Repubblica 12.11.16
Divi e politici l’addio alla Rete è cominciato
di Paolo Di Paolo
Una
diretta su Facebook non è una tribuna parlamentare. Una campagna
elettorale sui social non ha gli effetti di un comizio di paese. Un
tweet non somiglia a un volantinaggio in piazza. O sì? I politici -
perlopiù uomini “analogici”, novecenteschi, sbarcati nell’era del
digitale come da un altro mondo - sembrano ormai disorientati. Nel
giorno in cui Matteo Renzi si dice deluso dall’odio che circola su
Facebook, oltreoceano viene attribuita alla forza “libertaria” dei
social la vittoria di Donald Trump. C’è chi festeggia, c’è chi si
spaventa.
Supportati da staff di nerd nati a fine secolo, i
politici si sono gettati nell’arena virtuale con entusiasmo e
incoscienza. Hanno dato per scontato di riceverne quasi solo benefici.
Laddove potevi raggiungere mille persone - e c’era da consumare suole, e
stringere mani - puoi raggiungerne velocemente un milione. Laddove
occorreva sottostare alle regole dell’informazione cartacea - scivolosa -
o di quella televisiva - rigida, ambigua -, accettando il gioco delle
parti (spesso retorico) del talk-show, ecco che con un balzo salti di là
da ogni steccato. E ti ritrovi faccia a faccia con il tuo elettorato:
disponi di una vasta, incondizionata tribuna; un podio, o un balcone,
che accorcia tutte le distanze. Così almeno sembrava. Così non è.
Come
hanno capito per primi i divi dello spettacolo, che hanno visto
tradursi rapidamente le inoffensive fan-page in terreno fertile per gli
agguati dei detrattori, è facile perdere il controllo di una piattaforma
social. In un comizio “reale”, quelli che manifestano contro, li lasci
ai cancelli; un cordone di polizia assicura l’incolumità fisica, le
proteste diventano un rumore lontano. Su Facebook e su Twitter, no. Alla
folla di chi ti segue si mescola quella di chi ti minaccia. Ogni parola
detta con le intenzioni migliori può diventare un cappio - magari
cucito da sostenitori volubili, umorali, diffidenti. Al capo della
comunicazione scappa per errore un tweet inopportuno? Un minuto dopo è
già tardi per rimediare. Per sbaglio viene pubblicata l’indicazione a
non usare le foto del politico che incontra il disabile? Valanga di
insulti. Non fai in tempo a spiegare che l’intento non era
discriminatorio, e che era quello di evitare strumentalizzazioni: la
corrente di disprezzo ti ha già travolto. Lo staff di Trump che gli
sottrae, a poche ore dal voto, l’accesso a Twitter per evitare uscite
goffe è un caso sintomatico. Il fischio, lo strepito che una volta
arrivava dal fondo della platea, adesso arriva dalla prima fila; il
chiasso è assordante, il nervosismo cresce di secondo in secondo,
spiegare alcunché sembra sempre fuori tempo massimo.
Quando Renzi,
twittatore spensierato, vede i social come “diffusori d’odio”, coglie
una verità parziale. Quando gli intellettuali newyorchesi attribuiscono
ai social la vittoria di Trump, forse semplificano. E l’inventore di
Facebook, il trentenne Zuckerberg, non può che difendere la sua
creatura. Ricordando a soloni che potrebbero essergli nonni una verità
scomoda: un algoritmo non ha preferenze politiche. Il che è senz’altro
vero, nel bene e nel male. E se a inizio anno c’era chi rimproverava a
Facebook di privilegiare i democratici, ora c’è chi invita ad
abbandonarlo per protesta perché filo-repubblicano, perché usato dai
sostenitori di Trump «come la spiaggia dello sbarco in Normandia».
L’effetto delle fake news, i falsi a cui abboccano orde di ingenui o
finti ingenui; i complottismi dell’una o dell’altra parte possono
davvero spostare l’esito di una tornata elettorale? Non più di quanto
hanno sempre fatto manifesti sui muri, volantini, promesse, dicerie,
insulti, accuse infondate. Non più di altri meccanismi “virali” e a
volte penosamente umani, solo su scala ridotta. Gli effetti del contagio
isterico, tanto più in epoche di grandi paure, il nostro Manzoni li ha
spiegati una volta per tutte (La citazione, guarda caso, circola su
Facebook: «C’è sempre un certo numero d’uomini che, o per un
riscaldamento di passione, o per una persuasione fanatica, o per un
disegno scellerato, o per un maledetto gusto del soqquadro, fanno di
tutto per ispinger le cose al peggio; propongono o promovono i più
spietati consigli, soffian nel fuoco ogni volta che principia a
illanguidire...»). Nella nostra epoca, il vero, stupefacente mutamento è
che l’uomo più in alto, dalla sua vasta tribuna, non parla più a una
folla tutto sommato indistinta. Ciascuno dei suoi uditori, oggi, ha la
propria piccola, autonoma, imponderabile tribuna. Finito il grande
comizio, inizia una serie di piccoli comizi, miliardi di piccoli comizi
in cui chi ascolta, un attimo dopo, diventa quello che parla, che urla,
che convince. Ma non è lo Speakers corner di Hyde Park, l’angolo di
giardino dei matti. La tribuna è spaventosamente egualitaria, e il
Signor Nessuno può diventare in due ore il peggior nemico del Numero
Uno, ritrovarsi un seguito infinitamente più vasto e più imprevedibile.