La Stampa 13.11.16
La nascita del partito populista
Nel
nome di Trump, il centrodestra italiano finisce a pezzi. E se doveva
servire a riunificare gli ex berlusconiani, la vittoria di Donald,
inutilmente paragonata a quella altrettanto inattesa del Cavaliere nel
1994, ha invece ottenuto l’effetto opposto
di Marcello Sorgi
Ha
funzionato da centrifuga. Le immagini contrapposte nei tg della sera
delle due manifestazioni di ieri - Salvini a Firenze, Parisi a Padova,
dove tra l’altro Forza Italia è stata determinante per la caduta della
giunta guidata dal sindaco leghista Bitonci - non hanno dato solo
l’ennesima picconata al tentativo di ricostruire le ragioni della
coalizione, all’ombra del «No» al referendum costituzionale del 4
dicembre. Hanno anche posto, in termini ultimativi, la questione del
superamento della leadership di Berlusconi.
Sul palco della
manifestazione di Firenze, accanto a Salvini, che si è ormai
autoproclamato il Trump italiano e ha posto la sua candidatura alla
guida del governo, c’erano la leader di Fratelli d’Italia Meloni, che il
centrodestra lo aveva già spaccato in primavera a Roma, correndo
vanamente per il Campidoglio ormai destinato ai 5 stelle, e il
governatore della Liguria Toti, già delfino del Cavaliere in una delle
tante successioni annunciate e fallite al vertice di Forza Italia. Toti
non è il solo ad aver rotto gli indugi, scegliendo la strada
movimentista dell’insubordinazione a Berlusconi e dell’accordo, costi
quel che costi, con Salvini e la sua linea radicale. Brunetta e
Santanchè sono con lui. Altri, come Romani, non si sono spinti a
partecipare alla manifestazione, ma temono l’isolamento del Cavaliere. E
se l’alternativa è quella rappresentata da Parisi, organizzatore, a
Padova, dell’altra manifestazione del centrodestra moderato che ha
platealmente preso le distanze dall’assemblea fiorentina, o quella
professata da Berlusconi nell’intervista al «Corriere della Sera» in cui
ha proposto il ritorno al sistema elettorale proporzionale e non ha
escluso un accordo in Parlamento per dar vita a un governo Pd-Forza
Italia, le file del neonato partito trumpista italiano sono destinate a
ingrossarsi.
Opposte, infatti, sono le due strategie, di Salvini e
Berlusconi. A cominciare dall’eventuale vittoria del «No», e dalla
conseguente sconfitta di Renzi nel voto del 4 dicembre. Il leader
leghista la considera una piattaforma di lancio di una specie di
campagna elettorale permanente che dovrebbe portare in tempi ravvicinati
a uno sfondamento del nuovo centrodestra nelle probabili elezioni
anticipate di primavera, determinate dalla possibile bocciatura della
riforma istituzionale. Una campagna fieramente populista - la Meloni s’è
detta orgogliosa di definirsi così - a base di una nuova serie di «No»:
a Renzi, prima di tutto, agli immigrati, all’Europa, all’euro, alle
banche foraggiate dal governo con fondi pubblici ricavati da
un’insopportabile pressione fiscale. E così via, nella convinzione di
andare verso una vittoria sicura e simile a quella americana di Trump,
perché fondata sull’ascolto di tutte le ragioni di protesta dei
cittadini e sul risveglio degli istinti nascosti della società civile.
Ma
Berlusconi non fa mistero di pensarla in tutt’altro modo. La sconfitta
di Renzi, che considera necessaria ma si augura non clamorosa, a suo
modo di vedere dovrebbe servire a riannodare il filo tra le forze
politiche responsabili, seriamente preoccupate per l’avanzata del
populismo, che intendano collaborare per salvare il Paese. Una nuova
legge elettorale proporzionale, indispensabile per cancellare il
pericolo, insito nell’Italicum, di far vincere Grillo con meno di un
terzo dei voti degli elettori, andrebbe concordata di conseguenza con
Renzi e il Pd. L’offerta è questa, esplicita e non ancora ufficiale solo
perché mancano tre settimane al voto referendario. E in queste
condizioni, anche se Berlusconi ci ha abituato a improvvise giravolte, è
difficile che le strade ormai separate dei due tronconi del
centrodestra possano tornare a incontrarsi.