lunedì 14 novembre 2016

Corriere 14.11.16
I paradossi del voto popolare
di Sabino Cassese

Il vincitore ha perduto le elezioni. Gli americani che hanno votato per Clinton sono più numerosi di quelli che hanno votato per Trump, ma quest’ultimo si insedierà come presidente. Clinton ha perso con il 47,7 per cento dei voti, Trump ha vinto con il 47,3 per cento dei voti. Alle precedenti elezioni, il candidato democratico (Obama) aveva distanziato quelli repubblicani (McCain e Romney) di 10 e poi 5 milioni di voti, mentre Trump ha avuto questa volta circa 600 mila voti meno di Clinton (i dati non sono ancora definitivi, perché gli Stati hanno meccanismi elettorali diversi e la macchina americana delle elezioni è molto imperfetta) e vinto con un numero di voti inferiore a quelli con cui i due precedenti candidati repubblicani avevano perso.
La spiegazione di questi paradossi è che noi vediamo le elezioni presidenziali americane come un processo unitario, mentre esso è la conclusione di 50 diverse elezioni. Si vota per un cosiddetto collegio elettorale, che poi elegge il presidente e il suo vice. Ogni Stato ha un certo numero di voti elettorali, in proporzione alla popolazione. Chi ha più voti popolari prende tutti i voti elettorali dello Stato, per cui conviene vincere in grandi Stati con un piccolo margine, come ha fatto Trump in Florida, Pennsylvania e Wisconsin, piuttosto che in grandi Stati con molto maggior margine, come ha fatto Clinton in California e New York.
I voti popolari consentono di costituire il cosiddetto collegio elettorale, composto di 538 persone, che è, in realtà, un processo, piuttosto che un organo collegiale.
Nel collegio elettorale, Trump può contare su 290 voti, Clinton solo su 228. I grandi elettori, che ne fanno parte, si riuniscono in dicembre nei singoli Stati e inviano al Senato i risultati delle votazioni, per la proclamazione del presidente e del vicepresidente in gennaio.
Il contrasto tra volontà del popolo e modo in cui essa è interpretata ci deve far dubitare della bontà della democrazia? O far pensare che uno dei più antichi sistemi democratici del mondo sia fallito? Oppure far pensare che sia tempo di passare dalla democrazia indiretta (quella rappresentativa) a quella diretta?
Il modo in cui i voti vengono trasformati in scelta del capo dello Stato risponde, negli Stati Uniti, all’esigenza di coniugare una pluralità di Stati con l’unità della federazione. La formula elettorale, nella sua attuale configurazione, ha più di un secolo di vita ed è stata sempre rispettata, a dispetto del fatto che la contraddizione tra volontà popolare e scelta del capo dello Stato (per cui il vincitore del voto popolare può non divenire presidente), si sia presentata ben cinque volte dal 1804, di cui una nel nostro secolo.
Questo dimostra che le formule elettorali sono convenzioni di lunga durata, raggiunte tra Stato e popolo, che servono a tradurre i voti in scelte di persone e in seggi o cariche. La loro forza sta nella capacità di assicurare una guida alle nazioni, quella che si chiama governabilità, raccogliendo il consenso della società sia rispetto alla formula stessa, sia rispetto ai risultati che essa produce (il sollecito invito di Obama alla Casa Bianca del candidato contro il quale si era battuto ne è una prova).
Da ultimo, la democrazia, per lo più ritenuta come equivalente al governo della maggioranza, solo in pochi casi è fondata sulla maggioranza. Nel caso americano, su una popolazione di 325 milioni di persone, sono 251 milioni gli aventi diritto al voto, ma solo la metà ha partecipato alla votazione, per cui il 47,3 per cento dei voti ottenuti dal futuro presidente rappresenta solo un quarto della popolazione in età di voto. E nei singoli Stati tutti i voti elettorali vanno a chi vince in termini di voti popolari, anche se si tratta di un candidato che ha meno della maggioranza di tali voti.
A questa intrinseca debolezza rappresentativa della democrazia americana supplisce l’alternanza al potere: dopo otto anni di presidenza democratica, inizia ora una presidenza repubblicana. Democrazia è anche rinnovamento della classe politica.
Tre sono gli insegnamenti di questa vicenda. Primo: la democrazia è un sistema con molti limiti e largamente imperfetto, ma dobbiamo tenercelo perché non ne è stato sperimentato uno migliore. Secondo: la democrazia è fondata su convenzioni rispettate nel tempo, che non vengono messe in gioco continuamente (come le formule elettorali italiane). Terzo: la democrazia non è il governo della maggioranza, ma solo quello della più forte minoranza.
Sabino Cassese