lunedì 14 novembre 2016

Repubblica 14.11.16
L’altro populismo
di Roberto Esposito

CHE l’imprevista vittoria di Trump, a pochi mesi dalla Brexit, richieda un profondo mutamento delle nostre categorie di analisi politica è evidente. Tutti i commenti post- elettorali ne sottolineano l’urgenza. “Il mondo è cambiato” — titolava la copertina di Repubblica nel day after. Ma in che forma? Qual è l’epicentro della trasformazione in atto? E che tipo di risposta richiede? Nell’occhio del ciclone è la nozione di populismo, come è usata nelle analisi politologiche, nei media e nella battaglia politica.
DA TEMPO essa è utilizzata per delegittimare gli avversari politici, pronti a loro volta ad adoperarla allo stesso modo contro i propri. Ma tale reversibilità dell’accusa di populismo — rivolta indifferentemente alle forze di governo e di opposizione — allo stesso tempo nasconde e rivela la novità in corso. E cioè che quanto viene definito populismo sta occupando, in maniera sempre più accelerata, non una parte, ma l’intero terreno dello scontro politico. Tutta la politica contemporanea, all’interno dei nostri sistemi, in Europa come nelle Americhe, ha una tonalità populista.
A ciò hanno contribuito molteplici fattori su cui adesso è inutile ritornare. Ciò che conta è la svolta che tale trasformazione determina. E cioè il fatto che la linea di confronto, e anche di conflitto, non passa più tra populisti e antipopulisti, ma all’interno dello stesso populismo. Naturalmente tale mutamento non è percepito, o è rimosso, se si continua a caricare il termine di una valenza pregiudizialmente negativa. Ma riaffiora non appena lo si sottrae a essa, sottoponendolo a una analisi più neutrale. Populismo è un nome vuoto, pronto a essere riempito da contenuti anche molto eterogenei e a essere adoperato con intenzioni differenti e contrastanti. Esso, in questa versione più oggettiva, è l’esito di una caduta di mediazioni istituzionali tra politica e vita materiale che era stata colta da tempo dalla riflessione più acuminata. In base a tale caduta, quell’insieme di segmenti differenziati e spesso concorrenti che formano un popolo chiedono una risposta immediata, cioè rapida e diretta, ai loro bisogni, desideri, pulsioni, paure, speranze.
Ciò spiega perché in tutto il mondo occidentale quella che si chiama comunemente crisi della politica sia in realtà soprattutto crisi della rappresentanza e degli organi che la incarnano — istituzioni, partiti, sindacati. Anche l’aumento verticale di personalizzazione della politica è l’esito di questa dinamica. Ma, ecco la domanda decisiva: questa crisi della rappresentanza coincide con una crisi della democrazia? La domanda è più che legittima, visto che la democrazia moderna è essenzialmente rappresentativa. Ma la risposta non è scontata. Dal momento che la rappresentanza è una polarità, certo necessaria, dei sistemi democratici, il cui altro polo è pur sempre la sovranità popolare. Ora è evidente che nell’attuale difficoltà degli organismi rappresentativi, il gioco politico si concentra su questo secondo polo. È per esso che passa il discrimine di cui si diceva, all’interno del campo populista. Nel senso che l’implicazione immediata tra politica e vita, rispetto alla quale non è più possibile tornare indietro, può essere orientata in direzioni diverse e anche alternative. Non più riducibili alla dicotomia orizzontale tra destra e sinistra, ma piuttosto relative alla scala verticale tra stratificazioni sociali sovrapposte.
È su questo che i populismi si dividono e possono essere divisi. Se, come ha dimostrato l’elezione americana, il loro avversario comune è sempre l’establishment politico, finanziario, tecnocratico, diverso è il rapporto che si determina tra gruppi sociali. Come diverso è il rapporto di forza che passa tra essi — quello che un tempo si definiva “egemonia”. In questione è la relazione che si determina tra blocchi socio-culturali diversi e quale tra essi ne governi la saldatura. Da qui anche la relazione, non necessariamente negativa, con il quadro democratico. In un certo tipo di populismo, che possiamo chiamare inclusivo, si può creare un’alleanza tra coloro che più sono stati colpiti dalla crisi economica e ceti sociali intermedi, senza che questo comporti una barriera nei confronti della forza lavoro degli immigrati. Un altro tipo di populismo, di carattere escludente, presente in Europa come in America, si chiude su se stesso, saldando la propria identità alle spinte regressive e xenofobe che provengono da ambienti sociali diversi in direzione letteralmente reazionaria.
La partita che oggi si apre, insomma, è in buona parte interna al campo populista. Ed essa va giocata anche in quel campo. La vinceranno coloro che sapranno orientare il mutamento ormai irreversibile in una direzione allo stesso tempo innovativa e compatibile con gli standard e i valori della democrazia moderna.