Corriere 18.11.16
I due scenari: cosa c’è dopo le urne
Se vince il Sì. Se vince il No
di Massimo Franco
Il
referendum sulla riforma costituzionale in programma il 4 dicembre è
uno spartiacque: che vinca il Sì o prevalga il No, si chiude una fase
politica durata due anni e mezzo. E l’Italia, qualunque sia l’esito
della consultazione, ne uscirà lacerata: la campagna elettorale ha
provocato profonde divisioni nelle forze politiche dei vari schieramenti
e nella società italiana.
Se vince il Sì
Un duello finale con grillo
Che
vinca il Sì o il No, il 4 dicembre si chiude una fase politica durata
due anni e mezzo. E l’Italia ne potrebbe uscire meno stabile di prima.
Non tanto per il risultato che daranno le urne, ma per le lacerazioni
che la campagna referendaria ha prodotto tra e dentro le forze politiche
e nella società italiana. La consultazione è stata caricata di
significati così impropri e estranei allo spirito costituzionale da
averla ridotta a un surrogato, o un anticipo, di elezioni politiche.
Eppure, negli equilibri del potere gli scenari che un esito o l’altro
apriranno saranno diversi.
Una vittoria del Sì segnerebbe un
grosso punto a favore del premier Matteo Renzi e del suo partito, ben
oltre i confini incerti del Pd di oggi. L’asse con il Nuovo centrodestra
di Angelino Alfano e con Alleanza popolare di Denis Verdini ne
risulterebbe rafforzato. In tempi molto rapidi si registrerebbe un
rimpasto nel governo per renderlo meno evanescente e più adatto ad
affrontare le elezioni politiche. E all’inizio del 2017 si celebrerebbe
il congresso del Pd e si accelererebbero le dinamiche che porterebbero a
una scissione ormai in embrione.
Sulla carta, l’idea di un
rilancio della maggioranza fino al 2018 sarebbe la più naturale. Eppure,
la tentazione di capitalizzare in fretta il risultato potrebbe
rivelarsi prepotente. Un Renzi vincente difficilmente rinuncerebbe a
intestarsi i consensi referendari; e a tradurli in voti che gli
darebbero finalmente una legittimazione anche popolare. C’è da chiedersi
se il Sì vincente attenuerebbe le tensioni di queste settimane con
l’Europa. Dipenderà molto dall’atteggiamento europeo, e insieme dal tipo
di campagna elettorale per la quale il governo opterà. In questo
scenario, l’Italicum al massimo sarebbe ritoccato: quanto basta per non
trovarsi al ballottaggio con uno schieramento trasversale ostile.
Il
paradosso di Renzi è che una vittoria il 4 dicembre non annienta il
Movimento 5 Stelle: più forte è il Sì, più è verosimile la prospettiva
di elezioni politiche nelle quali lo scontro finale sarebbe proprio con
Beppe Grillo. Considerate le divisioni del centrodestra, alla fine i tre
poli si ridurrebbero a due: il partito di Renzi e il M5S. E la
probabilità che alla fine possa prevalere una forza antisistema e
antieuropea crescerebbe. Renzi è convinto che di fronte a un’opzione
così drammatica, l’elettorato convergerebbe sul suo schieramento. Ma
l’operazione sfiora l’azzardo, visto il contorno culturale, prima ancora
che politico nel quale è immerso l’Occidente. Piaccia o no, l’Italicum
che sembrava confezionato su misura per il trionfo del partito di Renzi,
oggi può rivelarsi il cavallo di Troia del primato di Grillo.
Due
anni e mezzo di renzismo non hanno intaccato la forza e il radicamento
del M5S. Almeno all’esterno, il Pd si presenta più diviso del suo
principale avversario. La popolarità del governo e del premier
galleggiano a livelli non proprio rassicuranti. In aggiunta, la
situazione economica stagnante alimenta la delusione e la pulsione
antisistema e antieuropea, delle quali Grillo e i suoi seguaci sono
insieme i portavoce e i beneficiari. Dunque, un Renzi vittorioso al
referendum dovrebbe comunque fare i conti con le insidie di una sfida in
salita, e con le incognite di un «trumpismo» in salsa italiana.
Se vince il No
Dimissioni e addio Italicum
I mercati
finanziari vedrebbero una conferma di un «trumpismo» che contagia anche
l’Italia: sebbene con Donald Trump alla Casa Bianca sia difficile
prevedere quali effetti produrrebbe una vittoria del No. È più facile
scommettere che in quel caso Matteo Renzi si presenterebbe dimissionario
al Quirinale. E non soltanto perché lui stesso l’ha dichiarato o fatto
capire più volte, con una miscela di imprudenza e di ingenuità. Il
problema è che, se non lo facesse, rimarrebbe a Palazzo Chigi alla guida
di un governo finito: non solo non eletto, ma logorato dal voto chiesto
da lui. Avere inchiodato per trenta mesi il Paese per approvare riforme
bocciate dal popolo lo delegittimerebbe senza appello. In quel caso, il
tragitto più verosimile sarebbe un altro governo chiamato a chiudere la
legge di Stabilità e a rimodellare il sistema elettorale: l’Italicum
approvato a colpi di fiducia, ultimamente è stato definito un pasticcio
pericoloso dallo stesso Pd.
A quel punto si tratterebbe di capire
in quale direzione andrebbe la riforma, e quanto occorrerebbe per
approvarla. Nell’ottica renziana, col No vincente bisognerebbe impedire
al Parlamento di andare avanti oltre la primavera del 2017. Dunque, il
vertice attuale del Pd permetterebbe la formazione di un esecutivo per
un periodo e con un obiettivo limitatissimi; e farebbe pesare i numeri
in Parlamento per ottenere lo scioglimento delle Camere e un voto quanto
prima, con Renzi saldamente leader del partito. Solo così marcherebbe
la diversità virtuosa del suo esecutivo, e l’impossibilità di
sostituirlo.
Tempi più lunghi significherebbero la riapertura dei
giochi tra i Democratici, con un esito imprevedibile per un
segretario-premier indebolito dall’esito referendario. Renzi sa bene di
essere incontrastato negli organi del Pd. Nei gruppi parlamentari,
invece, eletti nel 2013 sotto la gestione di Pier Luigi Bersani, la sua
presa potrebbe rivelarsi meno scontata, una volta apertasi la crisi e
accettate le sue dimissioni. Va capito se da quel momento non partirebbe
un’operazione per prolungare la legislatura davvero fino al 2018,
scavalcando i progetti renziani. Le difficoltà di riformare il sistema
elettorale potrebbero legittimare un anno di lavoro. Influiranno in modo
decisivo l’analisi e l’interpretazione di una sconfitta del Sì: se solo
come l’archiviazione di Renzi, o come bocciatura di un modello di
governo verticale e muscolare. Conterebbero sia la percentuale dei
votanti, sia la differenza tra No e Sì.
Le spinte per tornare a un
sistema proporzionale, anche se temperato da un qualche premio per la
coalizione vincente, sono forti. Ma soprattutto, si va radicando la
convinzione che in un Parlamento con partiti rappresentati su base
proporzionale, un predominio del Movimento 5 Stelle diventerebbe
impossibile. Nessuna formazione potrebbe prendere il controllo del
Parlamento e del governo avendo appena un terzo o poco più dei voti. La
frammentazione e la pluralità dei partiti diventerebbero non solo un
handicap ma una garanzia. Dunque, il secondo paradosso è che il No
probabilmente finirebbe per ridurre e non accentuare il rischio di
un’egemonia di Grillo. Sono scenari, non previsioni. La parola decisiva
sarà quella del capo dello Stato, Sergio Mattarella. Spetterà a lui
tirare le conclusioni politiche e istituzionali di un referendum da
metabolizzare in fretta .