Repubblica 10.11.16
Dal neo-isolazionismo Usa potrebbero arrivare benefici per la Cina. Timori in Giappone
Pechino sulla difensiva “Faremo fronte alla sua vittoria”
di Angelo Aquaro
PECHINO.
 La minaccia di ritorsione è nero su bianco: «Se Trump pensa di colpire i
 rapporti commerciali bilaterali, dovrà prima pesare le contromosse 
della Cina. Siamo abbastanza forti da poter far fronte alla sua 
vittoria». Sono le 18.58 del 9 novembre che ha cambiato l’America e il 
messaggio sul sito del
Global Times, il giornale in inglese vicino
 al partito, sembra chiaro: chi ha paura di Donald Trump? Invece anche 
Pechino ha paura: come tutti. Perché nessuno sa cosa c’è nella testa del
 miliardario che ha accusato la Cina di rubare il lavoro agli americani:
 salvo poi venire a farsi produrre le cravatte col marchio “Donald J. 
Trump” nelle fabbriche di Shengzhou.
Certo: la politica isolazionista di “Chuan Pu”, come qui Trump viene traslitterato, per il Dragone potrebbe rivelarsi una manna.
«La
 Cina ha appena vinto le elezioni americane », chiosa Foreign Policy. 
Perché al contrario di Hillary Clinton, che insieme a Barack Obama aveva
 aperto ai paesi del Sudest asiatico proprio per fermare l’espansionismo
 cinese, The Donald ha mostrato di infischiarsene di geopolitica: 
facendo balenare perfino il taglio delle esercitazioni nel Mar della 
Cina delle isole contese, dove passa però un quinto del commercio Usa. 
Anche la Corea del Nord sarebbe un problema che spetta alla Cina: 
convincano loro Kim Jong-un a smetterla di giocare con l’atomica. Ecco 
perché ieri erano tutti in allarme dalla Corea del Sud al Giappone, dove
 il ministro della difesa Fumio Kishida ha dovuto precisare che Tokyo 
«non ha intenzione di dotarsi di armamenti nucleari ». Ma se l’ombrello 
Usa non c’è più, e le Filippine di Rodrigo Duterte hanno già tradito la 
Cina, chi più proteggerà chi? Grande è la confusione sotto il cielo. Il 
nuovo Mao, cioè Xi Jinping, si è naturalmente dovuto congratulare con 
quel signore che ha fatto campagna mostrando i video con la spada made 
in China nel cuore dell’America. E che con la sua ammirazione per 
Vladimir Putin potrebbe ora anche strappare l’Orso russo dall’abbraccio 
di interesse col Dragone. Xi si è augurato «il rispetto reciproco e la 
collaborazione vantaggiosa per entrambi». Ma è questo il problema. Non 
ha promesso Trump di piegare la Cina tassando il suo export per il 45%? 
Ci provi, dice alla tv di Stato Jia Xiudong del China Institute of 
International Studies: «Scatterebbero le conseguenze ». È più di un 
avvertimento: alla Boeing pronta a piazzare 6800 jet per mille miliardi 
di dollari, a Starbucks che vuole raddoppiare la sua presenza creando 
10mila posti di lavoro, a Apple che ha aperto due super centri hitech, a
 General Electric che ha annunciato il data center a Shanghai da 11 
milioni di dollari.
«La verità è che Trump doveva parlare così in 
campagna elettorale: ma neppure lui può fermare quella cosa che 
chiamiamo globalizzazione», dice a Repubblica Hong Yuan della Chinese 
Academy of Social Sciences. «La divisione del lavoro è segnata: a noi la
 struttura produttiva, a loro quella finanziaria». Per la verità i 
cinesi si sono buttati pure sulla finanza: anche se adesso temono che la
 campagna acquisti sfociata nella conquista di Hollywood della Wanda di 
Wang Janlin possa subire la prima ritorsione. «Ecco gli effetti della 
vostra democrazia», diceva ieri ironico un editoriale di Xinhua. 
Prepariamoci, anche qui, agli effetti della ritorsione.
 
