Repubblica 11.11.16
La democrazia e la paura
Le istituzioni modellate da questa nuova inquietudine si rinchiudono in atteggiamenti puramente difensivi
di Michele Ainis
LE
ISTITUZIONI sono come il corpo umano: per animarle, serve uno spirito
che ci soffi dentro. Ma lo Zeitgeist, lo spiritello che governa il
nostro tempo, ha il fiato grosso, l’alito cattivo. Succede, quando ti
monta in gola la paura. Quando il presente ti sgomenta, il futuro ti
spaventa. E quando gli altri, tutti gli altri, t’appaiono come una
minaccia, un esercito invasore.
Da qui Brexit, Trump, nonché gli altri sconquassi che si profilano sul nostro orizzonte collettivo.
MA
DA qui inoltre una domanda, che investe i destini stessi della
democrazia. Quali istituzioni nell’epoca dell’insicurezza? E c’è ancora
spazio per libertà e diritti mentre prevale la paura?
Non che la
democrazia sia una creatura ingenua, senza sospetti né timori. Al
contrario: diffida degli uomini, e perciò diffida del potere. Sa che è
inevitabile, giacché in ogni società c’è sempre stato chi governa e chi
viene governato. Ma al tempo stesso sa che i governanti abuserebbero
della propria autorità, se non avessero redini sul collo. L’uomo è un
diavolo, non un santo. Sicché occorre una regola che imbrachi il potere,
che gli tagli le unghie, che gli impedisca di farci troppo male.
La
democrazia nacque così, nella Grecia di 25 secoli fa. Nacque con il
sorteggio e con il voto popolare, con la rotazione delle cariche, con i
limiti alla loro durata. E nel Settecento fu poi rinverdita dalla teoria
di Montesquieu: «che il potere arresti il potere», altrimenti nessuno
potrà mai dirsi libero. Come affermava, nel modo più solenne, l’articolo
16 della Déclaration, vergata dai rivoluzionari francesi nel 1789:
«Ogni società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata, né
la separazione dei poteri determinata, non ha Costituzione».
Insomma,
la democrazia si fonda su una promessa di diritti. E i diritti, a loro
volta, hanno una doppia vocazione. Sono indivisibili, nel senso che
spettano a ciascun individuo, perché in caso contrario si
trasformerebbero in altrettanti privilegi. Sono universali, nel senso
che tendono a superare le frontiere, come mostrano le innumerevoli Carte
dei diritti siglate in ambito internazionale. Da qui il tratto forse
più essenziale dei sistemi democratici: l’accettazione dell’altro,
l’apertura verso lo straniero. Secondo l’antico rituale greco della
xenia, l’accoglienza tributata agli ospiti.
Ma adesso questa
prospettiva viene revocata in dubbio, spesso rovesciata nel suo opposto.
Le istituzioni modellate dai nuovi sentimenti di paura si ripiegano in
se stesse, si rinchiudono in atteggiamenti puramente difensivi. Alzano
muri, come in Ungheria e in Bulgaria. Erigono barriere alla circolazione
delle persone e delle merci, come ha auspicato Donald Trump durante la
sua campagna elettorale, rispetto all’immigrazione messicana e ai
trattati commerciali con la Cina o con l’Europa. Sono nazionaliste,
isolazioniste, xenofobe. Hanno in sospetto il pluralismo delle identità
culturali e religiose. Odiano le procedure cui la democrazia affidava la
tutela dei diritti, perché quando ti senti minacciato vuoi dal governo
una reazione rapida, efficace. E vuoi un governo forte, senza troppi
contrappesi. Come negli Usa: Trump ha dalla sua tutto il Congresso, non
succedeva ai repubblicani dal 1928.
Tuttavia c’è un paradosso in
questa nuova condizione. Perché la democrazia della paura si regge
anch’essa su un’attesa di diritti, pur negando diritti agli stranieri.
Dice, in sostanza: sono stati loro a toglierci il lavoro, la prosperità,
la sicurezza. Dunque ricacciamoli indietro, respingiamoli al di là
delle nostre frontiere, se necessario con le maniere spicce; dopo di che
ci impadroniremo dei nostri vecchi diritti. Ma allora la domanda è
un’altra: può esistere un’entità politica antidemocratica verso
l’esterno, che si conservi democratica al suo interno? La storia non ci
offre precedenti. Abbiamo conosciuto invece, e molte volte, l’esperienza
inversa: per esempio nell’Atene del V secolo, dopo la sconfitta
militare nella guerra del Peloponneso.
Ma dopotutto è la
democrazia medesima a costituire un’eccezione, una scheggia della
storia. A osservare la corsa dei millenni, i regimi teocratici e
dispotici esprimono di gran lunga la regola, come la guerra rispetto al
tempo di pace. Forse non si tratta che di questo, forse la regola sta
riconquistando il suo primato sull’eccezione.