Corriere 14.11.16
Compromesso (non) storico
Aldo Moro non cercò un’intesa stabile, si limitò a trattare una tregua col Pci
di Paolo Mieli
A
cent’anni dalla nascita è giunto il momento di smetterla di credere
«alla favola che sia stato ucciso perché stava preparando il compromesso
storico con i comunisti». È questo il punto di partenza di un
importante libro di Massimo Mastrogregori, Moro (che sta per essere
pubblicato per i tipi della Salerno), particolarmente attento ai
rapporti tra lo statista democristiano e i partiti di sinistra. Rapporti
che promettevano di evolversi in qualcosa di più impegnativo allorché
Moro, già leader della Federazione degli universitari cattolici, tra il
1944 e il 1945 guardò per così dire con interesse al mondo socialista e a
quello comunista. Ne è testimonianza un suo articolo su «La Rassegna»
del 6 luglio 1944, in cui disegna uno scenario («assai ardito», lo
definisce Mastrogregori) di conciliazione del mondo occidentale con
quello sovietico. Tesi non in sintonia con le idee che all’epoca
circolavano in Vaticano: passeranno tre settimane e il 1° agosto Papa
Pio XII si pronuncerà esplicitamente contro la collaborazione con
comunisti e socialisti.
Ma l’uomo politico insisterà nelle sue
relazioni con i partiti di Palmiro Togliatti e Pietro Nenni. La sua
rivista, «Studium», ospiterà nel numero 7-8 del 1945 la pubblicità del
periodico comunista «Società» (edito da Einaudi) e nel numero di
dicembre comparirà un articolo che suggerirà ai cattolici di avvicinare e
riconquistare i comunisti. Lui stesso, stando ad alcune testimonianze
dell’epoca, li avvicinò. Nei diari di Antonio Segni alla data 19 marzo
1960 è annotato che l’uomo dell’Ufficio affari riservati, Federico
Umberto D’Amato, gli avrebbe riferito di un colloquio con l’ex dirigente
comunista Eugenio Reale secondo il quale Moro nel 1944 aveva presentato
— al segretario del Pci pugliese Antonio Di Donato — una domanda di
iscrizione al partito di Togliatti. Dopo che questa richiesta era stata
respinta (per decisione, a suo dire, dello stesso Reale), Moro ne aveva
presentata una seconda, al segretario locale del Psi Eugenio
Laricchiuta. Anch’essa rigettata, ma di cui, in anni successivi, furono
in grado di riferire circostanziatamente Giuseppe Saragat e Francesco De
Martino. Qui Mastrogregori prende per buone le testimonianze (in
particolare quella di Reale), ma ipotizza che il giovane politico
pugliese fosse stato autorizzato dalla Chiesa a «svolgere una missione
presso i partiti anticristiani».
In ogni caso Moro, entrato subito
dopo nella Dc, continuò a manifestare attenzione nei confronti dei
comunisti. Ai lavori della Costituente Alcide De Gasperi notò che quel
politico alle prime armi aveva «sostenuto gli articoli sociali di
sinistra» e lo definì (in privato) «un professore che ha combinato
qualche guaio». Togliatti si accorse di «quel giovane di Bari»: secondo
le testimonianze di Nilde Iotti e Luciano Barca, affidò al parlamentare
comunista Renzo Laconi il compito di interloquire costantemente con lui.
E decise di accordare alcune concessioni alla scuola cattolica (materia
su cui Moro era relatore) anche a costo di scontentare un grande
intellettuale, Concetto Marchesi, che proprio con Moro non aveva trovato
l’accordo.
Dopodiché, negli anni della guerra fredda, Moro fu un
anticomunista inflessibile. Ma, nel contempo, si segnalò per alcuni
gesti di duttilità nei confronti dei partiti di sinistra. Nel voto
decisivo che il 27 maggio del 1947 escluse comunisti e socialisti dal
governo, Moro si astenne. Quando si discusse del Patto atlantico, da
sottosegretario agli Esteri fece avere a Giuseppe Dossetti documenti
riservati utili a rafforzarne le convinzioni antiamericane: di nuovo si
ebbe qui la reazione indispettita di De Gasperi. Fu relatore su un
progetto assai benevolo per il pagamento delle riparazioni di guerra
all’Unione Sovietica. La sera del 22 dicembre 1950 disertò il voto su
una mozione governativa a favore dell’intervento statunitense in Corea.
In privato però rimproverava al Pci di non essersi schierato dalla parte
di Tito nella controversia con Stalin e nel 1953, alla morte del
dittatore sovietico, criticava Nenni per qualche suo eccesso nelle
espressioni di compianto.
Il 19 ottobre del 1954 il democristiano
Giuseppe Togni tuonò contro i comunisti «sudditi di un Paese straniero»:
Moro, da capogruppo della Dc, prese le distanze. Nella seconda metà
degli anni Cinquanta, soprattutto dopo le mancate conseguenze tratte in
casa comunista dalle rivelazioni di Nikita Krusciov sui crimini di
Stalin e la repressione sovietica in Ungheria, Moro fu sempre più netto
nella sua ostilità al Pci. Nel 1956 fu tra i principali promotori di
Stay behind e nel luglio del 1960 difese fino all’ultimo il governo
Tambroni sostenuto dai voti missini. Anche quando fu chiaro che sarebbe
stato travolto dalle manifestazioni di piazza. Quando poi si trattò di
edificare il centrosinistra, fu il regista di una costruzione assai
complessa, riuscendo là dove non erano riusciti né Giovanni Gronchi, né
Amintore Fanfani. Nenni all’inizio lo sottovalutò: quando Moro, nel
1959, fu eletto segretario della Dc, il leader socialista non ritenne
neanche di prenderne nota nel suo diario. Poi però i due si intesero
sempre di più e Nenni, divenuto suo vice alla guida del governo, ebbe
modo di accorgersi di quanto invece Moro diffidasse di Ugo La Malfa.
N
ell’estate del 1964 Moro non credette che fosse in atto un colpo di
Stato da parte del generale Giovanni De Lorenzo. E non se ne convinse
neanche nel 1967, quando, sulla scia delle rivelazioni dell’«Espresso»,
Nenni si persuase che nel luglio di tre anni prima l’Italia era stata
sull’orlo di un golpe. Fu Moro a escogitare la formula grazie alla quale
Giuseppe Saragat, alla fine del 1964, fu eletto presidente della
Repubblica. Poi nel 1968 i socialisti unificati non otterranno l’atteso
premio dalle urne, il suo governo entrerà in crisi e lui inizierà a
cercare di coinvolgere i comunisti.
«Moro nella veste insolita di
estremista», si allarma Nenni nei suoi diari. Niente di più lontano dal
vero. Moro capisce che la Dc, per restare centrale nel sistema politico,
deve dar vita ad equilibri «più avanzati», ma non riesce a convincere a
fondo né la gran parte dei suoi compagni di partito, né l’alleato
americano. E neanche i comunisti, il cui giudizio nei suoi confronti è
altalenante. Ancora nel 1976, quando il Pci di Enrico Berlinguer entra
nell’area di governo, le esitazioni sono molte. Così «l’idea di un Moro
demiurgo della politica italiana, abile regista eliminato col sequestro e
l’assassinio per deviare sviluppi politici ben definiti e avviati,
ancorché molto diffusa», scrive Mastrogregori, «non è per niente
realistica». Di conseguenza anche le pagine dedicate al rapimento e
all’uccisione dello statista (1978) sono assai meno dietrologiche di
quanto è consueto trovare nelle ricostruzioni anche accurate sulla sua
vita.
Ma allora quali furono i veri rapporti di Moro con il Pci?
Nel suo recente L’arte del non governo (Marsilio), Piero Craveri osserva
che c’era una sintonia solo apparente tra la visione di Moro «di una
democrazia che doveva essere operante» e la proposta di Berlinguer del
compromesso storico. Per Moro «l’unione delle forze politiche ai fini di
una “solidarietà nazionale” era di natura transeunte e si fondava
logicamente, come in tutte le democrazie liberali, sulla situazione di
straordinaria emergenza che si era venuta creando, i cui caratteri erano
politici ed economico-sociali». Per Berlinguer avrebbe dovuto avere
invece carattere «permanente», andava considerata come «un approdo» la
cui finalità era di «carattere istituzionale».
Anche Guido
Formigoni, in Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma (il Mulino),
insiste su questo punto: il processo che aveva in mente lo statista
democristiano, «doveva consolidare il sistema democratico e accompagnare
l’evoluzione ideologica e politica del maggior partito di opposizione,
senza cedere per principio a logiche strettamente consociative, oppure
allo schema berlingueriano del compromesso storico». Altro che abbraccio
tra Dc e Pci.
Q uella rappresentata dalla statua di Maglie di
Aldo Moro con l’«Unità» sottobraccio è quantomeno una forzatura. La
sinistra politica e culturale guardò sempre a lui con diffidenza.
Natalia Ginzburg lo definì «dromedario grande e triste»; Giorgio Agosti
lo descrisse come «viscidamente pretesco» e «infido»; Palmiro Togliatti
irrise a quel «De Gasperi alessandrino»; per Pietro Ingrao fu
nient’altro che un «gesuita»; per Davide Lajolo dava «il senso della
pioggia uggiosa delle scure giornate invernali», era «un Mefistofele di
sacrestia, dalle parole foderate di grigio e dalla smorfia dolciastra,
che sta seduto al banco del governo con la stessa noia con cui sta
genuflesso in chiesa, molle e resistente come la gomma»; Pier Paolo
Pasolini scrisse che la sua era «la lingua della menzogna».
Del
resto, in un volumetto del 1976 cioè l’epoca dell’unità nazionale — Moro
(Feltrinelli), libro peraltro simpatizzante nei confronti dello
statista democristiano — un importante giornalista comunista, che
dell’«Unità» fu condirettore, Aniello Coppola, scriveva di lui in toni
quasi sprezzanti: quell’uomo era «certamente uno dei principali
responsabili» della «degenerazione degli apparati pubblici, del
decadimento dello Stato, della riduzione della politica a gioco di
formule e a mera diplomazia istituzionale». Era anzi «l’emblema di
questo modo — sempre più contagioso — di fare politica».
M a
davvero lo statista democristiano fu l’emblema di questo modo di fare
politica? Nel libro Intervista su Aldo Moro , a cura di Alfonso Alfonsi
(Rubbettino), George L. Mosse ha osservato che «la carriera politica di
Aldo Moro assume un significato di interesse generale perché è
strettamente collegata a quella crisi del sistema di governo
parlamentare manifestatasi in tutta la sua gravità nel corso del XX
secolo». Emilio Gentile ha recentemente osservato come queste acute
osservazioni di Mosse (del 1979) «si leggono oggi con maggiore
inquietudine», se si stabilisce un confronto tra la crisi della
democrazia parlamentare degli anni Settanta e quella attuale. Mosse notò
che a Moro non piaceva la televisione ed era incapace di usare i mezzi
di comunicazione più moderni. Anche Mastrogregori mette in risalto come
Moro non sapesse «parlare al popolo» né usare la televisione. Andò a
Londra in treno — nella vettura presidenziale costruita nel 1940 per
Mussolini, dotata di camera da letto, studio, saloncino, sala da pranzo —
mettendoci due giorni per arrivare a Victoria Station: «Trasmetteva
un’immagine di lentezza e di arretratezza». Il modo di comunicare più
avveniristico per lui era scrivere editoriali molto molto complessi per
«Il Giorno» (ne stava correggendo uno, in auto, anche la mattina in cui
fu rapito). Tutto ciò — sosteneva Mosse — nel momento in cui, per
vincere la sfida dei movimenti antidemocratici, gli uomini politici
avrebbero dovuto imparare a usare miti, simboli, riti collettivi, ogni
strumento della moderna comunicazione di massa. Anche se in questo Mosse
intravedeva alcuni pericoli: «Nel destino di Moro si prefigurava il
paradosso della democrazia parlamentare… se si vuole essere uno statista
bisogna essere in una certa misura un capo carismatico, bisogna fare
appello, a seconda dei casi, al sentimento nazionale e ad altre
passioni, per condurre la gente verso nuove mete». Nella consapevolezza
che «se si fa tutto ciò, si corre il rischio di trasformare il sistema
in una dittatura».
Moro in ogni caso si rifiutò di far propri
questi nuovi modelli. Ai quali invece si adattò — in una certa misura —
Berlinguer. E dagli «appunti» di un collaboratore di Moro, Andrea
Negrotto di Cambiano, si è appreso che, anche per questo, il leader
democristiano considerò quello comunista «non dotato, purtroppo, di
quella vera grande visione politica» di cui era accreditato; al più «un
grande tattico, capace di sfruttare con abilità le situazioni
contingenti». È solo per motivi «di propaganda e apologetici», conclude
Mastrogregori, che ci si è poi concentrati sulla figura di Moro come
«tessitore di un accordo con il Pci». In realtà «egli fu, negli ultimi
due anni della sua vita, più il negoziatore di una tregua armata — non
solo metaforicamente — che non il creatore di nuovi equilibri sul punto
di realizzarsi». Un giudizio in controtendenza.