Repubblica 18.11.16
Céline
Non vi azzardate a cambiarmi nemmeno una virgola
Escono le terribili lettere agli editori inviate in trent’anni dall’autore di “Viaggio al termine della notte”
di Valerio Magrelli
Almeno
sulla narrativa del Novecento francese, non possono esserci dubbi. Come
scrisse una volta per tutte il maestro dell’antropologia, Claude
Lévi-Strauss, «Proust e Céline: ecco la mia inesauribile felicità di
lettore». Quanto al secondo, dunque, tanto vale mettere da parte la
spinosa questione dell’antisemitismo, per arrendersi alla sua immensa
statura letteraria – magari ricordando la posizione assunta da Cesare
Cases, che proponeva di stamparlo la mattina e fucilarlo nel primo
pomeriggio. Come che sia, siamo davanti a un autore il quale, nel
rifiutare Proust a favore di Rabelais, impresse un impulso inaudito alla
lingua francese. Quando si parla di Céline, inoltre, si è tranquilli di
non sbagliare mai, perché l’energia del suo stile rifulge in ogni
testo, anche nei più moralmente meschini. Ma tant’è, con buona pace di
chi vorrebbe fondere letteratu–
ra ed etica. Lo prova adesso
Lettere agli editori, un volume ottimamente curato da Martina Cardelli
per Quodlibet (pagg. 256, euro 19). Il libro presenta 219 lettere,
composte dallo scrittore fra il 9 dicembre 1931 e il 30 giugno 1961,
poche ore prima di morire. Come nota Cardelli, toni spavaldi si
alternano a pagine comiche e feroci, che ci mostrano un Céline
arrabbiato, derelitto, incensato o dimenticato, ma sempre
straordinariamente consapevole del proprio valore.
Le sue vicende
editoriali si possono dividere in tre periodi: gli anni che vanno dal
’31 all’inizio della Seconda guerra mondiale, con la pubblicazione dei
primi due capolavori ( Viaggio al termine della notte e Morte a
credito), l’inizio della notorietà e i pamphlet razzisti; l’epoca dal
’44 al ’51, con l’esilio in Danimarca sotto l’accusa di
collaborazionismo e l’uscita di alcune pubblicazioni semi-clandestine;
infine il rientro a Parigi fino alla morte.
Tre periodi, bisogna
precisare, per tre editori. Il primo fu il Robert Denoël, che nel 1931,
folgorato dall’opera prima di un medico sconosciuto (il Viaggio), non
esitò a pubblicarla. Nonostante la sconfitta al premio Goncourt,
giunsero molte recensioni entusiastiche (specie da sinistra) e
un’accoglienza da bestseller. Dopo l’uscita del secondo romanzo, che non
ebbe però lo stesso successo, Denoël pubblicò tutti i pamphlet, prima
d’essere assassinato nel 1945 per motivi tuttora misteriosi. La casa
editrice passò allora nelle mani della sua compagna Jean Voilier,
romanziera e avvocatessa che fu tra l’altro amante di Paul Valéry e
Curzio Malaparte. Céline romperà con lei per passare al secondo editore,
uno sconosciuto di nome Pierre Monnier, che si distinguerà per una
assoluta dedizione e generosità. Monnier non solo aiutò l’autore durante
dell’esilio e nel processo del febbraio 1950, ma dopo l’amnistia fu
addirittura l’artefice principale del suo passaggio a Gallimard – la cui
collana “Pléiade” sanciva l’assunzione fra i classici. E così fu: il
ritorno a Parigi e la stesura del contratto con questo terzo editore
misero fine a un doppio esilio, esistenziale e letterario.
Finalmente
legittimato, e sostenuto da un romanziere antifascista come André
Malraux, Céline approdava infine proprio a quella che avrebbe dovuto
essere sin dall’inizio la sua vera casa. Infatti, la prima lettera di
questo epistolario fu scritta appunto a Gallimard (allora edizioni della
N.R.F., “Nouvelle Revue Française”). La colpa del disguido iniziale fu
di Benjamin Crémieux, lo scopritore di Italo Svevo, che accettò sì il
Voyage, ma troppo tardi, dato che il suo autore, come si è visto, aveva
intanto firmato per Denoël. Ebbene, sapete quanto fu lunga l’attesa che
irritò tanto Céline? Incredibile a dirsi: appena due mesi e mezzo…
Questa quindi la trama della corrispondenza scelta dalla Cardelli. Resta
da dire lo splendore, la ferocia e il sarcasmo delle missive, nonché
l’abiezione del loro autore. La presunzione e l’opportunismo di Céline,
sono pari soltanto alla sua grandezza. Siamo di fronte a un vero
“effetto Wagner”, caso emblematico della spaventosa sproporzione fra un
artista e la sua arte. La sensazione che si prova leggendo il narratore
francese fa pensare a una doccia scozzese o alle montagne russe.
Proviamo allora a dimenticare l’uomo, per godere appieno della sua
scrittura. Toccanti le difese dei suoi testi da tagli e censure: «Non
aggiunga una sola sillaba senza avvertirmi!», oppure: «Rifiuto nella
maniera più assoluta di sopprimere una parola, una virgola», e ancora:
«Con o senza il mio accordo, non dovete sopprimere nemmeno una lettera».
A
questa appassionata difesa della libertà espressiva seguono
osservazioni che illuminano una poetica basata sulla scelta dell’argot,
di certe forsennate slogature sintattiche o del portentoso uso dei
puntini di sospensione. È in questa nevrosi linguistica, in questa
sontuosa frenesia (affidata alla prediletta immagine della “piccola
musica”), che culmina la maestria di Céline. Egli lavora ad una sorta di
sfregio musicale per dare vita a un francese alterato, travisato,
sfigurato, frutto di crudeltà meticolosa, di feroce sapienza, di
estenuato perfezionismo. La torturante bellezza dei suoi capolavori sta
tutta nella forza con la quale lo stile si dimostra in grado di cantare
l’orrore. Lo mostrò egli stesso, commentando con parole illuminanti la
sostanza della violenza dispiegata nel teatro elisabettiano: «L’orrore è
niente, senza il sogno e la musica… 3/4 di flauto, 1/4 di sangue».
Macbeth è puro Grand-Guignol senza musica, senza sogno… Prendiamo Shakespeare:
IL LIBRO Lettere agli editori di Louis F. Céline esce da Quodlibet a cura di Martina Cardelli