Repubblica 14.11.16
Duello in tribunale per i silenzi sullo sterminio
Da giovedì in sala “La verità negata” che ricostruisce la battaglia legale tra Deborah Lipstad e David Irving sull’Olocausto
L’abuso della libertà di opinione non può far perdere di vista il peso delle parole
di Umberto Gentiloni
SIEDONO
a pochi metri di distanza nell’angusto perimetro di un’aula di
tribunale, gli sguardi s’incrociano a fatica, lui solitario e
tranquillo, spesso in piedi, lei irrequieta e seduta, circondata da un
squadra composita che la sostiene e a fatica cerca di calmarla. Il film
La verità negata (dal 17 in sala) percorre la parte conclusiva di
un’istruttoria che si apre nel 1996 per culminare nel 2000 a Londra in
una battaglia legale lunga quattro mesi. Una causa per diffamazione
contro la Penguin Books e la studiosa americana Deborah Lipstad mette a
confronto un sedicente esperto di storia David Irving, con un pool di
avvocati e storici chiamati a difendere le ragioni del libro bersaglio
delle accuse.
L’autrice aveva definito Irving «un pericoloso
negazionista falsificatore della storia» (Denying the Holocaust: The
Growing Assault on Truth and Memory, 1993). Un confronto serrato che
secondo le regole del sistema britannico consegna l’onere della prova
all’imputato: è la storica a dover dimostrare la fondatezza delle sue
tesi e la rilevanza delle fonti. Una battaglia della verità contro la
menzogna, della storia contro le sue falsificazioni strumentali.
Il
film ha un grande pregio: quello di trovare un equilibrio tra il
percorso della controversia giuridica e i grandi interrogativi di una
dialettica che va ben al di là dei protagonisti e del loro
comportamento. Il tema di fondo è quello del confine tra la libertà di
opinione, il suo esercizio democratico e la perversa e ostinata azione
di chi usa quella libertà per farne strali e poterne sacrificare parti
costitutive. Non è film sull’Olocausto, né un documentario fondato su un
iter processuale: la trama incalzante scuote i protagonisti, chiama in
causa memorie e soggettività, rischia di capovolgere acquisizioni
sedimentate.
Ne aveva scritto nel 2005 la Lipstad dopo la felice
conclusione della sua avventura giudiziaria ( History on Trial: My Day
in Court With a Holocaust Denier) e il film s’ispira a quelle pagine
sofferte. Piani diversi si sovrappongono nella struttura narrativa, il
processo è solo un primo tassello di un mosaico di giudizi e
considerazioni che si muovono sullo sfondo. Il responso conduce alla
sconfitta di un falso esercizio della libertà di esprimere opinioni e
giudizi. Non esiste un confine certo e rassicurante tra opinione e
menzogna. Ma quando le opinioni mostrano strumentalità e malafede (è la
parte più efficace della demolizione delle argomentazioni e delle fonti
di Irving) allora non tutto è sullo stesso piano, né «si può sostenere
in buonafede che la terra non è rotonda o affermare pubblicamente che
Elvis è ancora vivo». Il confronto libero non è in discussione, ma con
«gli assassini della memoria», con chi nega acquisizioni e conoscenze
non si può mediare, non gli si stringe neppure la mano come sceglie di
fare l’avvocato dell’imputata (uno straordinario Tom Wilkinson) dopo il
pronunciamento della sentenza.
L’uso strumentale o l’abuso della
libertà di opinione non può far perdere di vista il peso delle parole,
le ricadute di giudizi privi di dignità scientifica, capaci di rigettare
i parametri condivisi della ricerca ponendosi al di fuori delle regole
costitutive del dibattito storiografico. Le prove schiacciati e plurali,
i numeri verificabili e accertati mettono in causa quell’odioso
procedere di chi vuole negare l’evidenza: il richiamo a dettagli
marginali o irrilevanti che confutati strumentalmente mirano a mettere
in discussione l’intero paradigma cognitivo della «soluzione finale».
La
negazione è parte costitutiva dello sterminio. Primo Levi disse che chi
negava Auschwitz era pronto a rifarlo. Lo abbiamo appreso dai processi,
dalle testimonianze dei sopravvissuti, dal lavoro di generazioni di
studiosi che hanno contribuito a squarciare il velo delle menzogne
interrogando il mondo sulle responsabilità, le contiguità, le delazioni e
le tante terribili e imperdonabili indifferenze.
Ecco il punto
qualificante della difesa che sceglie di tener fuori dalla dialettica
del dibattimento tanto l’autrice (che non riesce inizialmente a farsene
una ragione) quanto i sopravvissuti (che cercano con insistenza
interlocutori e attenzioni da parte dei protagonisti). I testimoni non
prendono la parola, non intervengono di fronte a chi nega la loro stessa
dignità di esistere: non è all’ordine del giorno la confutazione dello
sterminio del popolo ebraico, la presunta diffamazione riguarda le tesi
di un libro, il lavoro di una storica, il metodo con cui si interroga il
passato. L’amplificazione mediatica sarebbe dannosa, controproducente,
un regalo a chi cerca le luci della ribalta. Ciò che davvero conta è la
vittoria finale, il responso nella sua felice congruenza con la
trasmissione di memorie e la diffusione di conoscenze condivise.