venerdì 4 novembre 2016

PRIMO PIANO

Corriere 4.11.16
Nuova strage in mare, morti 239 migranti
I superstiti: costretti a imbarcarci, spari su chi rifiutava
Gabrielli e la Ue: false le accuse di Amnesty all’Italia
di Mariolina Iossa

ROMA Ancora un naufragio con centinaia di vittime: due barconi provenienti dalla Libia sono affondati, l’ultimo bilancio parla di 239 migranti morti e 29 sopravvissuti, mentre altri 788 sono stati messi in salvo nel Mediterraneo centrale in sette diverse operazioni della Guardia costiera di Roma. Secondo i racconti fatti a Pietro Bartolo, il medico del film Fuocoammare, che ha parlato con il tg di Tv2000, «gli scafisti hanno sparato e ucciso un uomo per costringerlo a salire sul gommone». E il capo dello Stato Sergio Mattarella parla di «emergenza non compresa appieno».
Alle accuse di Amnesty International — che nel rapporto annuale denuncia maltrattamenti, pestaggi, umiliazioni sessuali e torture compiute contro gli stranieri negli hotspot italiani — risponde il capo della polizia Franco Gabrielli: «Smentisco l’uso di metodi violenti sui migranti, anche perché i nostri hotspot sono costantemente visitati da un team della Commissione europea». Il ricercatore di Amnesty Matteo De Bellis insiste, dice che le «pressioni europee» spingerebbero l’Italia ad usare la «mano dura nei confronti dei rifugiati ed espellerli illegalmente», con lo scopo di «ridurre il movimento di migranti e rifugiati verso altri Stati membri».
L’Ue però, chiamata in causa, interviene negando. «Alla Commissione — dice Natasha Bertaud, portavoce per l’Immigrazione — non risulta che negli hotspot italiani si siano verificati episodi di maltrattamenti e torture». Parole alle quali sono seguite quelle di Mario Morcone, capodipartimento Libertà civili e Immigrazione del ministero dell’Interno. «Scosse elettriche, torture? Sono tutte cretinate — ha detto Morcone —. Negli hotspot sono presenti organizzazioni di tutela come Unhcr e Oim. O entrambe sono distratte o Amnesty sta facendo un’operazione che cercheremo di capire» .

il manifesto 4.11.16
Scariche elettriche e calci ai rifugiati, per il Viminale «cretinaggini»
Torture sui migranti. Il rapporto di Amnesty raccoglie 174 testimonianze. Anche donne e minori picchiati da poliziotti per le impronte
di Rachele Gonnelli

Si fa presto a definire «cretinaggini» le denunce di Amnesty international sulle violenze, a volte solo botte altre volte più simili a torture, compiute da polizia su migranti e i rifugiati, uomini e donne, minori e adulti, che sbarcano nel sistema hotspot italiano. «Cretinaggini», è così che il capo del Dipartimento immigrazioni e libertà civili del Viminale Mario Morcone ha definito ieri le storie contenute nel rapporto di Amnesty, dicendosi al contempo «sconcertato».
Redatto a Londra dopo quattro missioni in centri d’accoglienza di 13 città e 174 interviste a migranti, il dossier è già finito sulle prime pagine dei principali giornali europei. Sono denunce sconvolgenti, in effetti, che riferiscono di un trattamento generalmente brutale e violento riservato dagli agenti in divisa ai migranti, in maggioranza sudanesi e eritrei, con la giustificazione di dover procedere all’identificazione in tempi brevi e prendere le impronte.
I racconti anche di ragazzini di 16 anni come Ishaq, «Castro», Ali parlano di calci, pugni, manganellate, mani e dita storte. Ma soprattutto dell’uso delle scariche elettriche dei Taser, le pistole che si vedono nei serial polizieschi americani e che secondo la stessa Amnesty hanno già provocato nel mondo quasi 900 morti.
Djoka, sedicenne del Darfur sbarcato a giugno sulle coste siciliane nel tentativo di raggiungere un fratello in Francia, ha detto di essere stato portato per tre giorni nella «stanza dell’elettricità». Alcuni hanno descritto le torture con botte ai genitali, strane sedie di metallo dov’erano obbligati a sedersi per essere pestati. Persino una donna che aveva partorito sul barcone e perdeva ancora sangue è stata schiaffeggiata più volte.
Episodi analoghi vengono descritti a Bari come a Crotone, a Torino come a Ventimiglia. E quasi sempre – a parte nell’hotspot di Taranto – i luoghi dove avvenivano – o meglio avvengono – queste pratiche a dir poco brutali sono stazioni di polizia accanto ad aeroporti o stazioni ferroviarie. Oppure direttamente durante i trasferimenti, sugli autobus, per strada sui cofani delle auto di pattuglia. Luoghi dunque per lo più lontani da occhi indiscreti di funzionari dell’Easo, di Frontex o delle agenzie dell’Onu come l’Unhcr.
Luoghi di sostanziale impunità visto che in Italia, non solo non esiste una legge contro la tortura, ma neanche un codice di identificazione degli uomini in divisa.
Ieri, accanto alle dichiarazioni sconcertate e sconcertanti del prefetto Morcone, anche l’ex capo della protezione civile ora al vertice della Polizia di Stato, Franco Gabrielli, ha smentito «categoricamente che vengano utilizzati metodi violenti sui migranti sia in fase di identificazione che di rimpatrio». Gabrielli fa notare che le «presunte testimonianze» raccolte «in forma anonima» si riferiscono a migranti che «non risiedevano in alcun hotspot», dove esiste una supervisione sulle procedure di un team della Commissione europea.
La stessa portavoce Commissione europea, Natasha Bertaud da Bruxelles, ha dichiarato di non essere a conoscenza di gravi violazioni dei diritti umani negli hotspot italiani e ha comunque assicurato che le accuse «verranno prese in seria considerazione». «Lavoreremo con le autorità italiane per chiarire la situazione», ha promesso.
Amnesty sostiene di aver scritto due volte al ministro dell’Interno Angelino Alfano durante la scrittura del rapporto, chiedendo informazioni sull’uso della forza nel rilevamento di impronte, e di non aver mai ricevuto risposta. L’ong si rammarica poi di non aver potuto interloquire con il prefetto Giovanni Pinto, che al Viminale dirige la polizia di frontiera e addetta all’immigrazione. Il segretario del sindacato di polizia della Cgil, Daniele Tissone, fa notare che le pistole Taser non sono in dotazione alla polizia italiana. Dimentica di specificare che dal 2014 sono state introdotte «in via sperimentale». Evidentemente la sperimentazione ha bisogno di cavie.

Repubblica 4.11.16
Non lasciare senza diritti la comunità musulmana
Sulla libertà religiosa l’Italia è rimasta indietro: servono nuove norme
È interesse di tutti superare l’apartheid Ciascuno deve disporsi al confronto e proporre soluzioni
di Michele Ainis

SE CHIUDI gli occhi, smetti di vedere il mondo. Ma il mondo, là fuori, non smetterà certo d’esistere. È esattamente questo l’errore che ci acceca rispetto ai musulmani. Dopo i cattolici, formano la più grande comunità religiosa ospitata nei nostri confini (non meno di un milione e 700 mila persone); ma per le nostre leggi sono un popolo invisibile. Senza diritti, senza le garanzie riconosciute agli altri culti. Da dove ha origine questa disparità di trattamento? A chi conviene? E c’è modo di sanarla?
L’origine è nella Costituzione, o meglio nella sua cattiva applicazione. L’art. 8 prevede infatti lo strumento dell’«intesa» fra il governo e ciascuna confessione religiosa, per regolarne obblighi e diritti; dopo di che ogni intesa va trasformata in legge. Dagli anni Ottanta in poi, è accaduto a 12 culti, dai valdesi agli ebrei, dagli evangelisti ai buddisti. Ma ai musulmani no, loro restano fuori dalla porta. Per quale ragione? Perché l’Islam sunnita è una religione orizzontale, senza clero, senza gerarchie. Ogni fedele ha un rapporto diretto con Allah, e oltretutto i fedeli si dislocano in varie organizzazioni (Ucoii, Coreis, Ami). Manca, insomma, l’ente esponenziale della comunità musulmana, manca un soggetto che la rappresenti dinanzi allo Stato, e con cui lo Stato possa negoziare l’intesa.
MA QUESTA spiegazione è falsa, benché dettata ripetutamente dai governi di destra e di sinistra. In primo luogo, la frammentazione non esprime un tratto specifico degli islamici: caratterizza pure i protestanti. E non ha mai impedito di siglare intese separate, come è accaduto altresì con i buddisti (due intese, rispettivamente con l’Unione buddista italiana e con l’Istituto buddista italiano Soka Gakkai, recepite da altrettante leggi nel 2012 e nel 2016).
In secondo luogo, per superare la discriminazione tra figli e figliastri, basterebbe riesumare un’idea che fu di Giulio Andreotti: la legge sulla libertà religiosa, ossia una base giuridica minima e comune per ogni confessione. Dal 1990 in poi, sono stati 16 i progetti di legge via via depositati in Parlamento, compreso quello firmato nel 1997 dal primo governo Prodi, o nel 2002 dal secondo governo Berlusconi. Tutti andati a vuoto, perché il Vaticano s’oppone al principio che il cattolicesimo sia uguale alle altre religioni. Così come la politica s’oppone all’intesa con i musulmani, sui quali aleggia un sentimento di paura, o quantomeno di sospetto, specie dopo l’attentato alle Twin Towers.
Diciamolo: è un comportamento stupido, oltre che ingiusto. L’ostilità nasce dalla segregazione, non dall’integrazione. E fra i musulmani può attecchire proprio per il persistente diniego dell’intesa, che significa limiti all’esercizio del culto, mancata assistenza spirituale nelle carceri come negli ospedali, esclusione dall’otto per mille. L’apartheid non ci conviene, insomma; e non conviene a loro. Dunque è interesse comune superarla. Dunque ciascuno deve fare la sua parte, disporsi al confronto, proporre soluzioni.
Quanto alla comunità musulmana, uno dei suoi leader — Hamza Piccardo — ha appena imbastito un’importante iniziativa: il Manifesto dell’Assemblea costituente islamica d’Italia. Lo scopo è di configurare un soggetto rappresentativo, in grado di stipulare un’intesa con lo Stato. Lo strumento consiste in un’assemblea eletta attraverso una piattaforma online, che duri in carica un triennio, i cui membri dichiarino di rinunziare a ogni forma di violenza politica, e che a sua volta generi un presidente e una giunta esecutiva. A gennaio è in calendario una prima convention: auguri.
E auguri ai nostri governanti, per timbrare due leggi attese da un quarto di secolo. Quella sulla libertà di religione, ma anche la nuova legge sulla cittadinanza. La disciplina del 1992 tratta da stranieri i ragazzi nati nelle nostre città, educati nelle nostre scuole, che s’esprimono in dialetto veneto o campano. Da qui un tentativo di riforma, però la legge è bloccata da un anno in Senato, sepolta da 8 mila emendamenti. Nel frattempo risuona la domanda di Nadia Bouzekri, presidente dei Giovani musulmani d’Italia: perché un adolescente nato a Roma o a Milano deve andare in questura per rinnovare il permesso di soggiorno? E perché ai musulmani, soltanto ai musulmani, viene negata l’intesa con lo Stato?