Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
venerdì 4 novembre 2016
ITALIA
La Stampa 4.11.16
Servono 13 miliardi per avere scuole sicure
Piani di evacuazione inadeguati, assenza di verifiche sugli edifici, Anagrafe dell’edilizia scolastica mai aggiornata
Ecco come i ragazzi rischiano nell’indifferenza degli enti che nel corso degli anni avrebbero dovuto vigilare
di Flavia Amabile
In Italia una scuola su tre si trova in una zona ad alto rischio di terremoti e solo l’8% è progettata secondo la normativa antisismica. Il 55% è stata costruita prima del 1976 quindi prima che fosse necessario avere un certificato di agibilità che infatti 6 scuole su 10 non hanno.
È quello che si ricava leggendo l’Anagrafe dell’Edilizia Scolastica del Miur. Sono dati stupefacenti, allarmanti. Ma quello che davvero è stupefacente, allarmante e soprattutto sconfortante è sapere che questi dati sono sempre gli stessi da troppo tempo. Il Miur li aveva presentati ad agosto del 2015 dopo venti anni di attesa. Già allora si trattava di dati incompleti e vecchi. Alcune regioni non avevano collaborato nonostante le insistenze dell’amministrazione centrale. La ministra dell’Istruzione Stefania Giannini e il sottosegretario Davide Faraone avevano assicurato, però, che entro il gennaio seguente sarebbe arrivato un aggiornamento con le informazioni mancanti e comunque più recenti. I mesi sono passati, i crolli si sono susseguiti, la fotografia deprimente dello stato dell’edilizia scolastica italiana è rimasta sempre la stessa. Secondo gli esperti, per mettere in sicurezza le scuole italiane bisognerebbe stanziare una cifra di almeno 13 miliardi di euro.
È questa indifferenza da parte di chi a livello locale dovrebbe inviare i dati e inviarli corretti a far capire più di ogni cifra quale sia il livello di interesse nei confronti del rischio sismico in momenti lontani dalle emergenze. È anche per questo motivo che il Miur ha in corso una rivoluzione dell’Anagrafe ma l’indifferenza e la superficialità restano inalterate.
Secondo l’ultimo rapporto di Cittadinanzattiva nel 15% delle scuole sono state riscontrate lesioni strutturali, in gran parte (73%) sulla facciata esterna, nel 27% negli ambienti interni. Una scuola su sei presenta uno stato di manutenzione del tutto inadeguato. Una scuola su quattro ha chiesto interventi di tipo strutturale che, in un caso su tre (29%), non sono stati mai effettuati. Nel 24% dei casi, sono intervenuti con molto ritardo, solo nel 14% tempestivamente.
Per capire qual è il rischio sismico di una scuola e definire come comportarsi ogni dirigente deve predisporre per il proprio istituto un Documento di Valutazione dei Rischi e un Piano di Emergenza. Come sottolinea Cittadinanzattiva in Abruzzo, soltanto il 27% ha redatto il Piano. In 8 scuole su 10 della Calabria, l’informazione risulta assente, in 4 scuole su 10 della Campania l’informazione è assente o non c’è il documento. Stessa situazione per il 25% delle scuole toscane e il 26% di quelle umbre nonostante i terremoti sperimentati nel corso degli anni.
Se questa è la fotografia delle scuole possiamo provare a immaginare che cosa accadrebbe in caso di terremoto. «Le campanelle che tutti usano nelle esercitazioni per lanciare l’allarme probabilmente rimarrebbero in silenzio spiega Adriana Bizzarri, responsabile scuola di Cittadinanzattiva La corrente elettrica va via durante un terremoto. Si correrebbe il rischio di inciampare negli zaini dei compagni di classe o di trovare i percorsi chiusi dai banchi disposti in modo sbagliato. Nelle scuole italiane si fanno molte esercitazioni antincendio e poche invece antisismiche e le regole da tenere sono del tutto opposte». Bambini e ragazzi non saprebbero che cosa fare. In base a un sondaggio lanciato dal sito Skuola.net il 28% degli studenti afferma di non aver ricevuto nessuna istruzione al riguardo dal suo istituto. Più di 2 ragazzi su 10 (il 22%) aggiungono di non aver nemmeno mai svolto una prova di evacuazione per simulazione di terremoto. E tra i fortunati che hanno svolto almeno un’esercitazione 1 su 3 circa dice di aver avuto difficoltà nell’eseguire le indicazioni perché erano state fornite troppo tempo prima. E al 3% nessuno ha mai spiegato come si sarebbe dovuta svolgere l’esercitazione.
La Stampa 4.11.16
Sisma, 9 scuole su 10 fuorilegge
Dossier di Legambiente: due edifici su tre costruiti prima delle norme sui terremoti
Al Sud il 60 per cento richiede interventi “urgenti”. In Piemonte quasi la metà
di Federico Capurso
Le scuole italiane sono fragili: solo una su dieci rispetta le norme antisismiche. E quando la terra trema, la loro fragilità viene messa a nudo. Il soffitto crolla sui banchi, le lavagne vengono divelte dal muro, la polvere copre ogni cosa. Oggi nel Centro Italia, ieri in Emilia, prima ancora a L’Aquila. Legambiente, nella sua indagine annuale «Ecosistema scuola», compiuta analizzando seimila scuole del nostro Paese, tratteggia il ritratto dell’attuale sistema di edilizia scolastico: vecchie le scuole, poche quelle a norma e ancora troppo esigui gli investimenti per i sempre più necessari interventi antisismici.
L’anno di nascita di un edificio scolastico è fondamentale. Prima del 1974, infatti, non esistono norme che vincolano a costruire edifici seguendo criteri antisismici. Dall’indagine di Legambiente emerge che due scuole su tre sono state costruite prima di quella data e, di queste, il 40% si trova in aree a rischio terremoto. Dando uno sguardo d’insieme all’intero sistema dell’edilizia scolastica, il dato diventa ancor più allarmante: solo il 10 per cento è antisismica.
L’endemico divario tra nord e meridione, si ripete anche qui. Il Mezzogiorno continua ad avere, in media, un patrimonio di scuole in condizioni peggiori rispetto a quello del nord. I capoluoghi di provincia del Sud dichiarano di avere 3 scuole su 4 in aree a rischio sismico e, nel 60% dei casi, lamentano la necessità di interventi di manutenzione urgenti. Una percentuale superiore di venti punti rispetto alla media nazionale. Il Nord, invece, mantiene una capacità di investimenti e risorse in media 5 volte superiori a quella delle altre aree del Paese. Eppure, anche qui, la sufficienza in pagella rimane lontana. In Piemonte, il 46,3% degli edifici scolastici continua ad avere bisogno di interventi di manutenzione urgente, nonostante in 6 scuole su dieci si siano realizzati lavori edili negli ultimi 5 anni. La graduatoria di efficienza dell’edilizia scolastica stilata da Legambiente premia comunque le città del nord Italia, che occupano, insieme a poche altre città del centro, le prime venti posizioni della lista. Spicca, in negativo, la posizione de L’Aquila. Lì, dove sono ancora aperte le ferite del terremoto del 2009, si rimane fermi al trentanovesimo posto.
Emergono, dall’indagine di Legambiente, anche alcuni spunti positivi. In questi ultimi anni si è aperta infatti una «nuova fase di investimenti», con 7,4 miliardi di euro di finanziamenti, proiettati anche nei prossimi dieci anni. La strada verso la normalità sembra però ancora lunga. La Protezione civile stima infatti che, per il solo adeguamento sismico, siano necessari investimenti per 13 miliardi di euro.
il manifesto 4.11.16
Caro Renzi, di questo passo per mettere al sicuro le scuole serviranno secoli
Terremoto e non solo. Quasi un terzo delle scuole italiane sono in zone sismiche. I comuni non hanno fondi, competenze o strutture idonee a gestire la messa in sicurezza. E così il 70% degli interventi non sono "strutturali" ma di facciata
di Edoardo Zanchini
Vicepresidente Legambiente
Ci vorranno secoli, se continuiamo con questi ritmi, per rendere sicure le scuole italiane e tagliare una bolletta energetica che pesa 1,3 miliardi di euro all’anno sulle casse dello Stato.
Scansiamo dal tavolo i gufi e le polemiche politiche, perché davvero la riqualificazione dell’edilizia scolastica è una priorità condivisa da tutti. Per una volta il problema non sono neanche le risorse a disposizione o i pochi cantieri aperti. Il paradosso, anzi, è che sono stati mobilitati oltre 7 miliardi di euro, secondo le ultime stime del governo, ma risulta davvero difficile capire i risultati che 27mila interventi in corso starebbero producendo per rendere più sicure e accoglienti le scuole italiane.
Un’analisi di questa particolare situazione possiamo trovarla nel Rapporto Ecosistema Scuola di Legambiente, presentato oggi a Roma, che ha provato a indicare le priorità di intervento nella riqualificazione del patrimonio edilizio scolastico.
Abbiamo tutti negli occhi le immagini del terremoto nel centro Italia, per cui non è difficile condividere l’urgenza della messa in sicurezza del patrimonio esistente. Davvero non è accettabile che possa ripetersi in futuro quanto avvenuto ad Amatrice, dove una scuola inaugurata nel 2012, su cui erano state investite risorse pubbliche per il “miglioramento sismico”, possa crollare.
La seconda sfida tiene assieme obiettivi ambientali e di spesa pubblica. Perché migliorare le prestazioni energetiche dei 43mila edifici scolastici che esistono nel nostro paese, significa produrre vantaggi nell’interesse generale e, attraverso i risparmi realizzati, aiutare gli stessi processi di riqualificazione.
Il problema, che emerge dal rapporto di Legambiente, è che proprio questi interventi vanno a rilento. Lo dicono i dati del Miur: oltre il 70% degli interventi avviati sono “non strutturali”. Si tratta di rifacimenti delle facciate, messa a norma degli impianti e dell’antincendio, interventi sui controsoffitti.
Indubbiamente tutti gli interventi sulle scuole sono importanti, ma in un Paese dove quasi un terzo delle scuole si trova in zone ad alto o altissimo rischio sismico occorre indirizzare con intelligenza le risorse.
Le politiche messe in atto dal Governo Renzi hanno permesso, fino ad oggi, di sbloccare progetti che i Comuni avevano nei cassetti da tempo, ma ora si sta fermando tutto.
Nessuno ne parla, ma la situazione è davvero surreale, con bandi di finanziamento che vengono continuamente prorogati perché andati deserti. I Comuni non hanno infatti in bilancio le risorse per finanziare la progettazione necessaria a candidarsi, per i noti tagli, oppure, chi ha i progetti viene fermato dalle barriere che ancora esistono dovute al Patto di Stabilità.
Il caso di Roma è, come spesso capita, esemplare.
Le oltre 1.500 scuole nel comune della capitale dovranno attendere anni prima di vedere interventi capaci di eliminare degrado e sprechi, perché ieri Marino e oggi la Raggi non sono in grado di candidarsi per i fondi Kyoto o i mutui BEI con progetti di riqualificazione.
Per cambiare questa situazione non serve bussare dal ministro Padoan per ottenere più risorse nella Legge di Stabilità. In questo momento si potrebbero perfino triplicare i fondi senza che nulla di significativo accada.
Piuttosto, Renzi dovrebbe prendere atto che quanto messo in piedi fino ad oggi non basta più.
Si parta dalla struttura creata presso Palazzo Chigi, che dovrebbe proprio cambiare “missione”, perché oggi non serve una regia nazionale, per le risorse dedicate alle scuole, se poi non si è in grado di supportare i Comuni a superare i problemi che incontrano.
E poi, è possibile che ancora non sia stata completata l’anagrafe del patrimonio edilizio scolastico? La conseguenza è che si continua a procedere negli interventi senza conoscere le vere emergenze, con evidente sperpero di risorse pubbliche.
Si parla tanto di semplificazione per le grandi opere e poi si lasciano funzionari e Sindaci a gestire procedure complicatissime per progetti, appalti e cantieri.
Invece di tante slide e annunci, proviamo a scalare un gradino alla volta. E, a partire da Norcia e Amatrice, mettere in sicurezza tutte le scuole nelle aree a rischio sismico per poi applicare questi obiettivi al resto del patrimonio.
Altro che Ponte sullo Stretto, sono questi i cantieri diffusi di cui ha bisogno il nostro Paese per tornare a guardare con speranza il futuro.
Corriere 4.11.16
Non è l’Europa a fare crollare le scuole italiane
di Sergio Rizzo
Assai arduo sostenere, come ha fatto ancora oggi Matteo Renzi, che «è impensabile» veder crollare le nostre scuole «per la stabilità europea». Perché questa non c’entra proprio nulla con gli edifici scolastici che vengono giù come castelli di carte a ogni scossa di terremoto. Non è certo responsabile il patto di Stabilità se nel 2002 la scuola di San Giuliano di Puglia ha schiacciato una intera prima elementare: unico edificio di quel paese a crollare. Come non si può imputare ai rigori di bilancio imposti da Bruxelles il crollo della scuola di Amatrice, peraltro oggetto di un «miglioramento antisismico» giusto prima del terremoto del 24 agosto. Il presidente del Consiglio dovrebbe puntare piuttosto il dito contro la sconcertante indifferenza con cui il Paese tratta da decenni il proprio futuro. Già nel 2007 una indagine del governo di Romano Prodi aveva accertato che ben oltre metà degli edifici scolastici non era a norma. Proprio ieri Legambiente ha poi diffuso un rapporto sull’edilizia scolastica dal quale risulta che lo stato delle scuole nella regione Lazio, dove il rischio sismico è particolarmente elevato, risulta letteralmente disastroso. La provincia di Rieti, cui appartiene Amatrice, è al cinquantesimo posto fra tutte quelle italiane. La ragione? Pochi soldi, d’accordo, ma anche spesi male: con programmi eccessivamente frammentati e senza un coordinamento. Una follia. Alla quale si è cercato ora di porre rimedio creando una unità di missione per gestire il piano da un miliardo e 680 milioni messo in campo dal governo. Di cui finora si è riusciti a impiegare 902 milioni. Quanto all’Europa, fa rabbia confrontare la situazione deprecabile in cui versa la nostra edilizia scolastica con il vergognoso spreco di fondi comunitari. Altro che dare la colpa al patto di Stabilità.
La Stampa 4.11.16
I destini politici nelle mani della Consulta
di Marcello Sorgi
Anche se il Tribunale di Milano ha preso tempo per decidere sull’esposto del professor Onida, che potrebbe portare a un rinvio del referendum, esistono concrete possibilità che nel giro di pochi giorni o poche settimane la Corte Costituzionale debba occuparsi delle due più importanti leggi varate in questa legislatura: la riforma costituzionale (se il giudice di Milano dovesse accettare la richiesta di Onida di rimettere le mani sul quesito referendario) e quella elettorale, sulla quale il giudizio è stato solo rinviato a dopo il 4 dicembre per non interferire sulla campagna elettorale e non influenzarla in alcun modo.
Settimane, mesi e anni di duro lavoro parlamentare, decine e centinaia di sedute in commissione e in aula, dibattiti infuocati e scrutini combattuti fino all’ultimo voto verrebbero così invalidati sia che la Corte approvi, sia che smantelli, com’è più probabile, i testi contestati da un breve dispositivo di sentenza, a cui certo farebbero seguito, qualche tempo dopo, più ampie motivazioni.
La criticità del ruolo della Corte, divenuta, soprattutto nel corso del ventennio berlusconiano, una specie di censore delle decisioni del governo, ratificate a colpi di fiducia dalle Camere, era già emersa del resto da tempo. Ma come si vede, non è rimasta legata all’epoca del Cavaliere, dei diversi «lodi» giudiziari (Cirielli, Schifani, Alfano) introdotti per arginare i guai giudiziari dell’ex-presidente del Consiglio: anzi, nel caso della legge elettorale, l’Italicum che segue il Porcellum cancellato dalla Consulta, il ricorso alla Corte, che dovrà valutarne la costituzionalità e l’aderenza alle indicazioni contenute nel precedente verdetto che ha dichiarato illegittimo il Porcellum, sarà preventivo, avverrà cioè prima che la legge venga applicata, ed è stato parte decisiva dell’accordo politico tra Renzi e gli oppositori della riforma, che ne ha consentito l’approvazione.
Si può leggere quanto sta accadendo come una prova che in una legislatura complicata, con maggioranze deboli trasformistiche o inesistenti nelle Camere, e in tempi di seria difficoltà della democrazia parlamentare, il compito di un organo di garanzia come la Corte Costituzionale diventa nevralgico, per impedire un avvitamento della crisi. Oppure, peggio, per certificarla, come sembra stia accadendo. Né è solo una malattia italiana. Anche in Gran Bretagna, ieri, l’Alta Corte (che non corrisponde esattamente alla nostra Consulta, ma lì d’altra parte non esiste una Costituzione scritta), con un effetto capovolto rispetto all’Italia, ha imposto al governo di Theresa May di passare per un voto del Parlamento prima di presentare richiesta formale di uscita dall’Unione europea in forza del risultato referendario della Brexit.
La Stampa 4.11.16
Referendum, Berlusconi tratta il rinvio con Renzi
Ma l’intesa non c’è ancora
“Vogliamo il Senato elettivo”. Il premier dice no
di Ugo Magri
Con orgoglio e sprezzo del pericolo, Renzi ha respinto quella che dalle sue parti considerano una «proposta indecente»: rimangiarsi la riforma costituzionale appena approvata, in cambio del via libera berlusconiano a un rinvio del referendum fissato tra un mese esatto. Autorevoli fonti garantiscono che la profferta (o provocazione, dipende dai punti di vista) è stata riservatamente sottoposta ieri mattina al premier
dopo un lungo conciliabolo a Palazzo Grazioli tra Berlusconi, Gianni Letta e Niccolò Ghedini, braccio destro e braccio sinistro del Cav. Non risultano contatti diretti, tipo telefonata di Silvio a Matteo, e nemmeno mediazioni condotte dal solito Verdini. A fare da ambasciatore si è prestato un personaggio di governo che preferisce restare lontano dai riflettori. Anche perché il primo «round» è andato male, d’accordo, ma ce ne potrebbe essere un secondo, e in questi casi non si sa mai.
Appello al buon senso
È convinzione berlusconiana che il referendum sia tutto sbagliato, perché spacca l’Italia proprio mentre la politica dovrebbe unirsi per soccorrere gli sfollati. Dei veri statisti (questo il messaggio recapitato a Palazzo Chigi) stopperebbero il referendum, darebbero ai terremotati i 300 milioni risparmiati grazie al rinvio del voto, si metterebbero tutti insieme intorno a un tavolo, rifarebbero da cima a fondo l’«Italicum» cancellando il ballottaggio, e aggiusterebbero la stessa riforma costituzionale che rappresenta il motivo dello scandalo.
Per questo a Renzi è stato chiesto di impegnarsi solennemente, con una dichiarazione pubblica, a emendare la riforma su almeno tre punti precisi: elezione diretta dei futuri senatori, maggiori poteri alle Regioni, quorum più alto per eleggere il capo dello Stato e le alte magistrature. Temi condivisi con grillini e sinistra Pd. A quel punto verrebbe meno un motivo essenziale di scontro e sarebbe logico fermare le lancette dell’orologio, posticipando il voto.
Condizioni capestro
La risposta di Renzi è pervenuta quasi in tempo reale, ancora prima che il Cav ricevesse a pranzo Brunetta, leader indiscusso dei berlusconiani duri e puri. Ha fatto sapere, il premier, che della riforma costituzionale non cambierà un bel nulla, perché toccare una sola virgola sarebbe un’umiliazione troppo grande per chi, come lui, ci ha messo la faccia. Perderla sul Senato sarebbe perfino peggio che una sconfitta alle urne. E poi, ragionano i renziani, «chi l’ha detto che perderemo?». I 6 principali istituti di sondaggi segnalano come, a trenta giorni dal voto, la percentuale di indecisi rimanga altissima, c’è tempo per convincere una parte della minoranza Pd, quella che fa capo a Cuperlo, col quale si stanno discutendo modifiche della legge elettorale. Insomma, per Renzi la partita è ancora aperta, anzi apertissima.
Falchi e colombe
«Che peccato, una grande occasione persa», si lamentano le «colombe» berlusconiane che vedono chiudersi la finestra del buon senso (gli italiani all’estero cominceranno a votare tra una settimana, e a quel punto sarà troppo tardi per il rinvio). I «falchi» invece applaudono la «faccia tosta» di Renzi e notano soddisfatti come il Cav, dopo la rispostaccia del premier, si sia messo a registrare con più lena una raffica di appelli televisivi a sostegno del NO. Ma non è detto che, nel luna park della politica italiana, tutti i giochi siano davvero conclusi. La certezza di votare ce l’avremo solo il giorno che andremo in cabina.
il manifesto 4.11.16
Mister 60%, l’ultra-presenza di Renzi in tv
Mercoledì alla camera il Comitato per il No ha presentato l’Osservatorio TV con il quale, fino al 4 dicembre, verrà monitorata la presenza nei tg nazionali delle ragioni del no.
Si tratta, ha spiegato Roberto Zaccaria, della elaborazione sia di dati dell’Agcom (che hanno cadenza quindicinale) che di Mediamonitor, osservatorio indipendente del Dipartimento Comunicazione e Ricerca sociale dell’università La Sapienza, che invece produce indagini in tempi più rapidi ma con uno spettro più ridotto (prende in considerazione solo i principali tg della sera).
Dall’incrocio e dall’elaborazione di questi dati, emerge chiaramente il paradosso di una par condicio rispettata nella forma ma violata nella sostanza.
Infatti è vero che oggi si è a un sostanziale equilibrio nei tempi tra il sì e il no ma all’interno di questo schema al sì viene dato maggiore spazio nel tempo di parola, mentre il no prevale nel tempo di notizia: significa che i testimonial del sì possono parlare direttamente, mentre al fronte del no viene tutt’al più riservata una carrellata di immagini mentre parla il giornalista.
Ma il dato più clamoroso riguarda la eccessiva presenza del governo nei tg, con punte del 60 per cento.
Certo non è tutto tempo dedicato al referendum, ma si dà il caso che Renzi sia il principale testimonial del sì e, come ha ribadito il professor Pace, in questo momento esiste una stretta connessione nell’immaginario collettivo tra la presenza in tv del premier, la riforma costituzionale, la sua affermazione che si sarebbe dimesso in caso di vittoria del no ecc. Per questo, ha aggiunto Alfiero Grandi, «mentre critichiamo una riforma che punta all’uomo solo al comando, denunciamo una prepotenza che non è solo l’ultra presenza di Renzi in tv, ma anche un uso spregiudicato del potere».
In questo contesto appare «grottesca», per dirla con Vincenzo Vita, la circolare Rai del 4 ottobre che impedisce a tutti coloro che hanno sottoscritto appelli o preso posizione nel referendum di partecipare a trasmissioni di intrattenimento o culturali non riconducibili a testate giornalistiche: «Si tratta di una sorta di maccartismo in tredicesima che non trova alcun appiglio nella legge sulla par condicio. Speriamo che la Rai ci ripensi e ritiri questa circolare che impedisce la partecipazione a persone la cui unica colpa è quella di avere un’opinione politica, un diritto per altro tutelato dalla nostra Costituzione».
Il monitoraggio della presenza del no nei principali tg della sera continuerà nelle prossime settimane, con particolare attenzione all’ultima settimana, quella generalmente considerata decisiva. Ed è anche quella, va da sé, nella quale ogni squilibrio non potrà essere più riparato ed eventuali sanzioni varranno per i posteri.
Corriere 4.11.16
Perché il m5s è preoccupato per la scelta degli indecisi
di Massimo Franco
A Matteo Renzi che gli chiedeva un confronto in tv, Beppe Grillo ha risposto che può trovarlo «in piazza, tra la gente». Verità inconfutabile, che però racconta anche il paradosso del Movimento 5 Stelle nella campagna referendaria: il timore di essere forte tra i militanti, ma meno nell’elettorato di opinione che fa la differenza tra vittoria e sconfitta. Per questo, non esiste solo il panico di un governo che dopo avere voluto la consultazione ne intravede tutte le incognite: tanto più che i sondaggi indicherebbero un consolidamento del voto a favore del No. Esiste anche una preoccupazione opposta.
È quella dei dirigenti più avvertiti del M5S, i quali sono consapevoli di un risultato giocato negli ultimi giorni; e vedono la massa degli indecisi come determinante per sancire la sorte del governo. Nelle loro analisi, il Nord dell’Italia viene considerato in larga parte appannaggio del Sì: la Lombardia, soprattutto, ma anche l’Emilia-Romagna, mentre il Veneto e il Piemonte sarebbero più in bilico. Sul destino della legislatura, invece, domina un certo pessimismo. Che vinca il Sì o il No, i seguaci di Grillo si preparano a una campagna elettorale nel 2017. Nella loro analisi, Renzi tenterà comunque di andare al voto il prossimo anno.
Se viene sconfitto il 4 dicembre, lo farebbe per sopravvivere a una resa dei conti nel Pd inevitabile e rapida, e per impedire che un altro governo arrivi al 2018. In caso di vittoria, per capitalizzare il risultato referendario. A meno che Sergio Mattarella, magari d’accordo con la comunità internazionale, non si convinca che è bene continuare la legislatura. La cosa singolare, in questo ragionamento, è il giudizio che traspare nel M5S sul capo dello Stato, considerato meno interventista di Giorgio Napolitano e più neutrale; e dunque osservato con minore pregiudizio.
Su questo sfondo, il movimento sembra percorso da spinte contrastanti. Una è quella di sempre, che lo risucchia verso il grillismo di lotta e di piazza. E lo sospinge lontano dal governo e dalla cultura di governo. L’altra tendenza è quella di chi vuole accreditare una versione meno estremista, nella convinzione che sia l’unico modo per allargare l’elettorato. Le tensioni intorno al Campidoglio sono anche il riflesso di questi attriti. Si tratta di impulsi dei quali lo stesso Grillo sarebbe consapevole, e che cerca di «governare» o almeno arginare.
Sarà interessante vedere chi, a ridosso del 4 dicembre, presenterà e motiverà le ragioni del No a nord. L’antieuropeismo è un tema che sembra accomunare l’intero M5S. E il modo in cui Renzi ora attacca l’Ue viene letto come un’offensiva per calamitare voti grillini. Eppure, la decisione di mandare in visita nelle capitali europee il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, riflette il tentativo di rassicurare le cancellerie e i mercati finanziari, tuttora convinti che il movimento sia un pericolo.
Il Sole 4.11.16
Atac riparte dal biglietto elettronico
Il piano industriale di Fantasia punta al recupero dei ricavi anche attraverso una massiccia campagna antievasione
di Manuela Perrone
ROMA Largo al biglietto elettronico, con una card ricaricabile per pagare in base alle tratte percorse e il “chip on paper” per bypassare i guasti frequenti alle obliteratrici. Una «campagna straordinaria» di controlli su bus e metro fino a fine anno, arruolando come “verificatori”, oltre ai 150 già all’opera, tutti i 500 dipendenti , compresi circa 170 dirigenti e quadri, che hanno il titolo di agente di polizia amministrativa. Sprint al comarketing, con una risistemazione delle stazioni che permetta l’apertura di nuovi spazi pubblicitari e commerciali. Un restyling organizzativo che poggi sulla nuova macrostruttura già inaugurata e su un’organizzazione di secondo livello che riconosca ai 15 impianti il rango di “filiali”. E ancora: internalizzazione dei servizi che fanno parte del core business e riqualificazione del personale, per potenziare i ruoli operativi, dagli autisti agli operai specializzati, di cui l’azienda ha bisogno come il pane.
Sono queste le strategie delineate nelle linee guida del piano industriale pluriennale 2017-2019 di Atac, la partecipata romana della mobilità, che l’amministratore unico Manuel Fantasia nominato dalla sindaca Virginia Raggi dopo il doppio addio di Armando Brandolese e del dg Marco Rettighieri ha appena condiviso con l’assessora capitolina ai Trasporti Linda Meleo e che anticipa al Sole 24 Ore. Ingegnere nucleare, classe 1953, Fantasia ha il difficilissimo compito di provare a risollevare le sorti di un’azienda vicina al fallimento: è dal 2006 che non chiude un bilancio in attivo, ha sulle spalle un debito di 1,3 miliardi e conta 11.878 dipendenti. Soprattutto, tra guasti, mancate manutenzioni, ritardi e corse ridotte, non riesce a garantire un trasporto pubblico degno. Colpa di un mix diabolico tra nodi strutturali e finanziari, che vengono da lontano.
«Quando sono arrivato racconta Fantasia l’urgenza è stata risolvere un problema che veniva rinviato da maggio: la scadenza del debito da 160 milioni verso le banche, la cui proroga scadeva il 15 ottobre». Per rinegoziare e salvare Atac dal default è intervenuta la giunta, posticipando da luglio 2017 a gennaio 2019 l’inizio del pagamento da parte della società del debito da 430 milioni nei confronti di Roma Capitale. «Questo spiega il manager ha consentito di aprire una trattativa con le banche, che si è compiuta per la fase di ridefinizione della restituzione del debito ed è all’approvazione dei Cda degli istituti di credito. Il nuovo termine è al 2019 e abbiamo chiesto una riduzione di due punti percentuali del tasso di interesse attuale, intorno al 4,5%». Le garanzie? «La simulazione del piano finanziario collegato al nuovo piano industriale pluriennale dimostra che abbiamo la capacità di restituzione con la gestione caratteristica». Primo scoglio superato in extremis. A cui si aggiunge quello della situazione economica: «Stiamo completando il consuntivo del terzo trimestre. I dati confermano ciò che emergeva nella semestrale, e cioè che eravamo in linea con il budget delle perdite, a settembre pari a circa 38 milioni. A fine anno si dovrebbe attestare, sempre in linea con il budget, sui 44-45 milioni». Meglio dei 141 milioni del 2014 e dei 79 del 2015. Ma c’è un ma: «In conseguenza di una situazione disastrosa trovata sul parco autobus stiamo sviluppando meno chilometri/vettura di quanto previsto e gli effetti dei mancati corrispettivi da contratto di servizio dovranno essere compensati da economie sul lato dei costi e da un crash program che stiamo discutendo».
Tamponare le falle non basta, anche se divora energie. È per questo che l’asse portante del nuovo piano industriale sta nel recupero dei ricavi, sempre più magri: le vendite da biglietti e abbonamenti sono passate dai 275 milioni del 2014 ai 260 del 2015, e nel 2016 il trend non si è invertito. Qui entra in gioco la bigliettazione elettronica, fronte su cui Fantasia ha lavorato per anni a Trento. Due le innovazioni allo studio: «Vogliamo arrivare innanzitutto entro il 2018 ad avere una carta a deconto, una ricaricabile, che sia la somma di punti equivalenti al denaro ricaricato, che consentano di percorrere tratte brevi senza dover spendere l’equivalente del Bit (il biglietto che dura 100 minuti e costa 1,50 euro, ndr)». Obiettivo triplo: «Ridurre l’evasione, aumentare i ricavi e rendere più equa la fruizione del servizio pubblico. Con le possibili evoluzioni verso una card multiservizi».
La seconda novità sarà il «chip on paper, un biglietto di carta sul quale c’è un tag che viene bruciato quando si accosta all’obliteratrice, come avviene già per l’abbonamento e come si farà con la card a deconto. Un sistema efficace sia per l’antifrode sia perché elimina la componente elettromeccanica, la più soggetta a guasti». Il 2 dicembre, accompagnato dal presidente della commissione capitolina Trasporti, Enrico Stefàno, il manager tornerà a Trento ospite della Provincia e dell’Informatica Trentina, che dal 2001 hanno attuato questo tipo di bigliettazione.
Sempre nell’ottica di far lievitare i ricavi Atac avvierà «un processo di ristrutturazione e valorizzazione delle stazioni della metro per aumentare gli spazi pubblicitari e commerciali: partiremo con Cavour, sulla linea B, entro l’anno». E si sferrerà subito l’attacco all’evasione «con un piano straordinario da qui a fine anno che metta in campo tutte le risorse di Atac: i 160 verificatori attuali su due turni e circa 500 persone appartenenti a tutte le categorie professionali che in Atac hanno il titolo di agente di polizia amministrativa. Il nostro scopo non è incassare con le sanzioni: è far fare il biglietto alle persone».
Sulla dismissione degli immobili, capitolo su cui Rettighieri aveva accusato la giunta di fare muro, Fantasia precisa: «Ne stiamo discutendo con l’azionista». Il nuovo piano industriale prevede invece una radicale riorganizzazione interna: varata, non senza proteste, la nuova macrostruttura con le due “condirezioni” Operations e Corporate, su cui Fantasia tiene il punto assicurando «verifiche continue sulla qualità», la prossima settimana arriverà la nuova organizzazione di secondo livello. «In qualsiasi azienda di 12mila dipendenti le sue 15 “filiali”, tanti sono gli stabilimenti, avrebbero un dirigente o un quadro apicale e una struttura minima. In Atac non c’è e si farà». Accompagnata da «una disposizione organizzativa con cui istituirò un gruppo di lavoro per la ridefinizione di processi, procedure e regolamenti, costituito da una rappresentanza di tutte le categorie professionali, dal direttore di esercizio all’autista». La partecipazione, cara ai Cinque Stelle.
Quanto ai disservizi, con la giunta costretta a certificare la riduzione delle corse, il manager elenca le note dolenti del parco mezzi: «La vetustà, il backlog nella riparazione dei motori, i ritardi con cui sono arrivati i nuovi autobus: i famosi 150 fanno parte di un lotto che avrebbe dovuto essere di 700. Nel 2013-2015 ad Atac non sono stati attribuiti finanziamenti per investimenti. I primi 58 previsti sono stati cancellati durante la gestione commissariale e a oggi siamo riusciti a recuperarne 18. Non devo dire altro sul perché il servizio è in questa difficoltà». Il futuro? «Il nodo sono gli investimenti nel prossimo triennio».