La Stampa 18.11.16
Nei corridoi del Transatlantico cresce l’idea di un esecutivo istituzionale guidato da Grasso
di Fabio Martini
Sembra
un formicaio impazzito. Nel Transaltantico di Montecitorio da giorni
gli onorevoli vanno e vengono, agitati dalle notizie che planano dai
piani alti del Palazzo e da un enigma battente: se vince il No, che
governo verrà? Cinque della sera, aula vuota, davanti alla buvette si
incrociano Francesco Saverio Garofani, presidente della Commissione
Difesa, il miglior amico di Sergio Mattarella in Parlamento; Bruno
Tabacci; Luigi Meduri, già presidente della Regione Calabria e Beppe
Fioroni, ministro nell’ultimo governo Prodi ed è lui a scherzare:
«Niente paura siamo tutti democristiani!». E Tabacci, che ha sempre
coltivato rapporti al massimo livello, da Mario Draghi a Romano Prodi,
fino a Carlo De Benedetti, la vede così: «Il Sì, come spero, può ancora
vincere, ma in caso contrario credo che l’ipotesi più plausibile sia
quella di un governo istituzionale, capace di pacificare il fronte
interno e quello dei rapporti con l’Europa. Certo, bisognerà vedere le
proporzioni di un’eventuale vittoria del No. Un conto è 51 a 49 e altro
conto sarebbe 60 a 40».
L’analisi di Bruno Tabacci è la più
condivisa anche nei crocchi vicini, quelli di sinistra, di destra e di
centro: l’agenda sarà dettata dalle percentuali finali del referendum e
al tempo stesso tanti segnali lasciano pensare che, se Renzi si
dimetterà, il primo tentativo di formare un nuovo governo possa essere
affidato al presidente del Senato Pietro Grasso. Chiamato alla guida di
Palazzo Madama senza mai essere stato parlamentare, scontata l’iniziale
inesperienza, nell’ultimo anno, Grasso è entrato nel ruolo,
ritagliandosi un profilo istituzionale. Non ha un buon rapporto
personale con Renzi e con Berlusconi, ma a differenza della presidente
della Camera ha evitato interviste e interventi di taglio politico e
d’altra parte Grasso sa che un’eventuale “chiamata” sarebbe dovuta alla
sua carica istituzionale, non certo all’ultradecennale amicizia con
Sergio Mattarella.
A Grasso sembra pensare anche un personaggio
come Massimo D’Alema, destinato a riprendere influenza in caso di
vittoria del No: «Se Renzi volesse per forza dimettersi, il Capo dello
Stato, in poche ore, potrà trovare una personalità al di sopra delle
parti». Ma tutto questo Matteo Renzi lo sa. Sa che se dovesse cedere il
governo, la «transumanza» di parlamentari «bersaniani» e
«franceschiniani» che quasi tre anni fa lo premiò, stavolta potrebbe
tradirlo. Mettendo a repentaglio anche la sua idea di tenere la guida
del Pd. E infatti, da Palazzo Chigi, trapela l’ultima «pazza idea»
coltivata da Renzi: in caso di vittoria del No, prendere atto della
sconfitta, impegnandosi davanti al Capo dello Stato a dare la parola
agli elettori, non prima di avere approvato la legge di Bilancio e una
nuova legge elettorale. Un Renzi-bis di tre mesi per portare il Paese
alle elezioni ad aprile 2017. Annuisce il senatore Augusto Minzolini,
reduce da incontro con Silvio Berlusconi: «Sbagliato immaginare Forza
Italia nel governo o in maggioranza, semmai daremo una mano per fare
quella legge elettorale che Renzi proverà a fare per andare subito a
elezioni». Ma con una sconfitta netta del Sì, Renzi perderà partito e
governo? Dice il senatore bersaniano Miguel Gotor: «In ogni caso sarà
Renzi a decidere: se lui molla, la palla passa a Mattarella. Ma senza
mai dimenticarci che Renzi non è caduto dal cielo, ha avuto una
fortissima investitura popolare e la sua leadership un giorno terminerà
soltanto con una spinta eguale e contraria».