti nelle aule di tribunale. Ieri è uscito nelle
sale italiane «La verità negata» (Denial) di Mick Jackson, già
presentato alla Festa del Cinema di Roma, in cui si racconta del
processo intentato dal negazionista britannico David Irving contro la
professoressa americana Deborah Lipstadt per diffamazione e per averlo
definito un partigiano di Hitler nel suo libro «Denying the Holocaust:
The Growing Assault on Truth and Memory». Nel film, che segue uno stile
classico per permettere allo spettatore di immergersi nella storia, non
vi è traccia di immagini dell’orrore, se non una dissolvenza evocativa
delle camere a gas, quando la protagonista è con i legali ad Auschiwtz
per istruire il processo e dimostrare che Irving è solo uno storico
fasullo, antisemita e bugiardo. Gli avvocati della professoressa
decidono di non far testimoniare i sopravvissuti, perché la Shoah non
deve finire sul banco degli imputati. Sono lontani i tempi della
scoperta dell’orrore, dei processi ai criminali, delle deposizioni dei
sopravvissuti, adesso la Shoah è già verità storica. Questa è la lezione
del cinema contemporaneo. Il «legal movie» prosegue il discorso
intrapreso da due film di produzione tedesca, usciti lo scorso anno,
diretti da giovani registi nati in Italia: «Il labirinto del silenzio»
di Giulio Ricciarelli, che ha rappresentato la Germania agli Oscar, è il
primo film contemporaneo che mette in scena la presa di coscienza della
Germania dei crimini nazisti alla fine degli Anni 50. Il giovane
pubblico ministero Johann Radmann lotta per la giustizia, contro un
sistema che preferisce l’oblio alla consapevolezza, e per portare i
criminali nazisti in tribunale. Il labirinto tortuoso, che si conclude
con l’inizio del processo di Francoforte, si snoda attraverso la
scoperta progressiva dell’orrore da parte del protagonista e dello
spettatore, grazie alle testimonianze dei sopravvissuti che non
ascoltiamo, alle immagini che circolano tra i personaggi, ma che non
vediamo, e dai numeri presunti dello sterminio che salgono in
continuazione. Anche in questo film c’è la scelta programmatica del
regista di non evocare la Shoah con immagini o flashback, la presenza e
il ruolo fondamentale dei sopravvissuti si inserisce nella fase storica
della scoperta, rivelando il valore della testimonianza soltanto nelle
reazioni e nelle espressioni di chi le ascolta. Siamo al cinema della
terza generazione, e come Ricciarelli anche il regista di «Lo stato
contro Fritz Bauer», Larse Kraume, ha poco più di quarant’anni. La
storia del procuratore ebreo tedesco che per patriottismo voleva che il
suo Paese facesse i conti con il passato, dando la caccia ad Adolf
Eichmann, consegnandolo al Mossad, e che iniziò il processo di
Francoforte, in una Repubblica Federale Tedesca che gli era ostile e
voleva cancellare i crimini della Germania, è costellata di fascicoli,
di lettere e documenti, ma mai c’è un’immagine dell’Olocausto. Ciò che
conta è la lezione di Bauer alle future generazioni: «Così come ogni
giornata comprende il giorno e la notte -, dice Bauer in un programma
televisivo - anche la storia di ogni popolo ha le sue luci ed ombre.
Credo che le generazioni più giovani in Germania siano pronte a
conoscere la storia del loro Paese e tutta la verità. Quella stessa
verità con cui i loro genitori a volte fanno fatica a confrontarsi».
Infine, fuori dalle aule di tribunale e immerso nella morte a lavoro di
Auschwitz, c’è il giovane premio Oscar ungherese László Nemes (39 anni)
con «Il figlio di Saul». La ricerca del protagonista di dare degna
sepoltura ad un ragazzo nel campo di sterminio è resa attraverso uno
stile che sceglie spesso le riprese fuori fuoco e si concentra sul volto
e l’azione del protagonista: Nemes non può rappresentare nitidamente
l’irrappresentabile, questa è una parziale e significativa rinuncia a
rendere la Shoah nell’immagine cinematografica. «Nella fase della
scoperta della Shoah, fino agli Anni 70, si sono dovute affrontare tutte
le rimozioni -. spiega Roberto De Vita, avvocato penalista, che si è
occupato di antisemitismo e negazionismo -. E’ seguita l’onda lunga
della testimonianza, in cui si è affermata la verità storica. Oggi
viviamo la risacca, in cui i nazionalismi stanno riproponendo temi degli
Anni 20 e a volte la memoria sembra ridiventare lontana. Credo che il
cinema guardi a questo fenomeno. C’è un momento in cui il ricordo
diventa memoria. La Shoah non è legata solo alla testimonianza di chi
l’ha vissuta, ormai fa parte di tutti noi, è una verità storica che non
deve andare nelle aule di tribunale».