sabato 12 novembre 2016

Repubblica 12.11.16
I social media
Bufera su Facebook e Twitter “Hanno aiutato Trump”
di Raffaella Menichini

CHICAGO. Il risveglio della Silicon Valley nell’era Trump è stato amaro. Il cuore dell’America tecnologica, da dove scaturiscono le idee e i prodotti che stanno plasmando il modo di comunicare in tutto il mondo, non solo non aveva visto arrivare il fenomeno Trump - il giorno del voto un sondaggio condotto tra 224 investitori tech li dava al 94% per Hillary Clinton, con l’89% convinto che avrebbe vinto - ma si ritrova ora sotto i riflettori per essere uno dei motori della diffusione delle idee incendiarie che hanno portato al trionfo del miliardario.
Forse per autoconsolarsi per aver fallito nell’individuare cosa stesse covando l’America, molti media puntano ora il dito su Facebook, Twitter e Reddit, dove la conversazione non mediata prima delle elezioni ha raggiunto livelli di aggressività e disinformazione eclatanti. Su Facebook sono circolati post con il volto di Hillary stravolta, deformata come un demonio, una carcerata, accompagnati dalle teorie cospirazioniste più strampalate, dalle sette sataniche all’alleanza con l’Iran. Le aggressioni personali su Twitter hanno costretto al silenzio attivisti di entrambe le parti. Su Reddit, social di conversazione tematica, i suprematisti bianchi di Alt-right (destra alternativa) hanno fatto opera di proselitismo, raccomandando ai giovani bianchi di non dichiarare che stavano per votare per Trump. Nulla di diverso da quel che accadeva nelle conversazioni reali, peraltro.
Il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, respinge ogni accusa: «E’ folle pensare che la gente abbia votato in base a notizie false circolate su Facebook». Zuckerberg sa però di avere un problema di controllo sulle bufale: dopo le polemiche dello scorso anno sulla presunta “partigianeria” di Facebook in favore dei democratici, la scrematura dei post è stata affidata agli strumenti tecnici (il famoso algoritmo) e i giornalisti-editori sono stati licenziati.
Per Zuckerberg e colleghi si pone ora una serie di problemi urgenti. Nell’era Obama si era creato un rapporto di intimità persino poco ortodossa con i giganti dell’industria tech. Ma sia Obama sia i “nerd” della costa est sono quanto di più lontano dall’America che ha portato Trump alla Casa Bianca. Anzi personificano la minaccia: i software che ci connettono globalmente sono gemelli di quelli che stanno cancellando i posti di lavoro nell’industria “pesante” che Trump promette di resuscitare. Oltre al fatto che chi lavora nell’industria tech è il ritratto dell’America multicolorata che i sostenitori di Trump aborrono: brillanti cervelli provenienti dall’Asia, dall’Europa, dal Medio Oriente, dall’Africa.
Il presidente eletto non ha mai fatto mistero della sua insofferenza per Silicon Valley. Ha chiesto più volte che i giganti del tech mantengano la produzione in America. Ha minacciato Amazon di un processo antitrust - e ieri il fondatore Jeff Bezos si è subito riallineato con un tweet in cui offre al nuovo presidente «tutta la sua mente aperta» per collaborare.
L’unico ad aver creduto in Trump fin dall’inizio, e ad avergli dato molti soldi, è stato il fondatore di PayPal, Peter Thiel, che per questo ha pagato l’isolamento in Silicon Valley. Oggi si prende la rivincita: si parla di lui come del “tech adviser”, il consigliere per la tecnologia di Trump.
Oggi Silicon Valley si trova a fare i conti con un problema di fondo: la disconessione dal Paese reale è paradossale per delle piattaforme dove ci si esprime in modo così forte e chiaro. «Guardiamo tutto attraverso le metriche, come pagine viste, utenti attivi, guadagni - ha detto al New York Times la startupper Danielle Morrill - Ma non vuol dire che capiamo gli individui dall’altra parte dello schermo».