Repubblica 18.11.16
Dopo il voto
Renzi-bis, governo tecnico o urne anticipate le carte del Quirinale se la riforma non passa
Il premier perderebbe le leve del potere e il ruolo di leader del Pd se decidesse il ritiro unilaterale: meglio il rimpasto
Anche
se al referendum la legge fosse approvata ci sarebbe da ricucire un
paese lacerato La legge elettorale dovrà essere rivista in ogni caso e
bisognerà curare le ferite con l’Europa
Dopo il referendum il Quirinale tornerà centrale
di Stefano Folli
ERA
stato Giorgio Napolitano, anni fa, a ricordare che non esistono
“governi tecnici”: esistono solo governi “politici” in quanto ricevono
la fiducia da una maggioranza parlamentare. In precedenza, molto tempo
prima, anche Ugo La Malfa sosteneva lo stesso principio. Quindi nemmeno
Mario Monti, peraltro nominato senatore a vita il giorno prima
dell’investitura proprio da Napolitano, guidava un “governo tecnico”,
bensì un esecutivo fondato su una regolare maggioranza. Una larga
maggioranza, verrebbe da aggiungere.
Il tema è riaffiorato in
queste ore quando il presidente del Consiglio e segretario del Pd è
tornato a insistere sul punto: in caso di vittoria del “No” il 4
dicembre, egli sarà contrario a qualsiasi ipotesi di “governo tecnico”.
Definizione che nel suo linguaggio equivale all’incirca a
“governicchio”, ossia compagine di basso livello destinata a vita breve.
Ovviamente Renzi sa bene che tutti i governi, nel momento in cui
ricevono la fiducia, diventano espressione della maggioranza che li ha
votati. È interessante allora capire cosa intende il premier con questo
riferimento ai “tecnici” o ai governi di corto respiro (una volta si
sarebbe detto “balneari”, ma in questo caso saremo in dicembre e si
dovrebbe parlare semmai di governo “natalizio”). Di certo a Palazzo
Chigi si pongono il problema del dopo referendum in caso di sconfitta
della riforma Boschi. E Renzi sembra aver colto il centro del problema.
Nell’eventualità del “No” vittorioso il Quirinale tornerà a tutti gli
effetti al centro della scena. Ciò significa che si trasformerà nel
“motore di riserva della Repubblica che si accende quando le altre
istituzioni si inceppano”, secondo una nota immagine di D’Alema.
Non
c’è dubbio che il motore istituzionale sarebbe inceppato se il “No”
vincesse. Ma non sarebbe un passaggio più complesso di altri già vissuti
in passato. Ci sarebbe da ripensare e riscrivere la legge elettorale su
cui sta per pronunciarsi anche la Consulta; e si dovrebbe estenderla al
Senato con le dovute differenze. Soprattutto si tratterebbe di
restituire equilibrio a un paese lacerato non su una qualsiasi riforma,
ma sulla Costituzione: la carta fondamentale, la cornice della
convivenza. S’intende che questo vale anche in caso di vittoria del
“Sì”. Se prevalessero i sostenitori della riforma, magari con uno scarto
minimo, non sarebbe di buon gusto dare il via a una sorta di baccanale:
al contrario si presenterebbero delicati problemi di attuazione della
legge. Il nuovo vestito costituzionale dovrà essere adattato alle
istituzioni già esistenti e la norma elettorale andrà comunque rivista,
non tanto per i vaghi impegni politici presi in queste settimane, quanto
per rispettare la sentenza della Corte Costituzionale.
QUINDI la
centralità della presidenza della Repubblica sarebbe confermata anche in
questo caso. Le lacerazioni del paese andrebbero ugualmente curate con
sollecitudine perché gli strappi degli ultimi giorni, con il veto-non
veto (in realtà una semplice riserva) posto al bilancio dell’Unione,
sono destinati a lasciare una traccia. Indicano che il governo Renzi sta
giocando con spavalderia tutte le carte a sua disposizione in vista del
4 dicembre. Come ha detto non senza candore il sindaco di Firenze,
Nardella, “con la stessa maggioranza silenziosa che ha fatto vincere
Trump in America, vincerà il “Sì” in Italia”.
TUTTAVIA, se
Renzi-Trump fosse sconfitto nelle urne, sarebbe giocoforza per lui
presentarsi dimissionario davanti a Mattarella. Questo non equivarrebbe a
uscire di scena. Anzi, la critica ai “governi tecnici” fa pensare
l’esatto contrario. È come se Renzi intendesse dire fra le righe al capo
dello Stato, di cui non può non riconoscere il ruolo cruciale, che lui e
il Pd non intendono appoggiare un’eventuale personalità indipendente a
cui il Quirinale avesse in animo di rivolgersi. Una simile opzione
rientrerebbe senza dubbio nelle prerogative presidenziali, purché si
riuscisse a cucire una maggioranza in Parlamento. Ma oggi è evidente che
l’unica maggioranza possibile continua a essere l’attuale, magari
rinsaldata da qualche forma di convergenza con il centrodestra
berlusconiano (a cominciare dalla legge elettorale).
Quindi è
plausibile - ma nessuno conosce al momento le intenzioni di Mattarella -
che Renzi sia rinviato alle Camere, magari dopo un giro di
consultazioni e forse un incarico esplorativo (il presidente del Senato
Grasso?). In Parlamento la maggioranza affermerebbe la sua esistenza
perché nessuno nel Pd e fra i centristi avrebbe voglia di correre alle
elezioni dopo una sconfitta. Del resto, sarebbe comunque necessario
riassestare la legge elettorale. Potremmo quindi assistere alla nascita
di un Renzi-bis attraverso un sostanziale rimpasto dei ministri. È
chiaro che il premier sarebbe gravemente indebolito dalla sconfitta, ma
non dovrebbe essere difficile per lui giustificare la nuova investitura:
avrebbe evitato il “governicchio” e assicurato la stabilità. Viceversa,
un ritiro unilaterale per rinchiudersi nella segreteria del partito,
farebbe perdere a Renzi le leve del potere e non gli garantirebbe la
sopravvivenza come leader del Pd.
In ogni caso è facile immaginare
che il mandato del presidente della Repubblica non si limiterebbe alla
riforma elettorale. Il Renzi-bis dovrebbe darsi come priorità, d’intesa
con il Quirinale, di far dimenticare gli strascichi del referendum e
restituire serenità a un paese diviso. Nonché di curare le ferite aperte
con l’Europa. Se Renzi fallisse, sarebbe il programma di un governo
istituzionale di fine legislatura.