La Stampa 14.11.16
La diva di Omero ormai canta solo il Vietnam
Il
simpatizzante di Viet Thanh Nguyen ci rivela che quella guerra degli
Anni 70 è stata l’ultima in cui l’Occidente abbia, almeno in parte,
creduto
di Antonio Scurati
La battaglia che
proprio in questo momento si sta combattendo a Mosul non avrà,
probabilmente, il suo Omero. È una battaglia, continuiamo a ripeterci,
decisiva per la nostra sorte, eppure non troverà un cantore capace di
farla penetrare, attraverso una narrazione epica, nella coscienza
storica dell’Occidente sottraendola alle fosse comuni dell’oblio
cronachistico. E non avrà il suo Omero nemmeno la battaglia per Raqqa,
che si annuncia imminente, così come non lo hanno avuto le battaglie per
Baghdad della Prima e della Seconda guerra del Golfo o quelle della
guerra d’Afghanistan. Il racconto di questi conflitti si esaurisce quasi
interamente nell’effimero mediatico, accendendosi brevemente in schiume
di superficie sulla cresta dell’onda giornalistica per tornare presto
silente senza quasi lasciare traccia. Salvo poi predisporci al prossimo
tuffo nello scannatoio su grande scala, senza costrutto e senza
direzione. Senza destino.
Le ragioni di questa cronachizzazione
della guerra - e della complementare cronicizzazione - sono molte.
Influisce sicuramente il sequestro dei fronti di guerra, ma non va
dimenticato che le guerre del Golfo hanno registrato una copertura
mediatica senza precedenti e proprio quella sovraesposizione ha dato
luogo a una paradossale proporzionalità inversa tra massa d’informazioni
e narrazioni memorabili. A rendere refrattaria la coscienza storica
dell’Occidente nei confronti delle sue guerre attuali è, più
probabilmente, la mancanza di un profondo coinvolgimento esistenziale e
ideologico del nostro popolo. Sono guerre «aliene» perché combattute da
eserciti professionali e in assenza di autentiche motivazioni ideali.
Due volte «lontane», sia dalla base esperienziale sia dai tumulti della
coscienza civile, restano sospese in un limbo d’irrealtà, tra la veglia e
il sogno, tra il vero e il finto, impigliate in una sorta di primitiva
mente bicamerale che non sa riconoscere i pensieri come propri e li
attribuisce a voci di maligne divinità mediatiche.
L’ultima
«nostra» guerra che si è dimostrata capace di fecondare l’immaginario
artistico alimentando una grande letteratura e, soprattutto, grande
cinema, è stata la guerra del Vietnam. Non è, perciò, un caso che a
distanza di quarant’anni dalla sua conclusione la grande letteratura di
guerra dell’Occidente americano attinga la propria materia narrativa
ancora a quell’ormai remoto conflitto. Lo testimonia il romanzo Il
simpatizzante di Viet Thanh Nguyen, premio Pulitzer 2016, accolto negli
Stati Uniti da un coro unanime di straordinario entusiasmo critico (Neri
Pozza, pp. 511, € 18).
Il protagonista, spia totale
Il
simpatizzante è un romanzo magistrale, l’opera di un maestro della
scuola del sospetto. Il suo protagonista - e voce narrante - è un
doppiogiochista che gioca due giochi entrambi sporchi, una spia totale,
un agente in sonno e in veglia, l’uomo di fiducia di un generale a capo
della polizia segreta dell’esercito sud-vietnamita che però fotografa in
segreto ogni dispaccio segreto e lo invia ai Vietcong di cui da ragazzo
ha abbracciato la causa rivoluzionaria, un uomo con due facce, entrambe
sordide, eppure candido nella sua integrale disperazione. Il Capitano
è, infatti, un individuo scisso non per degenerazione, ma per un difetto
d’origine. Figlio illegittimo di una contadina vietnamita e di un prete
cattolico, meticcio per destino, viene istruito nelle università
statunitensi alla cui cultura lo legherà sempre un insuperabile doppio
legame di amore-odio, e sarà condannato dal fato anche a lacerarsi nella
sfera dei sentimenti privati dovendo scegliere, senza poterlo fare, tra
i due amici d’infanzia, Man e Bon, il primo addestratore dei Vietcong e
il secondo addestrato dalla Cia.
Questa sanguinosa mascherata
universale non autorizza, però, a sperare in nessuno smascheramento.
Nella parte centrale del romanzo, il Capitano, esiliato in California al
seguito del suo generale ma costantemente al servizio dei comunisti che
hanno trionfato in Vietnam, si trova a far da consulente per Hollywood,
la fabbrica di storie americane, nella consapevolezza che gli
spettatori di tutto il mondo le avrebbero continuate ad adorare «almeno
fino al giorno in cui non fossero stati bombardati da quegli stessi
aerei che avevano visto sul grande schermo».
Un io scisso
Ma
attenzione: nella prospettiva di Nguyen e del suo simpatizzante non ha
senso contrapporre alla finzione hollywoodiana una realtà
demistificante, all’imperialismo americano la rivoluzione comunista,
alle torture della Cia quelle dei Vietcong. Tutto è narrato in un clima
da dopo-bomba, dopo la resa di ogni incantamento, come dall’ultimo
esemplare di una specie da troppo tempo in via di estinzione. Il
colonialismo occidentale si è inabissato nel suo cuore di tenebra ma il
post-colonialismo non ha fatto di meglio. L’io scisso del Capitano, e
del suo autore - figlio di profughi vietnamiti dopo la caduta di Saigon
-, non è lacerato tra due fedi, e tra due disinganni, è immerso nello
struggente tono tragicomico, nello scetticismo universale, la speciale
condanna di chi deve condurre un’esistenza postuma, venendo dopo la
fine. La versione di Hollywood resterà, perciò, quella definitiva.
In
virtù di questo, Il simpatizzante non è l’ennesima contro-narrazione da
Oriente sulla guerra del Vietnam degli Anni 70, ma la voce narrante di
questo nostro attuale Occidente che non trova più ragioni per cantare le
guerre che ancora ci restano da combattere. Quella voce ci suggerisce
che il Vietnam è stata l’ultima guerra in cui l’Occidente abbia, almeno
in parte, davvero creduto. L’ultima che abbia «vissuto». L’ultima
combattuta in prima persona da un esercito di leva. L’ultima che abbia
causato un disincanto autentico e profondo. L’ultima occasione in cui
l’Occidente avanzò con convinzione una pretesa egemonica sul resto del
mondo. L’ultimo ricordo di gioventù di un Occidente oggi senile.