Repubblica 10.11.16
La nuova incognita sulla strada di Renzi
di Stefano Folli
COME
è logico, non esiste un nesso diretto fra l’elezione di Trump in
America e il nostro referendum costituzionale del 4 dicembre. Sulla
carta le probabilità — e le difficoltà — di Renzi restano le stesse di
due giorni fa: riguardano le incertezze di una campagna fin qui poco
fortunata e i dubbi sulla sovraesposizione del presidente del Consiglio.
In
realtà, è opinione diffusa che le notizie dagli Stati Uniti avranno un
riflesso inevitabile nell’opinione pubblica. In quali termini, peraltro,
non è ancora chiaro. I fautori del “No” ritengono di trarre vantaggio
dalla scossa destabilizzante che si propaga dall’altra sponda
dell’Atlantico. Vi leggono non a torto una condanna degli
“establishment” nazionali e giudicano che la campana per Renzi suonerà
proprio nel giorno del referendum. Non tengono conto del fatto che il
passaggio referendario non equivale “tout court” a un’elezione generale.
Può essere usato come un surrogato da chi vuole assestare un colpo al
governo e al premier, ma esiste una fascia di elettorato che vorrà
invece esprimersi sulla riforma della Costituzione e non accetterà di
farsi coinvolgere in una resa dei conti.
C’è anche un secondo
punto di vista. Quello di chi ritiene che proprio l’enorme sorpresa
americana (salutata con enfasi da Grillo e Salvini, pur rivali fra loro)
potrebbe indurre a una maggiore prudenza. Si fa notare che il risultato
del referendum sulla Brexit, in giugno, ebbe come corollario un
arretramento di Podemos nelle elezioni in Spagna, tre giorni dopo. Non
ci fu quindi l’effetto marea, ma il suo contrario: l’elettorato spagnolo
ebbe timore di alimentare la rincorsa populista e con il suo voto fissò
il primo tassello per la soluzione della crisi quattro mesi dopo. In
sostanza, è troppo presto per stabilire se Renzi ha oggi maggiori o
minori probabilità di perdere il referendum. Quel che è certo, il quadro
generale è cambiato e non in meglio per le classi dirigenti europee. In
fondo, sono passate solo poche settimane dalla cena di gala offerta da
Obama a Washington all’amico italiano. Era una serata costruita con
abilità per rinsaldare l’immagine del presidente del Consiglio. Pochi
giorni prima era stato reso noto che un po’ meno di duecento militari
italiani sarebbero partiti per le Repubbliche baltiche: una missione
multilaterale della Nato volta a premere su Putin.
La scommessa
renziana aveva un senso: rafforzare il suo profilo di alleato speciale
collocandosi fra l’uscente Obama e la subentrante Hillary Clinton. Non a
caso il governo di Roma si presentava come il più esplicito sostenitore
della candidata democratica: al punto di essere pubblicamente citato,
unico caso, dalla stessa Clinton in funzione anti-Trump. Sarebbe
riduttivo spiegare questa strategia con le esigenze referendarie. La
questione, s’intende, è tutt’altro che secondaria. Tanto è vero che
Obama aveva dichiarato il suo sostegno al “Sì” come fattore di stabilità
e rinnovamento, aggiungendo tuttavia un consiglio al partner italiano:
dovrà rimanere al suo posto, sempre in nome della stabilità, anche in
caso di sconfitta nelle urne.
In ogni caso l’obiettivo di Renzi
era più ambizioso. Consisteva nell’utilizzare l’amicizia del duo
Obama-Clinton per consolidarsi sul piano interno, ma anche per diventare
più credibile nella polemica contro la Commissione europea. Tutto si
tiene. L’Europa non accetta i conti pubblici italiani e il negoziato si
presenta difficile. Renzi apre allora un contenzioso usando termini
forti e ovviamente non arretrando quando Juncker risponde con una frase
di troppo. Lo scontro è utile in termini elettorali in vista del
fatidico 4 dicembre, ma si suppone che dal giorno dopo il ministro
Padoan lavorerà per ricomporre il dissidio. È un sentiero stretto, ma
Renzi è abituato a muoversi in modo spregiudicato. Resta il fatto che
aprire un conflitto con l’Europa è rischioso. Ecco perché diventa
prezioso il ruolo — o almeno l’apparenza — di alleato privilegiato degli
Stati Uniti che Renzi ha avuto cura di coltivare. Obama gli ha offerto
il migliore argomento nell’incontro di Washington: ha condiviso la linea
anti-austerità che l’Italia propugna contro la Commissione e
soprattutto contro la Germania di Angela Merkel. E la cornice americana è
quello che serve al premier italiano per non essere esposto su due
fronti.
Ma adesso la scena è mutata. Trump rappresenta
un’incognita per tutti i paesi europei e anche per l’Italia. Il rapporto
con lui è tutto da costruire e l’aver ostentato l’appoggio a Hillary
Clinton non aiuta. All’improvviso la stessa polemica con l’Unione sembra
superata dagli eventi. Con un presidente isolazionista alla Casa Bianca
la priorità dei paesi europei è ritrovare una solidarietà fra loro e
rilanciare il processo d’integrazione, a cominciare dalla difesa. Qui
l’Italia può prendere un’iniziativa non solo mediatica. Purché la sua
credibilità non sia smarrita.