lunedì 14 novembre 2016

La Stampa 14.11.16
Cinesi e polacchi minacciano gli Stradivari italiani
Guerra dei prezzi. Su un mercato di 30 milioni di pezzi solo 5000 vengono prodotti dai nostri liutai
Uto Ughi: “Ma i nostri violini cantano”
di Sandro Cappelletto

Ogni anno le grandi fabbriche producono, in tutto il mondo, circa trenta milioni di violini e strumenti ad arco, destinati ad un mercato molto aggressivo e dalle dimensioni globali.
Da tutti i laboratori dei liutai italiani ne escono soltanto cinquemila, un’inezia. E se un violino cinese costa cento euro, ce ne vogliono 10.000 per acquistare un nostro strumento. Una concorrenza impossibile. Con gli Stradivari, gli Amati, i Guarneri del Gesù, i Montagnana, i Guadagnini, l’Italia ha tenuto a lungo il primato in un settore dove convivono artigianato e arte, tecnica e intuito, l’amore per un mestiere antico e l’incertezza della quotidianità.
Un primato che abbiamo perduto, almeno in termini di quantità, così che continuare a vivere facendo questo mestiere è diventato, per i liutai italiani, molto difficile. «I migliori strumenti devono avere le caratteristiche della voce umana: quando accade, si dice che uno strumento “canta”. Per la bellezza del suono, gli italiani hanno ancora il primato assoluto», dice convinto Uto Ughi.
Ma con la bellezza del suono si riesce a mandare avanti la propria bottega? «Con molta fatica, perché le altre nazioni fanno sistema, mentre da noi manca il lavoro di squadra, ognuno gioca per conto suo e la capacità organizzativa d’insieme è scarsa. Di fronte ad una competizione molto agguerrita, diffusa ovunque, dalla Cina alla Romania alla Polonia agli Stati Uniti, noi non siamo ancora in grado di produrre lo strumento da studio, da noleggio, affidabile ma accessibile, proposto ad un prezzo che non spaventi le famiglie, diventando così un ulteriore volano per la nostra economia. Dobbiamo capire questo, se non vogliamo entrare presto in crisi», dice Antonio Piva, presidente di Cremona Fiere.
Centocinquanta botteghe di liutai (la metà di tutti i liutai italiani), una scuola di liuteria con 170 iscritti provenienti da 15 nazioni, un Museo del violino, un nuovo Auditorium, una fiera e un festival che richiamano ogni anno 300 espositori: Cremona, la città di Stradivari, lotta per mantenere alta la sua visibilità. «Anche l’ultima edizione di Cremona Musica è andata bene. Il messaggio è arrivato: a Cremona si produce soltanto l’alta qualità, i nostri strumenti non sono fatti in serie, con il pantografo, come accade altrove. Ma è sempre più difficile sposare questa qualità con la sostenibilità economica».
Grande bellezza da una parte, magro portafoglio dall’altra? E quale bellezza scegliere, quella di un violino che porta su di sé secoli di storia o quella di uno strumento creato oggi? «Sono due bellezze distinte: la prima ha l’eleganza e il fascino di un qualcosa che è stato in mani grandi che hanno lasciato su di lui delle impronte indelebili, e ha visto avvenimenti storici che noi possiamo soltanto immaginare; la seconda possiede la brillantezza e la forza della giovane età», dice Francesco Iorio, liutaio attivo tra Trento, Torino e ovunque lo porti un lavoro spesso scandito da urgentissimi viaggi di pronto soccorso quando riceve invocazioni di aiuto dai suoi clienti musicisti.
«Senti come suona? E‘ una meraviglia». Alina Company, primo violino del Quartetto di Fiesole, è soddisfatta del suo nuovo acquisto, uno strumento costruito nel 1971 da Mario Capicchioni, assieme a Sesto Rocchi, Ansaldo Poggi, Otello Bignami uno dei più stimati liutai italiani del Novecento, la cui memoria rischia oggi di perdersi, sovrastata dall’invasione dello strumento industriale. «La scelta di un violino è questione di feeling tra la tua e la sua personalità. Un buon strumento moderno è sano e stabile, non ti lascia a piedi. Uno antico può avere delle magagne nascoste, dimostrarsi lunatico. Due giganti come David Ojstrach e Yehudi Menuhin suonavano dei Capicchioni».
Ma che cosa ancora contraddistingue la liuteria italiana? «L’influenza di tutto quello che ci circonda. Se guardo fuori dalla finestra in una qualsiasi nostra città, male che vada vedo una chiesa del Settecento. Il clima che si respira a Cremona – lo zero cartesiano, l’origine della liuteria – ha tuttora qualcosa di magico. Come se lì il tempo procedesse più lento. Ma attenzione: questa eredità, questo compiacimento possono diventare un problema rispetto al mercato internazionale», riflette ancora Iorio.
Il suono di Castelfidardo
La nascita della principale vocazione di Castelfidardo appartiene ormai alla sfera del mito. E’ il 1863, Marche e Umbria sono state appena annesse al Regno d’Italia, quando un pellegrino austriaco, di ritorno dal santuario di Loreto, chiede ospitalità ad una famiglia che abita in queste campagne. Ha con sé una ’’scatola sonora” che incanta il figlio di quei contadini. Il pellegrino vende il suo organetto, oppure lo regala, o il ragazzo lo smonta e rimonta durante la notte e ne impara il funzionamento? Poco importa; passano pochi mesi e quel ragazzo, Paolo Soprani, apre la prima bottega di fisarmonica. È l’inizio di una formidabile avventura industriale e artistica che oggi il Museo della Fisarmonica, racconta molto bene.
«Il mestiere si tramanda di generazione in generazione. Ha cominciato il mio bisnonno, oggi mio padre, mio zio e io lo portiamo avanti. Mio figlio ha diciotto mesi, presto per dire se continuerà. Abbiamo 45 dipendenti, produciamo 1200 strumenti ogni anno», dice Federico Pigini. «Noi occupiamo la fascia alta del mercato che ogni anno si riduce a vantaggio di strumenti più abbordabili, non fabbricati in Italia. Il rischio è che ci facciamo la guerra tra di noi». A Castelfidardo sono attive 10 aziende e 15 laboratori, oltre ad una rete diffusa di artigiani che forniscono i pezzi necessari alla fabbricazione di uno strumento tanto bello quanto complesso. Legno, celluloide, alluminio, acciaio, cartone, tessuto, pelli, cera: per costruire una fisarmonica servono tutti questi materiali. E la madreperla, oppure più modestamente l’acrilico, per i bottoni. «Non è come per gli strumenti ad arco, dove lavora un solo artigiano, noi abbiamo bisogno di tanti artigiani specializzati. Se la produzione rallenta, è tutto l’indotto che ne risente, in una regione già provata dalla crisi e che ora vive l’angoscia del terremoto continuo». Che cosa rende migliore i vostri strumenti? «Il rapporto tra la qualità del suono, la buona funzionalità meccanica, l’ergonomia. E l’affidabilità: i nostri clienti lo sanno».
Anche per Stefano Mengascini la passione è nata in famiglia: «Mio padre accorda fisarmoniche da 65 anni, sempre lavorando in casa. Il primo suono che mio fratello Fabio e io abbiamo sentito è quello di una fisarmonica». Il suo laboratorio produce 700 strumenti ogni anno. «Un modello semi-professionale non può costare meno di 1500 euro: per completarlo occorrono circa tre mesi. Sotto quel prezzo, si può essere certi che non viene da una fabbrica italiana e d’altra parte sotto certi livelli noi non possiamo scendere. E’ la nostra forza e il nostro limite». Ogni costruttore lavora per conto proprio o vi sentite parte di una comunità? «Il senso di appartenenza ad una tradizione secolare è molto forte. Ma dobbiamo rifletter tutti assieme su come meglio difendere il nostro marchio».
Il Festival Internazionale della Fisarmonica - che ospita i migliori strumentisti - ha compiuto 40 anni; durante l’anno si susseguono dei concerti, ma il rischio avvertito da tutti è che per garantire il futuro di Castelfidardo e delle sue fisarmoniche questo non basti: «E’ sempre mancata la progettualità. Le pare possibile che non abbiamo un vero auditorium di livello internazionale? I nostri concerti si svolgono in un cinema-teatro non all’altezza. Poniamoci l’obiettivo di realizzarlo», propone con forza Federico Pigini.
I pianoforti di Sacile
Le arpe Salvi di Piasco, le ocarine di Budrio, i sassofoni di Quarna Sotto, i mandolini di Napoli e Catania: sono ancora numerose le realtà capaci di creare strumenti belli ed apprezzati, anche se ovunque è diffuso il timore che restare competitivi stia diventando sempre più difficile. Il filo che lega queste storie racconta di abilità, di estro, dell’orgoglio di avere alle spalle una storia e una tradizione. Ma la vicenda più sorprendente nasce a Sacile, a dimostrazione che non ascoltare quelli che ti dicono che per il tuo mestiere non c’è futuro può essere la scelta vincente.
E’ il 1981 e tante piccole nostre fabbriche di pianoforte stanno chiudendo; ai rivali di sempre, anzitutto la Steinway, con le sue sedi ad Amburgo e New York, si aggiungono le nuove realtà asiatiche: la Kawai e soprattutto la Yamaha, così robusta che finirà per acquisire lo storico marchio austriaco Boesendorfer. In questo spietato contesto internazionale un ingegnere meccanico che aveva allora 36 anni, lascia il mobilificio di famiglia e fonda una nuova azienda. Nascono i pianoforti Fazioli. Lui, Paolo Fazioli, è romano, ma l’attività la impianta in questo paese al confine tra Veneto e Friuli: dai veneti ha preso l’attitudine al “fasso tutto mi”, dai friulani la tenace determinazione. Ingegnere, e con il diploma di pianoforte, è sostenuto da un’idea di fondo: costruire «i migliori pianoforti del mondo» utilizzando l’abete rosso della Val di Fiemme, il legno usato dai più grandi liutai. Trentacinque anni dopo, Fazioli è un marchio mondiale: 50 dipendenti, 136 esemplari costruiti nel 2015, un terzo capannone inaugurato da poco, fatturato attorno ai 9 milioni di euro, oltre il 90% delle vendite all’estero. «E all’estero ho anche pensato di andare, perché lavorare in Italia è una sfida continua a divieti, pressioni, lentezze: ho aspettato anni i permessi per poter costruire il nuovo padiglione, dovevo respingere gli ordini!»
Quando la Juilliard School di New York ha acquistato un suo strumento, l’ingegnere musicista ha capito che la sfida di una vita poteva dirsi vinta e si è concesso un regalo. Una sala da concerto dedicata alla musica da camera, costruita accanto alla fabbrica. «Perché così, mentre ascolti la bellezza del suono nascere dalle mani di chi fa vivere l’oggetto che hai creato, ami senza fine il tuo lavoro».