venerdì 18 novembre 2016

La Stampa 18.11.16
Nei corridoi del Transatlantico cresce l’idea di un esecutivo istituzionale guidato da Grasso
di Fabio Martini

Sembra un formicaio impazzito. Nel Transaltantico di Montecitorio da giorni gli onorevoli vanno e vengono, agitati dalle notizie che planano dai piani alti del Palazzo e da un enigma battente: se vince il No, che governo verrà? Cinque della sera, aula vuota, davanti alla buvette si incrociano Francesco Saverio Garofani, presidente della Commissione Difesa, il miglior amico di Sergio Mattarella in Parlamento; Bruno Tabacci; Luigi Meduri, già presidente della Regione Calabria e Beppe Fioroni, ministro nell’ultimo governo Prodi ed è lui a scherzare: «Niente paura siamo tutti democristiani!». E Tabacci, che ha sempre coltivato rapporti al massimo livello, da Mario Draghi a Romano Prodi, fino a Carlo De Benedetti, la vede così: «Il Sì, come spero, può ancora vincere, ma in caso contrario credo che l’ipotesi più plausibile sia quella di un governo istituzionale, capace di pacificare il fronte interno e quello dei rapporti con l’Europa. Certo, bisognerà vedere le proporzioni di un’eventuale vittoria del No. Un conto è 51 a 49 e altro conto sarebbe 60 a 40».
L’analisi di Bruno Tabacci è la più condivisa anche nei crocchi vicini, quelli di sinistra, di destra e di centro: l’agenda sarà dettata dalle percentuali finali del referendum e al tempo stesso tanti segnali lasciano pensare che, se Renzi si dimetterà, il primo tentativo di formare un nuovo governo possa essere affidato al presidente del Senato Pietro Grasso. Chiamato alla guida di Palazzo Madama senza mai essere stato parlamentare, scontata l’iniziale inesperienza, nell’ultimo anno, Grasso è entrato nel ruolo, ritagliandosi un profilo istituzionale. Non ha un buon rapporto personale con Renzi e con Berlusconi, ma a differenza della presidente della Camera ha evitato interviste e interventi di taglio politico e d’altra parte Grasso sa che un’eventuale “chiamata” sarebbe dovuta alla sua carica istituzionale, non certo all’ultradecennale amicizia con Sergio Mattarella.
A Grasso sembra pensare anche un personaggio come Massimo D’Alema, destinato a riprendere influenza in caso di vittoria del No: «Se Renzi volesse per forza dimettersi, il Capo dello Stato, in poche ore, potrà trovare una personalità al di sopra delle parti». Ma tutto questo Matteo Renzi lo sa. Sa che se dovesse cedere il governo, la «transumanza» di parlamentari «bersaniani» e «franceschiniani» che quasi tre anni fa lo premiò, stavolta potrebbe tradirlo. Mettendo a repentaglio anche la sua idea di tenere la guida del Pd. E infatti, da Palazzo Chigi, trapela l’ultima «pazza idea» coltivata da Renzi: in caso di vittoria del No, prendere atto della sconfitta, impegnandosi davanti al Capo dello Stato a dare la parola agli elettori, non prima di avere approvato la legge di Bilancio e una nuova legge elettorale. Un Renzi-bis di tre mesi per portare il Paese alle elezioni ad aprile 2017. Annuisce il senatore Augusto Minzolini, reduce da incontro con Silvio Berlusconi: «Sbagliato immaginare Forza Italia nel governo o in maggioranza, semmai daremo una mano per fare quella legge elettorale che Renzi proverà a fare per andare subito a elezioni». Ma con una sconfitta netta del Sì, Renzi perderà partito e governo? Dice il senatore bersaniano Miguel Gotor: «In ogni caso sarà Renzi a decidere: se lui molla, la palla passa a Mattarella. Ma senza mai dimenticarci che Renzi non è caduto dal cielo, ha avuto una fortissima investitura popolare e la sua leadership un giorno terminerà soltanto con una spinta eguale e contraria».