domenica 13 novembre 2016

Repubblica 13.11.16
Tra i fan di Donald e i post-democristiani
di Stefano Folli

L’ETERNO ritorno delle due destre ha preso forma ieri tra Firenze, Milano e Padova. C’è una destra leghista che si sente rivitalizzata da Trump — benché il neopresidente non sappia nemmeno chi sia Salvini — e in piazza Santa Croce arriva a esibire il vessillo del Carroccio accanto alla bandiera americana.
DICE «No» al referendum, ma in realtà pone l’auto-candidatura del suo leader alla presidenza del Consiglio, nella convinzione che è giunto il momento di cantare vittoria. In verità la Lega trumpiana oscilla intorno alla solita percentuale dell’11 per cento o poco più, segno che non bastano i voti della Florida e dell’Ohio per far lievitare il consenso in Val Padana.
Poi esiste una destra moderata a cui da Milano è tornato a dar voce Berlusconi in un’intervista al Corriere della Sera. Una destra talmente moderata che il vecchio leader respinge financo la definizione, collocandosi in una sorta di centrismo ideale, si potrebbe dire una Democrazia Cristiana rivista e corretta. Logica quindi la presa di distanze da Trump, verso il quale Berlusconi non dimostra alcuno slancio, salvo la civetteria dell’imprenditore che saluta un altro imprenditore approdato alla politica vent’anni e oltre dopo di lui. Nella sostanza si avverte il timore che il “trumpismo” in salsa italiana, dai leghisti a Grillo, scompagini gli antichi equilibri. E invece Forza Italia, benché tutta da ricostruire, è un partito che al suo fondatore va bene così come è sempre stato: specchio di un mondo in apparenza appannato, ma ancora ampio e ramificato sotto la superficie degli slogan e degli strepiti altrui. Un po’ Dc, appunto, e un po’ socialismo milanese anni Ottanta. Non a caso l’interprete dell’ultimo Berlusconi è Stefano Parisi, sia pure utilizzato a intermittenza (ieri ha deplorato la Lega, cioè «quella roba là»).
La piazza di Firenze, fra Salvini, Maroni, Giorgia Meloni e persino il ligure Toti, è un’altra cosa. In passato al leader è riuscito di tenere insieme i pezzi, oggi chissà. Non a caso il capo della Lega nazionalista già si propone come candidato premier, quando invece il tentativo berlusconiano è di riportarlo all’ordine e alla subordinazione. A questo proposito, la Lega non dovrebbe sottovalutare il messaggio giunto da Padova, bastione leghista dove il sindaco è stato costretto a lasciare dopo che i consiglieri di Forza Italia, insieme a quelli del Pd e del M5S, si sono dimessi per provocare la sua caduta (si sono ispirati alla fine del sindaco Marino a Roma). Episodio minore, certo, con espulsione immediata di due di Forza Italia. Ma non esattamente una prova di unità del centrodestra nel giorno di Firenze e delle conclamate ambizioni di Salvini.
In altre parole, c’è grande confusione nelle due destre. Il trumpismo d’importazione è, almeno a breve termine, un tonico che accende gli appetiti e lacera rapporti politici già pessimi. Anche perché è evidente che Berlusconi pensa a una prospettiva del tutto diversa da quella populista/elettorale della Lega. Ad Arcore si guarda al dopo referendum e a una situazione in cui il “centro” berlusconiano (a quanto pare non più “centro-destra”) si prepara a giocare un ruolo. In via ufficiale la linea berlusconiana è favorevole alle elezioni anticipate: ed è il punto di contatto con la piazza leghista. In concreto, bisogna vedere il risultato del 4 dicembre. La vittoria del No obbliga a riscrivere da capo la legge elettorale, il che richiederà parecchio tempo.
Berlusconi, lo ribadisce nell’intervista, chiede il ritorno al proporzionale in nome del carattere ormai tripolare del sistema politico. Si tratta di un’implicita ma incontrovertibile offerta di collaborazione rivolta alla maggioranza di Renzi. Una forma di collaborazione fra due dei tre poli (centro-sinistra e centro) così da poter combattere insieme il terzo incomodo, i Cinque Stelle. Ed è uno scenario che nella mente di Berlusconi reggerebbe anche — e forse soprattutto — in caso di vittoria del Sì, purché si tratti di un’affermazione risicata: pochi punti percentuali o addirittura pochi decimali. Del resto, il “centro” che cerca di non farsi sopraffare dalla moda trumpiana e continua a guardare al Partito Popolare europeo ha bisogno che chiunque vinca, il Sì o il No, prevalga di poco. In modo di non consegnare lo scettro agli estremisti, da un lato, e di non alimentare l’egocentrismo di Renzi, dall’altro.