Repubblica 12.11.16
Perché i radar dei media si sono spenti
di Nadia Urbinati
I
RADAR dei media che fanno opinione — il New York Times in testa — sono
stati spenti o mal posizionati, almeno nell’ultima parte della campagna
elettorale che si è conclusa con la vittoria di Donald Trump. E il Times
fa pubblica ammenda e parla di errore di “bersaglio” che “significa
molto di più dell’aver sbagliato i sondaggi, perché si è trattato
dell’incapacità di percepire la rabbia ribollente di una parte così
vasta dell’elettorato americano, che si sente abbandonato con una
ripresa economica che non coinvolge tutti e tradito da una serie di
accordi commerciali che considera una minaccia al proprio posto di
lavoro voluta dall’establishment di Washington, da Wall Street e dagli
organi di informazione”.
I radar dei media liberal erano mal
posizionati perché tirati dentro il gorgo della battaglia partigiana
fino al punto di diventare essi stessi organi di propaganda — della
parte buona, certo, moralmente buona. Ma la bontà dell’obiettivo non li
assolve. Gli organi di informazione — quelli di larga diffusione
nazionale in primo luogo — dovrebbero avere la funzione di comprendere
(e far comprendere) quel che avviene nella società, studiarlo nei suoi
fattori e nelle possibili manifestazioni e conseguenze, infine anche
esprimere giudizi, certo, e, in questo senso, orientare. Il giudizio non
può essere taciuto né soppresso perché il “fatto” non è un dato
oggettivo che si trova per strada (diceva Antonio Labriola che i fatti
non sono «come caciocavalli appesi» che si trovano già fatti). Ed è
proprio perché fatti e giudizio politico sono così strettamente legati
che il lavoro dei media è di grande responsabilità e di delicata
combinazione di analisi e comprensione critica.
Il New York Times
ha chiesto scusa ai lettori per il cattivo servizio. Tradendo
addirittura la sua consuetudine, che consiste nel tenere solo l’ultima
pagina per i commenti di giudizio, dedicando tutto il resto a dare conto
di umori e fatti facendo parlare direttamente i protagonisti, ai
problemi e a chi li avverte e soffre. Ad un certo punto della campagna
elettorale, specialmente dopo che Trump ha cominciato a parlare delle
donne come “gli uomini quando sono nello spogliatoio”, i media come il
Times hanno chiuso l’auricolare su tutto il resto e si sono concentrati
solo sul carattere e sui pregiudizi di Trump. E hanno iniziato a gettare
discredito su quella parte di America che più facilmente poteva
rientrare nella logica di Trump (la stessa Hillary Clinton, che ha
definito lui e quelli come lui «disprezzabili», è caduta nella
trappola).
L’America non amata, luogo inospitale per chi è
incivilito dalla cultura urbana — quei milioni di cittadini lavoratori
che in passato hanno votato Obama — non è stata considerata né studiata,
non dal punto di vista dei problemi economici e sociali che
l’angustiano, semmai solo per i pregiudizi che Trump diceva di
rappresentare. Del resto, la rabbia del Midwest era poco comprensibile
per gli opinionisti liberal, per i quali la crisi è stata superata e
l’economia è tornata a marciare. Aveva senso andare alla ricerca della
scontentezza di chi, negli Stati una volta industriali, assiste
impotente alla scomparsa del lavoro o alla sua progressiva
delocalizzazione dove costa ancora meno di dieci dollari l’ora? L’altra
America, di cui si ha quasi paura nell’America liberal delle due coste, è
fatta di una popolazione che sta fuori da ogni comprensione; ad essa
non è stata data la stessa attenzione dedicata ai racconti del truce
Trump, alle sue bugie e volgarità. E la trappola del rozzo Trump ha
funzionato perché ha contato sul fatto, provato, che l’élite non ama il
popolo (e viceversa).
L’élite non ama il popolo, come si è visto
anche con la Brexit. Il divorzio tra élite e popolo è il pericolo che le
democrazie devono temere di più — perché questi due fattori del potere
danno il peggio di sé se marciano separati. Il compito dei media è
appunto quello di unire élite e popolo nella comune opinione pubblica,
che non deve per questo coincidere mai con l’opinione di partito. Non
deve legittimare quel divorzio. Far conoscere e analizzare i problemi
della società larga è il lavoro dei media.
La rivolta dell’élite
contro i molti nasce anche da un modo di considerare la democrazia che è
a dir poco problematico: come un sistema di procedure fatte al fine di
giungere a decisioni “buone” o “giuste”. Come se solo a questa
condizione la conta dei voti dei molti sia legittima. Ma le decisioni
sono buone perché prese secondo le procedure condivise non
necessariamente per i loro contenuti, che possono anche essere non
buoni: sono buone perché ci garantiscono la libertà di cambiare le
decisioni prese e chi le prende (governi e maggioranze). Condizionare
l’apprezzamento delle regole democratiche alla bontà del loro esito è
l’anticamera del divorzio delle élite dal popolo e, infine, di governi
non democratici.
La pre-determinazione della scelta buona ha
accecato i radar dei media come il Times. Certo, la decisione buona era
votare Hillary. E non vi è nulla di male nel fatto che un giornale
mostri questa preferenza. Ma poi, il modo migliore per farla capire a
tutti (anche ai non-liberal) non è imporla come verità auto-evidente
(come i caciocavalli di Labriola), ma portarla alla comprensione a
partire proprio dall’analisi dei problemi della vita ordinaria, la quale
è fatta anche di luoghi comuni e pregiudizi.
Sapere già tutto in
anticipo fa spegnere i radar. Ora, se l’arroganza è dei politici, essa
non fa notizia, poiché parte dei loro “vizi”. Ma se sono gli operatori
dell’opinione pubblica ad indossare quella casacca, allora si fanno
evangelisti e perdono la loro funzione, che è appunto quella di seguire
umilmente e comprendere quel che avviene nel mondo largo della società.
Dare voce, invece che coprire con la propria voce. Per scongiurare, tra
l’altro, che sia un Trump qualunque a dar voce.