venerdì 4 novembre 2016

MONDO

La Stampa 4.11.16 
L’Alta Corte rallenta la Brexit
“Il Parlamento deve votare”
Per i giudici serve il sì dei deputati per dare il via al distacco dall’Unione Il governo: faremo appello. La sterlina risale. Bruxelles teme l’incertezza
di Alessandra Rizzo

La decisione che sconvolge la politica britannica arriva a metà mattinata in un’aula di tribunale talmente piena che qualcuno si è dovuto sedere per terra: il governo non può dare il via al processo di uscita dall’Unione europea senza l’approvazione del Parlamento. Per Theresa May si tratta di una sconfitta bruciante: la Premier aveva sempre rivendicato il diritto esclusivo di attivare l’Articolo 50 del Trattato di Lisbona, che dà il via a due anni di negoziati formali. Adesso deve fare i conti con un Parlamento in cui molti deputati hanno votato contro la Brexit.
La sentenza dell’Alta Corte non blocca la Brexit, nè ribalta l’esito del referendum del 23 giugno: i deputati non possono, e non vogliono, ignorare il voto di 17 milioni di concittadini. Ma certamente il pronunciamento rende più incerto e più complicato il cammino verso il divorzio da Bruxelles. Probabilmente rallenterà le procedure e potrebbe costringere May a un compromesso e, forse, a una Brexit più soft. «Siamo delusi», ha detto Liam Fox, ministro al Commercio internazionale. «Siamo determinati a rispettare il risultato del referendum». Downing Street fa sapere che andrà avanti con i piani e che farà ricorso alla Corte Suprema. Il governo spera di confermare la tabella di marcia prevista e avviare le procedure entro fine marzo.
Il caso era stato presentato da un gruppo di cittadini capitanati dalla manager della City Gina Miller e dal parrucchiere Deir Dos Santos. Al centro della battaglia c’era la questione, squisitamente britannica, su cosa dovesse prevalere nel dare il via alla Brexit: la prerogativa reale, che dà potere esecutivo al governo, o la sovranità del Parlamento? Questione resa più confusa dal fatto che la Gran Bretagna non ha una costituzione scritta e che la formulazione stessa dell’Articolo 50 è vaga: uno stato membro può attivarlo «in accordo con i propri requisiti costituzionali».
L’Alta Corte però è stata chiarissima: «Il principio fondamentale della costituzione del Regno Unito è che il Parlamento è sovrano», ha detto il giudice Lord Thomas nel leggere il verdetto dopo meno di tre settimane di delibera. Livido Nigel Farage, che sente odore di «tradimento» del referendum. «Temo che le proveranno tutte per bloccare o rallentare l’attivazione dell’Articolo 50. Se sarà cosi, non hanno idea della rabbia popolare che questo provocherà», ha detto sinistro il leader del partito anti-europeo Ukip. Esultano i nemici non solo della Brexit ma anche del governo. Diane Abbott, braccio destro del leader laburista Jeremy Corbyn, twitta velenosa: «Sovranità del Parlamento significa sovranità del Parlamento» (con riferimento alla frase preferita e tanto vituperata di May: «Brexit means Brexit»). Ed è raggiante Gina Miller, che giura che la sua battaglia non è volta a ribaltare l’esito del voto. «Questo risultato è di tutti noi, non c’entra la politica ma la giusta procedura», ha detto fuori dalla Corte.
La decisione ha fatto scattare il rialzo della sterlina, mentre il governatore della Banca di Inghilterra Mark Carney, nell’annunciare che i tassi sarebbero rimasti invariati, ha spiegato che la sentenza è «un esempio dell’incertezza che caratterizzerà questo processo». Stessa incertezza avvertita anche a Bruxelles. La sentenza rischia di trasformare un caso già senza precedenti in una disputa legale prolungata e, nel frattempo, di tenere in ostaggio l’Ue a tempo indeterminato.

La Stampa 4.11.16
Gina, attivista e manager immigrata che manda all’aria i piani della May
Dopo il referendum ha presentato ricorso insieme a un parrucchiere
Ex modella, col marito ha creato un software che vigila sulla finanza
di Vittorio Sabadin

In un mondo ormai guidato da donne di carattere, ci voleva una donna con un pessimo carattere per rimettere al suo posto Theresa May. È vero, il ricorso all’Alta Corte britannica ha avuto anche un altro protagonista altrettanto testardo e determinato, Deir Tosetti Dos Santos, nato in Brasile e di professione parrucchiere. Ma l’eroe della giornata è lei: Gina Miller, 51 anni, la lingua più acida e tagliente della City, una combattente nata che i sostenitori del «Remain» hanno ora già eletto nei loro siti web, forse con un po’ di precipitazione, «donna del secolo».
Pochi giorni dopo il 23 giugno, giorno nel quale la Gran Bretagna ha votato la Brexit, sono stati loro due a presentare le prime ingiunzioni all’Alta Corte, sostenendo che il governo non poteva invocare l’applicazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona senza l’approvazione del Parlamento. Dos Santos, 37 anni, aveva votato per la Brexit, convinto che l’Europa avesse ormai usurpato i poteri della Camera dei Comuni. Ma è un grande idealista, e non sopportava l’idea che il suo diritto di essere rappresentato dal Parlamento fosse violato dal governo. Di lui si sa molto poco, perché ha sempre preferito restare nell’ombra, incaricando gli avvocati dello studio Edwin Coe di definirlo «un ragazzo qualunque» e di riferirsi a lui come «il cittadino britannico Deir Dos Santos». Anche ieri non si è fatto vedere, incaricando l’avvocato David Green di leggere una sua dichiarazione.
Gina Miller ama invece i fotografi e le telecamere. Anche lei è un’immigrata, nata nell’ex colonia inglese della Guyana, e c’è un po’ di immancabile ironia britannica nel fatto che siano stati due cittadini nati all’estero a rimettere in discussione il risultato di un referendum che si è giocato in gran parte sull’immigrazione. Ma la Miller a Londra è ormai di casa. Ex modella, ha sposato Alan, un geniale gestore finanziario soprannominato Mr Hedge Fund per essere stato il primo, nel 1997, ad aprire un fondo che ha distribuito un guadagno del 17% in nove anni. Nella causa di divorzio dalla prima moglie si è scoperto che Miller aveva accumulato 30 milioni di sterline, e ancora si ricorda il suo ostinato rifiuto a concedere alla ex una adeguata buonuscita, giustificato dal fatto che erano rimasti insieme per poco tempo.
Il matrimonio con Gina ha creato una delle coppie meglio assortite della City, fortemente impegnata a guadagnare denaro ma pure a spenderlo in opere filantropiche di altissimo livello. Anche le loro finanze sono state duramente colpite dalla crisi del 2008 e Gina Miller ha osservato: «Se abbiamo subito danni noi, che conoscevamo i mercati, che cosa ha potuto fare la gente comune, che aveva investito con fiducia i propri soldi?». Alan ha così ideato un software che consente ai clienti di verificare ogni sera lo stato dei propri investimenti. Insieme si sono battuti apertamente contro la disonestà nell’industria dei servizi finanziari e anche contro gli sprechi delle associazioni di carità.
Gina Miller ha votato per non uscire dalla Ue e ora sostiene che questa sua campagna non è politica, perché non vuole rimettere in discussione il risultato del referendum, ma solo difendere un principio costituzionale. Ma è ovvio che ora la politica entrerà nella battaglia. La Miller vota per un partito, quello laburista, che cerca un leader più concreto e meno stravagante di Corbyn. Nei sogni di Theresa May, da ieri, c’è un incubo in più: una intelligente donna bruna più testarda di lei.

Corriere 4.11.16 
L’italiano Ivo, anima della battaglia
Ma i nomi dei «registi» sono segreti
di Federico Fubini

Ivo Ilic Gabara ha capito che lui e i suoi potevano vincere quando davanti all’Alta Corte, di colpo, la questione è diventata personale. A inizio ottobre il Procuratore generale dell’Inghilterra e del Galles Jeremy Wright ha aggredito verbalmente Gina Miller, invece di rifarsi alla legge: secondo l’avvocato del governo di Londra, questa manager della finanza etica nata in Guyana stava cercando di sovvertire la volontà del popolo espressa nel referendum sul divorzio dall’Unione europea.
Gli attacchi personali al posto degli argomenti giuridici sono sempre una spia che questi ultimi scarseggiano. Sono tic tipici più di un regime autoritario, che delle battaglie davanti alle parrucche bianche dell’Alta Corte dei Lord. Ivo Gabara, 56 anni, italiano trasferitosi a Londra nel 2008, non li aveva messi in conto quando all’inizio dell’estate con un piccolo gruppo di alleati ha gettato il seme della svolta di ieri. Era il mercoledì dopo il referendum sulla Brexit, 29 giugno. In una saletta di Mishcon de Reya, uno dei grandi studi di avvocati d’affari della City, Miller, Gabara e pochi altri si ritrovano per impostare la sfida legale che ieri avrebbe segnato una prima vittoria.
«Non abbiamo mai cercato di rovesciare l’esito del referendum né di impedire la Brexit», dice Gabara, presidente e proprietario di una società di comunicazione con clienti come i governi del Bangladesh e delle Mauritius o grandi gruppi, da Exxon Mobil a Telia Sonera. «Volevamo ristabilire il principio che nel Regno Unito il Parlamento è la sede della sovranità e non lo si può accantonare in un corto circuito fra un referendum consultivo e l’azione incontrastata del governo. Sarebbe stato uno stravolgimento della Costituzione formatasi in secoli di common law , quasi un colpo di Stato».
Rapidamente Miller, Gabara e una decina di altri, in buona parte soci di Mishcon de Reya, hanno formato un «comitato d’indirizzo» che avrebbe portato al duello di questo autunno nei tribunali. Lo studio legale fondato dallo scomparso Victor Mishcon, figlio di un rabbino polacco che aveva trovato la salvezza a Londra, presto avrebbe pagato per la sua scelta di esporsi: in luglio davanti alle sue finestre hanno iniziato a formarsi proteste e picchetti di fautori più radicali della Brexit. Da allora molti dei nomi dei registi del ricorso sono rimasti gelosamente custoditi nei computer dello studio. Per rappresentare Miller all’Alta Corte Mishcon de Reya ha ingaggiato Lord (David) Pannick, un «Queen’s Council», ossia uno degli avvocati da dibattimento più celebri della nazione. A Gabara tocca il compito di parlare a nome del gruppo e gestire la comunicazione di Miller. Quanto agli altri sostenitori della causa, si sa solo che fra di essi si trovano figure di punta del mondo degli affari e dell’industria. «Non solo soci di Mishcon de Reya — si limita a dire Gabara —. Ci sono anche clienti dello studio, come la stessa Miller. Non posso aggiungere altro per non dare adito a inesistenti teorie del complotto», aggiunge l’italiano. «Se tirassimo fuori i nomi, saremmo tacciati di essere l’élite di Londra che vuole rovesciare la volontà del popolo».
Questa cortina di segreto rischia di alimentare i sospetti dei fautori della Brexit. A Gabara preme sottolineare il coraggio della donna che ha messo il suo nome sulla battaglia legale: «Nel clima di aggressione seguito al referendum non si è mai tirata indietro». Fare di lei il volto della sfida nelle Corti è stata una decisione presa a fine luglio, dopo il primo dibattimento: allora divenne chiaro che sarebbe bastato avere un unico ricorrente ufficiale. Gabara però sa bene che la vittoria non è ancora assicurata. Da tempo la Corte Suprema aveva riservato il 7 e 8 dicembre per l’appello che sarebbe sicuramente seguito. Ma un primo segnale c’è già, nota l’italiano: «Abbiamo dimostrato che il Regno Unito resta la patria dello Stato di diritto. Non si possono privare milioni di britannici della possibilità di vivere gli anni della pensione in Spagna o di aprire un conto in Germania, senza prima ascoltare il Parlamento». L’Alta Corte in realtà non precisa se la Camera dei Comuni dovrà votare un mandato preciso al governo per i negoziati di secessione dalla Ue, oppure alla premier Theresa May basterà una rapida consultazione. In ogni caso il Parlamento non oserà esprimersi contro la Brexit. «Ma il referendum non ha mai decretato che dovrà esserci la rottura radicale che il governo persegue. Non ha mai dato mandato al premier di portare il Paese fuori dal mercato unico, danneggiando l’industria dell’auto, della farmaceutica e della finanza — nota Gabara —. Ora grazie a noi i moderati tornano in gioco».

Corriere 4.11.16
Il dilemma politico di Londra
di Sergio Romano

L’ uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea (un problema che il governo di Londra credeva di potere affrontare con i considerevoli poteri di cui gode tradizionalmente l’esecutivo del Regno Unito) è improvvisamente diventata una imbrogliata crisi politica e costituzionale. Con una sentenza emessa ieri, l’Alta Corte britannica non riconosce al governo di Sua Maestà il diritto di avviare il negoziato con la Commissione di Bruxelles senza avere prima consultato la Camera dei Comuni e forse anche quella dei Lord. I referendum britannici sono consultivi e la necessità di una verifica parlamentare sarebbe legalmente giustificata. Ma il Primo Ministro replica che la convocazione di un referendum e i suoi quesiti erano già stati approvati da un voto dei Comuni; non sarebbe necessario quindi interpellare nuovamente i membri del Parlamento. Ma l’Alta Corte sembra sostenere che non è possibile modificare i diritti acquisiti dai cittadini britannici nell’ambito della Ue senza un dibattito parlamentare. Vi sarà un ricorso del governo e leggeremo di qui a qualche tempo, verosimilmente, un’altra sentenza. Ma il dramma di cui saremo spettatori nelle prossime settimane non sarà soltanto la prosecuzione di una vicenda ormai nota: se la Gran Bretagna voglia restare nell’Ue o uscirne. Sarà anche un duello fra politica e giustizia.
Non sarà il primo nelle democrazie occidentali. Abbiamo assistito a parecchi interventi della Corte Suprema americana contro le iniziative del presidente degli Stati Uniti.
S appiamo che la elezione di George W. Bush alla Casa Bianca nel novembre del 2000 è stata decisa in Florida dall’ordinanza di un giudice della Corte Suprema che aveva una evidente simpatia per il partito repubblicano. Sappiamo che il Tribunale costituzionale di Karlsruhe può bloccare per qualche mese la ratifica di un trattato della Repubblica federale nell’ambito dell’Unione Europea. Sappiamo che la Corte costituzionale italiana può cancellare una legge elettorale. Ma il caso britannico è quello di un Paese che non ha una carta costituzionale ed è giustamente noto per avere sempre sottratto l’Esecutivo e il Legislativo a condizionamenti esterni. Forse l’errore del Primo Ministro David Cameron, quando credette di potere ammansire con un referendum la fazione euroscettica del suo partito, fu di avere somministrato una dose di democrazia diretta a un Paese in cui la democrazia è sempre stata rigorosamente indiretta.
Non sarà facile riparare il guasto provocato dall’imprudenza di Cameron. Se il governo di Theresa May non vincerà il ricorso, assisteremo a un dibattito parlamentare in cui verrà rimessa in discussione l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue. Secondo calcoli fatti prima del referendum, i partigiani del Remain (quelli che non volevano uscire dall’Unione) erano più numerosi di quelli che volevano uscirne. È possibile che i dubbi dei mercati finanziari sul futuro della City e alcune stime negative sulle esportazioni della Gran Bretagna verso il mercato unico abbiano rafforzato il primo gruppo. Ma non è escluso che molti parlamentari, se dovessero scegliere fra il primato della politica e quello dei giudici, sceglierebbero la politica. La Commissione di Bruxelles, per il momento, potrà soltanto aspettare. Quando verrà il momento dei negoziati, tuttavia, sarà bene evitare concessioni che permettano alla Gran Bretagna di restare nel mercato unico senza rispettare gli altri obblighi dei Trattati europei. Ciò che sta accadendo in queste ore conferma che sarà sempre un difficile compagno di viaggio.

Repubblica 4.11.16
Europa, una carta in più
L’Alta Corte restituisce al Parlamento di Londra un ruolo di controllo sui negoziati con Bruxelles
di Andrea Bonanni

L’ALTA corte britannica ha riportato il Parlamento di Westminster, il più antico del mondo, quello che ha inventato la moderna democrazia parlamentare, al centro dei destini del Paese. Ha restituito ai deputati britannici l’ultima parola sulla Brexit, decisa dagli elettori con un referendum consultivo. Anche così, difficilmente la sentenza dei giudici potrà cambiare il corso di questo destino ed evitare l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue. Ma potrebbe offrire ai negoziatori europei qualche carta in più per condizionare l’esito delle trattative sulla secessione britannica. E magari far sì che, quando la separazione sarà sancita, la Manica sia un po’ meno larga e gli inglesi un po’ meno distanti di quanto avrebbe voluto il loro governo.
I problemi giuridici, economici e politici posti dalla Brexit sono tali e tanti che certo l’Europa tirerebbe un sospiro di sollievo se le due Camere del Regno Unito revocassero la scelta degli elettori. In Gran Bretagna sono molti a sperare che ciò accada. Come scrive Tony Blair nell’articolo uscito ieri su Repubblica, «possiamo prendere una decisione e possiamo cambiare idea». In effetti la stragrande maggioranza dei deputati, 480 contro 150, prima del referendum si era schierata contro l’ipotesi di Brexit, in sintonia sia con il governo conservatore di Cameron sia con l’opposizione laburista. Dunque, in teoria, l’ipotesi che il Parlamento respinga il ricorso all’articolo 50 per uscire dall’Ue non è priva di fondamento.
Ma il referendum, vinto da Brexit con il 52 per cento dei suffragi, ha completamente cambiato il quadro della politica britannica. Secondo uno studio della University of East Anglia, oggi nel 61 per cento dei collegi uninominali che eleggono i deputati la maggioranza è favorevole a uscire dall’Ue, mentre questa percentuale, al momento della consultazione popolare, era appena al di sotto del 52 per cento. È difficile che un deputato britannico si esprima in Parlamento contro l’opinione predominante del suo collegio, soprattutto su una questione così cruciale che certamente gli costerebbe la rielezione.
Se mai le Camere dovessero negare al governo la possibilità di invocare l’articolo 50 per innescare il processo di uscita dalla Ue si aprirebbe un conflitto senza precedenti tra la volontà popolare e la classe politica dominante. E il risultato di un simile scontro sarebbe molto probabilmente la convocazione di nuove elezioni piuttosto che quella di un nuovo referendum. Con una inevitabile sconfitta per i conservatori, che si avvierebbero così verso un declino politico simile a quello già imboccato dai laburisti, e con un probabile trionfo dei populisti dello Ukip, il partito indipendentista di Nigel Farage, che oggi invece ha esaurito la propria funzione ed è manifestamente in crisi. Ma se verrà confermata, nonostante l’appello che sarà presentato dal governo, la sentenza dell’Alta corte potrebbe comunque cambiare il destino del Paese. Perché restituirà al Parlamento un ruolo di controllo e di guida sui negoziati che Londra aprirà con Bruxelles a primavera. Finora, nonostante le accuse rivolte all’Europa di essere poco democratica e poco trasparente, il nuovo governo pro-Brexit insediato a Downing Street non ha ancora spiegato ai suoi cittadini e ai suoi deputati dove vuole portare la Gran Bretagna. Nessuno sa se Theresa May e Boris Johnson vogliano tenere Londra in qualche modo ancorata all’Europa, partecipando al mercato interno e accettandone le regole anche in materia di libera circolazione delle persone. O se invece il progetto che ispirerà il negoziato sarà quello di una “hard Brexit”, una Brexit dura, che restituirebbe piena sovranità alla Gran Bretagna ma la metterebbe fuori dal più grande e più ricco mercato mondiale.
La premier, finora, si è tenuta tutte le carte in mano rivendicando, di fatto, piena libertà di azione. Certo, da un punto di vista negoziale, questa è l’opzione più conveniente. Ma da un punto di vista democratico, lascia non poco a desiderare. Come ha ricordato Tony Blair nel suo articolo, «non c’è motivo per rimanere in silenzio e accettare qualsiasi versione di Brexit che finiremo col negoziare... abbiamo approvato un cambio di casa senza aver visto quella nella quale si andrà ad abitare».
Se anche il Parlamento britannico non si suiciderà respingendo l’apertura dei negoziati di secessione, è dunque molto probabile che vorrà dire la sua e condizionare il governo sul modo in cui condurre le trattative e sull’obiettivo finale da perseguire. È ciò che Theresa May ha cercato di evitare presentando il governo come interprete diretto della volontà popolare e cortocircuitando le Camere. L’operazione non le è riuscita. Ora dovrà trattare non solo con i negoziatori europei, ma anche con i propri deputati. Ed è ragionevole pensare che questi, essendo stati in larga maggioranza contrari alla Brexit, favoriranno una soluzione più morbida e più filo-europea riducendo i margini di manovra di Downing Street. Contrariamente al suo modello Margareth Thatcher, Theresa May, la nuova aspirante Lady di ferro, ha già perso una battaglia cruciale senza aver ancora inizato la guerra.

Il Sole 4.11.16
Westminster o referendum
Una disputa sull’idea di democrazia
di Leonardo Maisano

Il penultimo giro di valzer della Brexit ci dispensa un imprevisto capace di allontanare nel tempo il distacco anglo-europeo, incenerendo mesi di chiacchiere, riducendo in coriandoli insieme con tanti immaginifici scenari del mondo che verrà anche la credibilità di Theresa May, la signora premier appena issata a Downing Street. E con la sua anche quella, assai meno significativa, dei tre moschettieri del divorzio da Bruxelles: il ministro degli esteri Boris Johnson; il responsabile del prossimo (si farà davvero?) negoziato anglo-europeo, David Davis; il dominus del nuovo ordine commerciale internazionale di cui (forse) Londra si doterà, Liam Fox.
In attesa di capire se la storia li assolverà per tanta millantata spavalderia avvolta nello slogan “Brexit significa Brexit”, da Londra torna a levarsi una rassicurante certezza: il Parlamento esiste. L’Alta Corte ha fatto accomodare un ospite che la logica ci suggeriva fosse indispensabile, ma che le voci più squillanti facevano credere fosse di troppo. La parola spetta, infatti, alla Camera dei Comuni, e per quanto di sua competenza a quella dei Lords, hanno detto i giudici, riposizionando il referendum entro i confini originari quelli, cioè, di un esercizio consultivo. La disputa che divide i costituzionalisti riguarda l’uso della cosiddetta “prerogativa reale” per dare al governo la forza di trasformare una consultazione popolare in un atto sufficiente per sancire lo strappo, storico, di Londra da Bruxelles e, ancor più impropriamente, per dettare le modalità e la tempistica della separazione. Non sarà così se la Corte Suprema, a cui Downing Street farà appello, confermerà in ultima istanza l’indirizzo espresso ieri dai giudici.
Inutile fare previsioni perché la triste storia delle relazioni fra Londra e Bruxelles è un cimitero di smentite. In attesa dell’ultimo giro di valzer che meneranno i giudici supremi, possiamo ragionare però sulle conseguenze di quanto sancito dal penultimo giro, ovvero dalla sentenza di ieri, ipotizzando che non sarà riformata.
Se la riaffermata centralità di Westminster è tornata ad essere una certezza nel processo decisionale britannico il cammino verso un chiarimento dei rapporto fra i due lati della Manica va nella direzione opposta. La Brexit si allontana abbiamo detto, rischiando di complicarsi nel conflitto fra esecutivo e parlamento. Downing Street insisterà per poter avviare l’articolo 50 del Trattato di Lisbona che sancisce il recesso entro il marzo prossimo, mentre il parlamento, popolato da deputati in netta maggioranza favorevoli all’adesione all’Ue, potrebbe resistere non invocando la procedura di separazione.
È poco credibile che Westminster sia davvero pronta a neutralizzare del tutto la volontà popolare, ma da ieri, in linea assolutamente teorica, non è impossibile. Resta da vedere quanto i deputati saranno pronti a sfidare i propri collegi o se, in quegli stessi collegi, si concretizzerà invece la “voglia di ripensamento” che i sondaggi dicono occhieggi qua e là. Se così dovesse essere, se davvero si incisterà un conflitto duro fra Governo e Parlamento, Londra scioglierà le Camere, nonostante i recenti vincoli introdotti sulla vita della legislatura, e andrà ad elezioni anticipate. I Tory non solo sono divisi sulla Brexit, ma si reggono su una maggioranza impalpabile ai Comuni e non possono sopportare eccessive tensioni. Una via, quella delle urne, che potrebbe davvero riaprire tutti i giochi, inducendo le forze politiche (i LibDem sono già pronti) a mettere nel proprio manifesto una nuova consultazione popolare.
Accadrà davvero? È possibile, abbiamo detto, ma l’evoluzione più probabile della scossa giudiziaria prodotta dall’Alta Corte suggerisce, per ora, uno sviluppo diverso. Il Parlamento chiederà poteri di veto e di controllo sul negoziato con Bruxelles, scongiurando, crediamo, quella hard Brexit che sembrava, paradossalmente, essere divenuta ipotesi privilegiata da Londra, neanche fosse stata, davvero, espressione della volontà popolare. Il referendum non sancisce affatto il “sì” alla cesura violenta delle relazioni anglo-europee e neppure detta l’approdo finale di questo straordinario pasticcio che David Cameron ha lasciato in eredità al suo Paese e al mondo intero. Un’interpretazione in tal senso è stata tuttavia accreditata dai brexiters e accettata – apparentemente – da Theresa May. Il verdetto di ieri non entra ovviamente nel merito delle opzioni politiche o negoziali, si limita – se così si può dire – a ridare a Cesare quel che è di Cesare, al Parlamento le sue competenze. Non è, sia chiaro, solo un nuovo twist della schizofrenica relazione anglo-europea, è molto di più. Un chiarimento procedurale che ridimensiona il peso del referendum, assegnando ai remainers tutte le armi per tentare l’ultima carica a tutela del rapporto con Bruxelles. Carica per la vittoria? Si accontenteranno, crediamo, di limitare i danni, anche se un giudice di Londra facendo saltare il banco ha annunciato al mondo che il Parlamento pesa più del referendum e la Brexit, per converso, non è destino certo.

Il Sole 4.11.16
L’Europa senza bussola
Troppi dossier senza governance
di Adriana Cerretelli

Prima il ruggito del topo ha rischiato di affondare il Ceta, l’accordo di libero scambio Ue-Canada: il faticoso dietrofront della Vallonia, micro-regione del Belgio da 3,5 milioni di abitanti, il ritiro delle sue riserve l’ha salvato sul filo di lana. Ma l’entrata in vigore definitiva non è priva di nuovi rischi: deve passare per ben 38 ratifiche nazionali e regionali.
Poi il barrito dell’elefante, con il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, all’attacco della Commissione europea per invocarne ad alta voce l’esproprio di competenze, questa volta sulle politiche macroeconomiche e di bilancio nazionali, da affidare all’Esm, il Fondo salva-Stati: istituzione troppo politica la prima, meglio la neutralità del secondo.
Nel mezzo la voce ancora afona di Mark Rutte, il premier olandese che, senza fragore, ha appena scampato l’ultimatum parlamentare del 1° novembre, ottenuto altre 6 settimane per trovare un accordo politico che non lo costringa a revocare la ratifica dell’accordo di associazione e libero scambio con l’Ucraina, provvisoriamente già in vigore dal gennaio scorso, perché così deciso dal risultato del referendum consultivo di aprile: solo il 32% degli aventi diritto ha votato ma il 61% di questi ha detto no.
E ancora sussurri e grida di varia potenza e pericolosità: l’Alta Corte britannica che chiama il parlamento a pronunciarsi su Brexit contro il no del governo May, aggiungendo nuove incertezze a una partita confusa e complicatissima. L’Italia di Matteo Renzi che non ci sta a quelle che, a suo dire, sono le regole inique di un’Unione che prende molto e restituisce troppo poco, applica l’eurodisciplina a soggetto, secondo il tipo di stabilità, economica o migratoria, in gioco.
La Polonia di Jaroslaw Kaczynski che respinge al mittente le reprimende europee sulla sua gestione dello Stato di diritto. I 4 di Visegrad (Polonia, Ungheria, Cechia e Slovacchia) che non solo pretendono la solidarietà flessibile nella ripartizione dei migranti ma teorizzano la contro-rivoluzione per una nuova Europa di Stati sovrani e indipendenti.
Tante storie diverse, apparentemente lontane tra loro, ma molto più vicine di quanto non si creda. Tutte il riflesso del mal sottile che sta lentamente consumando l’Europa del dopoguerra, che continua a perdere consensi popolari perché spesso la si scambia con le vere o presunte malefatte della globalizzazione. Ormai ogni scusa è buona per metterla in croce: Brexit insegna. Ma mentre in passato la si accusava strumentalmente in difesa degli interessi nazionali senza mai rimetterla in discussione, oggi lo si fa per disfarla a poco a poco: demonizzazione fa rima con l’ansia di demolizione.
Naturalmente c’entrano appuntamenti e tempeste elettorali alle viste, le ambizioni politiche dei singoli come il disagio di democrazie e di società provate da recessione e ripresa stanca, da insicurezze diffuse e accresciuti divari sociali, dalle paure no-global facilmente clonate in rigetto no-Europe. Che dilaga anche a Nord, nel suo pianeta più affluente.
C’è un filo sottile che lega i killeraggi di Ceta e Trattato con l’Ucraina, i diffusi assalti governativi alla diligenza europea e l’attacco frontale di Schauble alla Commissione Ue: è la sfiducia reciproca a tutti i livelli, il solo patrimonio di cui l’Europa di oggi abbonda.
«Se i ministri delle Finanze non rispettano le regole che si sono dati, da dove potrà venire la fiducia nella nostra moneta?», chiede Schauble citando il presidente della Bce Mario Draghi. Il suo non è un soprassalto ideologico ma l’interrogativo che nasce dalla crescente angoscia del vivere insieme senza più intendersi se non per denominatori comuni sempre più minimi. In dissolvenza.
Quando i valloni temono le prepotenze delle multinazionali ai danni dei Governi e gli olandesi esigono garanzie che l’Ucraina non sarà integrata nell’Ue, non avrà protezione militare europea, né finanziamenti extra e nemmeno libera circolazione dei lavoratori rovesciano sul tavolo comune lo zibaldone di paure più o meno giustificate e razionali, non il disegno di un’Europa più giusta e benevola. Del resto minare la sua credibilità internazionale come partner, commerciale e non, paradossalmente non aiuta a fugare quelle paure ma a moltiplicarle nel tempo, mettendo a repentaglio la crescita economica e la sicurezza su una frontiera esterna e dir poco tellurica, a ridosso della Russia di Putin.
Quando Berlino destruttura le istituzioni Ue puntando quasi tutto sul metodo intergovernativo che marginalizza Bruxelles, crea un vuoto di poteri e di mediazione politica che accresce e non attenua l’attuale incertezza.
Travagli difficili ma inevitabili nell’Europa in transizione verso un ordine nuovo, ancora tutto da inventare? C’è da sperarlo. Perché l’alternativa sarebbe ben peggiore dei mali che si vorrebbero curare: senza Unione la globalizzazione diventerebbe uno schiacciasassi senza freni.

Il Sole 4.11.16
Da Londra a Roma, il duello tra i partiti sul ruolo del Parlamento e del popolo
di Lina Palmerini

Forse le due vicende non sono confrontabili, di certo Londra non è Roma, ma quello che è accaduto ieri su Brexit con la decisione dei giudici della Corte suprema di dare la parola finale al Parlamento racconta un pezzo di storia che stiamo vivendo anche noi. E che riguarda il ruolo delle Camere su cui si confrontano due culture e due posizioni molto diverse. In fondo è di questo che si discute quando ci si divide sull’Italicum: c’è chi vuole dare più spazio alla volontà popolare sulla scelta dei Governi e chi invece vuole restare nel perimetro attuale in cui le maggioranze si formano in Parlamento. Ed è sempre questo il tema quando i 5 Stelle invocano una partecipazione diretta dei cittadini alle istituzioni. In entrambi i casi si arriva alla domanda su cosa, allora, deve diventare il Parlamento. E se la strada delle consultazioni popolari, ormai sempre più frequenti per la pressione delle opinioni pubbliche e per la debolezza della politica, possa diventare nei prossimi anni un metodo di gestione della democrazia.
In Gran Bretagna l’Esecutivo May riteneva sufficiente il referendum popolare per avviare Brexit, per i giudici invece è necessario che siano le Camere a esprimersi nel merito ma anche sui tempi e sulle modalità. «La regola fondante del nostro ordinamento è la centralità del Parlamento», hanno scritto i giudici inglesi. E il dilemma che questa decisione ha aperto a Londra rimbalza su Roma dove già da tempo si discute sulla funzione del Parlamento e se questa debba ridursi a vantaggio della sovranità popolare. Con tutte le conseguenze che ne derivano come quella di ripensare un sistema che poggia sulla rappresentanza parlamentare.
In fin dei conti è questo l’anello debole che fa traballare l’attuale assetto: il “declino” della rappresentatività. Che c’è nelle sue varie declinazioni – in politica ma anche in tutti i corpi intermedi – e che è diventata la breccia attraverso cui si stanno mettendo in discussione le Camere. La lotta alla casta e ai suoi privilegi, i costi della politica, le inchieste sulla corruzione hanno dato il colpo finale a una crisi che nasce da lontano in cui l’elettore non “riconosce” più chi elegge. La certificazione di questa distanza è arrivata con le liste bloccate – c’erano nel Porcellum e restano in parte con l’Italicum – in cui sono i vertici di partito a decidere i nomi, sciogliendo di fatto quel legame su cui si fonda la rappresentanza.
A questa crisi come si sta rispondendo? Sostanzialmente con la lotta a chi taglia di più i costi della politica. I 5 Stelle propongono il taglio delle indennità parlamentari, il Pd di Renzi risponde con i risparmi derivanti dalla riforma costituzionale. Una specie di guerra sui prezzi, una gara al ribasso, per tentare di risalire la china della delegittimazione. L’altra via per risalirla è, appunto, quella di togliere peso all’istituzione parlamentare a vantaggio della sovranità popolare. Ma questa via apre scenari che poi la stessa politica fa fatica a gestire. Fu lampante con il primo referendum controverso della storia europea, quello su Grexit. Oggi c’è Brexit. In Italia si discute se dare o no più voce in capitolo agli elettori sulla scelta del Governo. Finora, però, con un paradosso: per chi ha cercato la “voce” del popolo, la strada invece di semplificarsi si è complicata.

Corriere 4.11.16I sentieri possibili per una vittoria di Donald
di Massimo Gaggi

NEW YORK Come una squadra di calcio che, in vantaggio 3 a 1 nel finale, prova ad addormentare la partita, Hillary Clinton conduce da giorni una campagna sulla difensiva, cercando di amministrare il vantaggio conquistato nei tre dibattiti in tv. La riapertura dell’indagine Fbi sull’«emailgate» e le nuove rivelazioni di WikiLeaks su come la Fondazione Clinton mescolava filantropia e affari, hanno, però, minato il calcolo degli strateghi democratici.
Giorno dopo giorno, il vantaggio della ex «First Lady» è stato eroso. Nei sondaggi più recenti c’è di tutto: quelli, la maggioranza, che danno la Clinton ancora in vantaggio e qualcuno che, invece, pronostica la vittoria di Trump. I sondaggi nazionali, si sa, hanno un significato relativo visto che, in una corsa che si decide sui voti elettorali espressi localmente per arrivare alla soglia cruciale dei 270 «grandi elettori», tutto dipende da quello che succederà in una manciata di Stati in bilico.
La mappa di questa pagina mostra chiaramente che i sentieri che possono condurre Trump a conquistare la Casa Bianca esistono e ce n’è più d’uno, ma sono stretti e impervi. Per farcela l’immobiliarista dovrebbe — in una delle ipotesi — conquistare, oltre a tutti gli Stati vinti da Romney nel 2012, anche Florida, Ohio, Iowa, Colorado e New Hampshire. Possibile? La sensazione è che le rivelazioni e i casi scoppiati nei giorni scorsi non bastino. Analisti e scommettitori si sono fatti più prudenti, le Borse sono preoccupate, ma la maggioranza degli elettori un’idea precisa se l’è fatta da tempo. E molti di loro, un quinto del totale, hanno già votato con gli «absentee ballot».
Un margine di dubbio, certo, rimane e non solo perché viviamo in tempi di elettorati rabbiosi sedotti dalle istanze antisistema e di candidati, come Trump, capaci di condurre una campagna elettorale non tradizionale: i colpi di scena potrebbero non essersi esauriti con l’«October Surprise» riservata dai federali alla Clinton. Il loro capo, Comey, è stato crocifisso dai democratici, ma in realtà sembra sia in corso uno scontro anche dentro l’Fbi con alcuni agenti, forse politicamente motivati, che fanno uscire indiscrezioni e accuse anonime — da presunte prove di corruzione nella Clinton Foundation a cinque servizi segreti stranieri che avrebbero messo le mani sulle email che la Clinton ha lasciato uscire dal Dipartimento di Stato — tutte prontamente rilanciate da Bret Baier, un «anchor» della Fox. Nei 4 giorni che restano prima del voto c’è ancora tempo per una «November Surprise» .

Repubblica 4.11.16
The Donald ha sfidato la Storia per conquistare l’America razzista
Il repubblicano ha fatto rivivere divisioni etniche e religiose a lungo latenti nel Paese
Insultando messicani e musulmani, ha rilanciato l’interpretazione più restrittiva dell’identità Usa
Alla base di molte sue idee c’è la negazione del ruolo che le minoranze hanno avuto negli Stati Uniti
Se vincesse, tutta la nazione sarebbe sconfitta
di Evan Cornog

La campagna presidenziale di quest’anno è insolita sotto molti aspetti, ma è tipico della tradizione americana che le divisioni razziali, etniche e religiose abbiano un ruolo importante nella vita pubblica. Donald Trump ha inaugurato la sua campagna bollando gli immigrati messicani come sfruttatori, narcotrafficanti e quant’altro, invocando poi il blocco totale dell’immigrazione musulmana, ha definito i quartieri urbani degradati inferni di violenza e fatto suo lo slogan nixoniano “law and order” (legge e ordine), in contrasto con le critiche mosse alla polizia per la recente epidemia di violenze ai danni di giovani afroamericani. Gli storici da tempo evidenziano l’ironia insita nel fatto che questa nazione di immigrati ha così spesso interpretato in senso restrittivo l’identità americana, cercando di limitare l’immigrazione di chi giudicava incompatibile con le istituzioni o i principi degli Stati Uniti.
Per la massima parte del diciannovesimo secolo, il grande male agli occhi dei nativisti fu l’arrivo dei cattolici dall’Irlanda. Molti dei primi coloni di Stati come il Massachusetts appartenevano ovviamente a sette protestanti che consideravano il Papa e i suoi cardinali forze oppressive a livello mondiale o provenivano da nazioni che avevano sofferto per mano degli eserciti o delle flotte delle potenze cattoliche.
Il metro dell’intensità e della natura dell’odio dei nativisti per il cattolicesimo è dato dal testo dell’opera di propaganda anti-cattolica più sensazionale del secolo, “Le terribili rivelazioni di Maria Monk”. Pubblicato nel 1836, questo scritto fasullo si spacciava come denuncia della licenziosità e della generale depravazione dei preti e delle suore in un convento con adiacente seminario a Montreal, in Canada. I lettori potevano indulgere in fantasie erotiche e contemporaneamente trovare conferma ai loro pregiudizi religiosi: per cui il libro divenne un bestseller, probabilmente l’opera letteraria contemporanea più venduta negli Stati Uniti prima de “La capanna dello zio Tom”.
Dopo la Guerra Civile una nuova immigrazione proveniente da un Paese avulso da qualsiasi versione del cristianesimo comportò una nuova drastica forma di restrizione all’immigrazione. Il Chinese Exclusion Act del 1882 escludeva i “lavoratori” cinesi, una categoria talmente vaga da comprendere in pratica chiunque, eccetto i diplomatici. (Questa restrizione rimase in vigore sotto varie forme fino al 1943.) Una delle motivazioni era che il peculiare aspetto fisico dei cinesi non ne avrebbe permesso l’integrazione nella società americana e quindi era opportuno escluderli a priori.
Nello stesso periodo in cui gli immigrati cinesi assumevano la valenza di problema politico negli Stati americani dell’Ovest, la crescita dell’immigrazione di cattolici dall’Italia e di ebrei dall’Europa orientale parve incarnare una nuova “minaccia” agli occhi di chi era convinto che gli unici cittadini desiderabili della repubblica fossero bianchi e protestanti.
Verso la fine del ventesimo secolo il timore dei movimenti politici radicali in Europa attizzò il nativismo americano, al pari dell’esperienza della Prima guerra mondiale. Questi elementi, stratificati sui pregiudizi anticattolici e antisemiti incoraggiarono una legge fortemente restrittiva sull’immigrazione, l’Immigration Act del 1924, che stabiliva quote mirate a ridurre drasticamente l’immigrazione complessiva e in particolare a tagliare il numero dei cattolici e degli ebrei in arrivo.
Nel 1924, il partito democratico, nelle sue due componenti, l’ala protestante del sud e quella delle grandi città del nord (che puntava sui voti degli immigrati), arrivò alla convention di New York diviso tra due canditati, William McAdoo, ex ministro del Tesoro, sostenuto dai nativisti, e Alfred Smith, governatore cattolico dello Stato di New York. Sull’immigrazione il partito si spaccò, tanto che la convention durò tre settimane e dopo 103 votazioni si arrivò a un compromesso candidando John W. Davis, poi stracciato dal presidente in carica, il repubblicano Calvin Coolidge. Quando, quattro anni dopo, fu Al Smith a correre, venne a sua volta sconfitto duramente dal portabandiera repubblicano Herbert Hoover.
Ovviamente nella storia della nazione a soffrire maggiormente della privazione dei diritti civili sono stati gli elettori afro-americani, che dopo l’emancipazione godettero del potere politico per un breve periodo nel Sud all’epoca della “ricostruzione” successiva alla Guerra civile, ma vennero privati del diritto di voto al termine della stessa, nel 1877. Solo con l’entrata in vigore della legge per limitare le discriminazioni elettorali, il Voting Rights Act del 1965, nel Sud riacquistarono potere politico: tuttora i tribunali federali sono chiamati a contrastare tentativi di sopprimere il diritto di voto dei neri.
L’anticattolicesimo che “Maria Monk” aveva contribuito a diffondere e di cui Al Smith era stato vittima aveva ancora un peso nel 1960, quando fu candidato alla presidenza un altro cattolico democratico, John Kennedy, tanto che in campagna elettorale Kennedy tenne un discorso a una platea di ministri protestanti in Texas, andando direttamente al punto: «Se l’esito di questa elezione dipende dal fatto che 40 milioni di americani hanno perso l’opportunità di diventare presidente il giorno in cui sono stati battezzati sarà tutta la nazione a essere sconfitta agli occhi dei cattolici e non cattolici di tutto il mondo, agli occhi della Storia, e agli occhi della nostra gente».
Le riforme degli anni Sessanta non riguardarono solo i diritti civili e elettorali, ma anche l’immigrazione. All’epoca, quasi in sordina, la legge sull’immigrazione e la nazionalità (Immigration and Nationality Act) del 1965 aprì le porte dell’America all’immigrazione regolare in misura senza precedenti da decenni. Per chi ancora vede l’”americano” come un bianco protestante il recente flusso di immigrati mina la supposta identità della nazione. E la minaccia terroristica offre lo scudo adatto ai dogma nativisti.
Quest’anno Donald Trump dà voce al nativismo al massimo livello politico dell’era post-bellica. Oggi è l’Islam, non il cattolicesimo, la religione condannata e gli immigrati latini e i neri americani sono il grande “problema”. Il partito repubblicano ha assunto per lo più una posizione scomoda a riguardo, in bilico tra l’ovvia necessità di conquistarsi voti che oggi non ha (quelli di molti latini) e il timore di perdere il sostegno degli elettori nativisti pro-Trump.
Va ricordato che 15 anni fa, dopo gli attacchi dell’11 settembre, il presidente George W. Bush tracciò una distinzione inequivocabile tra i terroristi di Al Qaeda e i musulmani in generale. A meno di una settimana agli attacchi, tenne un discorso al Centro islamico di Washington. Queste le sue parole: «Il volto del terrore non è la vera fede islamica. Non è l’essenza dell’Islam. L’Islam è pace. Questi terroristi non rappresentano la pace. Rappresentano il male e la guerra». L’America conta milioni di musulmani tra i suoi cittadini e apportano un contributo prezioso al nostro paese. Sono medici, avvocati, docenti di giurisprudenza, membri delle forze armate, imprenditori, negozianti, mamme e papà. E devono essere trattati con rispetto. Nella nostra rabbia ed emozione i nostri connazionali devono trattarsi con rispetto reciproco.
Se è vero che il nativismo e il razzismo hanno sempre fatto parte della politica americana è anche vero che è sempre esistito un altro elemento, fatto di tolleranza e inclusione. Gli ideali della Statua della libertà non sono sempre sostenuti appieno, ma restano ampiamente condivisi. In uno spot pubblicitario a favore della candidatura di Hillary Clinton appaiono i familiari di Humayun Khan, capitano dell’esercito americano, morto per salvare il suo reparto da un attentatore suicida in Iraq nel 2004. Al termine del filmato il padre del capitano, con gli occhi pieni di lacrime chiede «Signor Trump, ci sarebbe posto per mio figlio nella sua America? ». Forse questa elezione risponderà al quesito se nella nostra America c’è spazio per il capitano Khan. Se la risposta è no, allora, mutuando le parole di Kennedy, «sarà tutta la nazione a essere sconfitta ».
(Traduzione di Emilia Benghi)

La Stampa 4.11.16
La Fondazione Clinton finisce nella morsa dell’Fbi
Dopo il mailgate l’inchiesta sugli affari di famiglia. Tensioni tra i federali
di Paolo Mastrolilli

La morsa dell’Fbi si stringe intorno a Clinton, allargandosi dall’inchiesta sulle mail private a quella sui favori ottenuti per la Fondazione di famiglia. Questo però sta provocando fortissime tensioni all’interno del Federal Bureau of Investigation, e col dipartimento alla Giustizia, che rischiano di compromettere a lungo l’azione del governo. È molto improbabile, poi, che gli investigatori abbiano risposte definitive prima del voto, e ciò apre la porta a due scenari entrambi pericolosi: la sconfitta di Hillary aiutata dall’inchiesta dell’Fbi, costretta poi ad ammettere che non aveva violato alcuna legge; la vittoria di Hillary, seguita da una incriminazione che provocherebbe una crisi costituzionale senza precedenti.
Il «Wall Street Journal» ieri ha rivelato che l’inchiesta sulla Fondazione Clinton era cominciata nell’estate del 2015, sulla base del libro «Clinton Cash», in cui un ex scrittore dei discorsi di George Bush denunciava i favori concessi da Hillary quando era segretario di Stato a privati, aziende e governi che aiutavano la fondazione di Bill.
In questo contesto, i servizi segreti di cinque Paesi avrebbero letto le mail della Clinton. Alcune intercettazioni segrete legate ad altri casi di corruzione avevano confermato i sospetti, ma il ministero della Giustizia aveva fatto pressioni per fermare le indagini, scontrandosi con il vice capo dell’Fbi Andrew McCabe, che poi però aveva frenato i suoi agenti. La moglie di McCabe, Jill, si era candidata al Senato in Virginia e aveva ricevuto fondi da Terry McAuliffe, amico storico dei Clinton. Fonti vicine all’agenzia dicono che il vero problema tecnico è la difficoltà di provare i reati: serve un quid pro quo evidente, e un chiaro passaggio di soldi in cambio di favori, per ottenere una condanna in tribunale. Altrimenti, in un caso di così alto profilo, il Bureau rischia di distruggere la sua reputazione.
L’inchiesta sulle mail private trovate negli apparecchi di Huma Abedin è invece cominciata all’inizio di ottobre, e il direttore Comey lo sapeva. Prima di annunciarla però aveva bisogno dei metadata, che servivano a capire quante di queste mail erano transitate dal server privato di Hillary all’account della consigliera Huma. L’Fbi ne ha trovate abbastanza per chiedere al dipartimento di Giustizia il mandato per leggerle, ma è molto improbabile che arrivi ad una conclusione in grado di scagionare Clinton prima del voto, perché ciò richiede di esaminare tutti i messaggi. Al contrario, uno solo di essi basterebbe a dimostrare l’esistenza di un reato, e un agente motivato a distruggere la candidatura di Hillary potrebbe farlo uscire come leak. Questo riporta alla mente scenari di interferenze tipo quelle dell’Fbi di Edgar Hoover tra gli Anni Trenta e Settanta, o anche a «Gola Profonda» Mark Felt, il vice capo dell’agenzia che aiutò Bob Woodward a smascherare il Watergate.
Fonti vicine agli investigatori smentiscono che ci siano state dimissioni di massa per spingere il direttore Comey a riaprire l’inchiesta, ma le tensioni interne esistono, al punto che gli agenti sono stati richiami al silenzio. Il rischio più grave è la destabilizzazione che può seguire a questa bufera. Per l’Fbi sarebbe devastante aver influenzato le elezioni, determinando la vittoria di Trump, per poi ammettere che non esistevano reati. Altrettanto grave, però, sarebbe l’incriminazione di un presidente eletto o già in carica, che provocherebbe una crisi costituzionale senza precedenti. Davanti a prove inoppugnabili di reati, la soluzione meno traumatica diventerebbe convincere Hillary a dimettersi, ma i Clinton non sono abituati ad arrendersi.

Corriere 4.11.16
Il segretario Nato Stoltenberg
«La Russia vorrebbe spartire l’Europa tra grandi potenze»
intervista di Maurizio Caprara

BRUXELLES «Se occorre aiutare un alleato sotto attacco cibernetico abbiamo duecento persone pronte a partire», fa notare Jens Stoltenberg, l’ex primo ministro norvegese che è segretario generale della Nato. Lo dice durante un’intervista al Corriere mentre si parla dei nuovi tipi di minacce che possono turbare parti di un mondo ancora alla ricerca di nuovi equilibri dopo la fine della divisione della Terra in due blocchi, uno filoamericano e uno filosovietico.
«Niente discussioni classificate in questa zona», avvisa il personale della Nato un cartello ben prima di arrivare all’ufficio di Stoltenberg. Nel quartier generale dell’Alleanza atlantica a Bruxelles schermi azzurri ricordano che all’interno il grado di allerta è al livello «Bravo», a fianco c’è chi prende il caffè al bar come in tante grandi aziende, un manifesto pubblicizza il salone di bellezza «Nato Beauty». La serie di immagini è emblematica della vicinanza tra fattori di inquietudine e rilassatezza che percorrono le nostre società.
La Russia oggi ha un ruolo di rilievo in Siria e la sua aspirazione è non essere disturbata nei dintorni di casa. Malgrado i massacri ad Aleppo siano orribili e Mosca abbia difficoltà economiche, crede sia possibile negare che adesso la Russia sia più importante di cinque anni fa per la sicurezza o l’insicurezza del mondo?
«Quello che vediamo — risponde Stoltenberg — è una Russia che in molti anni ha rafforzato le sue capacità militari. Esercita di più le sue forze, anche nucleari, e ha mostrato volontà di impiegare la forza contro vicini: in Georgia, in Crimea. In Siria appoggia il regime di Bashar el Assad e bombarda indiscriminatamente. Tutto ciò per me non è un segno di importanza».
Perché?
«L’importanza non equivale alla volontà di usare la forza. Un Paese può essere importante senza impiegarla, ma il modello visibile è una Russia che prova a stabilire sfere di influenza basate su un vecchio modo di intendere come dovrebbe essere l’Europa, su un’idea di grandi potenze che se le spartiscono. Non è l’Europa per la quale stiamo lavorando».
La Russia ha dislocato verso Paesi della Nato sistemi missilistici adatti per testate nucleari. Qual è a suo avviso la linea rossa che non andrebbe varcata tra politica realistica, realpolitik, il dialogo con Mosca, e la codardia, ossia accettare qualunque cosa faccia?
«Il compito fondamentale della Nato è difendere tutti gli alleati da ogni minaccia, sia che vengano da Sud o con una Russia più assertiva all’Est. E noi abbiamo mandato un messaggio chiaro di deterrenza: noi siamo lì per difendere tutti gli alleati e un attacco contro un alleato farebbe scattare una risposta di tutti gli alleati».
Da dove potrebbe venire un attacco cibernetico diretto contro l’Italia?
«Non mi dedicherò a speculazioni su chi può essere responsabile di attacchi ibridi a un nostro alleato, l’Italia, ma posso dire che abbiamo osservato tanti tipi diversi di attacchi ibridi contro molti alleati. Ed è il motivo per cui stiamo lavorando per rafforzare le difese cibernetiche. Se occorre aiutare un alleato sotto attacco cibernetico, alla Nato abbiamo duecento persone pronte a partire».
Quando lei parla di Russia sembra di ascoltare una lingua diversa da quella di altre personalità di governo europee italiane e mediterranee. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi, il 21 ottobre, ha ottenuto che fosse eliminato un riferimento alle sanzioni contro la Russia da un documento in preparazione con i suoi colleghi europei. Lei sente di avere con sé tutti gli alleati?
«Nel vertice di Varsavia siamo stati tutti d’accordo sulle politiche verso la Russia: difesa, ma anche dialogo. Quando incontro Matteo Renzi sento che abbiamo lo stesso approccio, sia sull’importanza di essere determinati e uniti tra alleati per la difesa collettiva sia mentre si agisce per relazioni più costruttive e cooperative con la Russia».
Quale sarà la prima cosa che dirà al prossimo presidente degli Stati Uniti?
«Che l’Europa ha cominciato a investire di più nella nostra difesa collettiva. Il 2015 è stato il primo anno nel quale abbiamo visto una crescita nella spesa per la difesa tra i nostri alleati europei Lo dirò perché è un’espressione di solidarietà della Nato, un segno che gli alleati europei investono nella loro sicurezza e stanno contribuendo a una suddivisione più equa degli oneri dentro l’Alleanza».
Suona come una risposta a Donald Trump, particolare candidato repubblicano, favorevole ad aiutare gli europei in caso di attacco russo soltanto «se adempiono agli obblighi che hanno verso di noi», ossia gli Stati Uniti.
«Non sarò parte nella campagna elettorale americana, però posso affermare che cosa è importante per la Nato: che le garanzie di sicurezza della Nato sono incondizionate, non assoggettabili a condizioni. Noi proteggiamo tutti gli alleati contro qualunque minaccia, fondandoci sui principi dei tre moschettieri: “Uno per tutti e tutti per uno”. Perché questo dà deterrenza».

La Stampa 4.11.16
Il Giappone corteggiato da Putin
di Bill Emmott

Può un uomo che ha espresso il proprio nazionalismo occupando dei territori, in Ucraina e in Georgia, mettere a segno il suo prossimo colpo strategico cedendo dei territori, in Giappone? Quando, a dicembre, il presidente Vladimir Putin visiterà Tokyo, la domanda comincerà ad avere una risposta. Sia il cancelliere Angela Merkel sia il neoeletto presidente degli Stati Uniti seguiranno l’incontro non solo con interesse, ma anche con sospetto.
Agli occhi del primo ministro giapponese, Shinzo Abe, questa potrebbe essere una occasione tanto storica quanto strategica. Fin dal 1945, l’annessione da parte dell’Unione Sovietica, negli ultimi giorni della guerra, di quattro isole giapponesi della catena delle Curili, appena al largo della costa dell’isola settentrionale di Hokkaido, rappresenta un punto dolente. Eppure, con la Cina che in Asia suscita infinite preoccupazioni al Giappone, è altamente allettante l’occasione di controbilanciare i cinesi grazie a un rapporto più stretto con la Russia.
Così a Tokyo si rincorrono le speculazioni sul possibile accordo che potrebbe essere sul tavolo a dicembre: un aumento di investimenti giapponesi nel settore dell’energia e delle infrastrutture nell’ Estremo Oriente russo in cambio della restituzione di almeno due delle quattro isole. La domanda per il cancelliere Merkel e per il nuovo presidente degli Stati Uniti, tuttavia, sarà quanto questo inciderebbe sul coinvolgimento giapponese nelle sanzioni occidentali imposte alla Russia per le sue azioni in Ucraina.
Non fosse per le sanzioni, gli americani e i tedeschi accoglierebbero bene, o almeno tollererebbero, un riavvicinamento giapponese alla Russia. Ma qualsiasi violazione o indebolimento delle sanzioni da parte del Giappone sarebbe considerato un prezzo troppo alto da pagare.
L’atteggiamento dei funzionari e degli uomini d’affari giapponesi verso la Russia è più o meno lo stesso che nella loro percezione gli europei hanno nei confronti della Cina. Proprio come gli europei vedono la Cina principalmente come un’opportunità economica e non la temono come una minaccia militare, così i giapponesi vedono la Russia. A loro, l’ offensiva della Russia in Ucraina e in Siria sembra lontana e ininfluente.
La dipendenza del Giappone dal nucleare per il 30% della sua produzione di energia elettrica significa che il paese ha bisogno di nuove fonti di rifornimento. L’incidente nucleare di Fukushima Daichi nel 2011 implica che solo alcune delle centrali nucleari del paese saranno rimesse in funzione, e probabilmente non ne saranno costruite di nuove. Il gas naturale liquido messo a disposizione dalla Russia è un’alternativa interessante.
Le imprese giapponesi da tempo investono in progetti per l’estrazione di gas sull’isola di Sakhalin, a nord delle Curili, ma ciò che è in discussione oggi è su una scala molto più ampia. La Russia, con la sua economia malmessa per via dei bassi prezzi del petrolio e del gas, ha urgente bisogno della spinta propulsiva che un aumento degli investimenti giapponesi potrebbe portare.
Le isole Curili non sono importanti per le loro risorse o in termini strategici. Sono giusto una zona di pesca, in particolare di granchi. Ma in Giappone hanno un valore simbolico ed emozionale.
Molti ministri hanno viaggiato fino a Hokkaido per guardare con il binocolo queste isole perdute impegnandosi a riportarle alla patria. Al signor Abe, rientrarne in possesso, almeno di alcune di esse, non servirebbe solo alla sua agenda politica nazionalista; sarebbe anche un incentivo in un momento in cui la Cina sta sfidando la sovranità del Giappone sulle isole del Mar Cinese orientale.
Così ci sono di certo le premesse per un accordo. Eppure ci sono tre grandi ostacoli, uno per il signor Putin e due per il signor Abe.
Per Putin, l’ostacolo è il suo programma nazionalista. Ha trascorso un decennio e mezzo a ricostruire ciò che considera il naturale dominio russo, prendendosi o controllando i territori intorno ai suoi confini, tra cui la Crimea in Ucraina e la provincia georgiana separatista deell’Ossezia del Sud. Quindi, per rinunciare alle isole in favore del Giappone avrebbe bisogno di una giustificazione chiara e significativa in termini di vantaggi strategici che Russia guadagnerà in cambio.
Potrebbe tornare utile a Putin dire che sta cercando di perfezionare un accordo che fu discusso per la prima volta nel 1956, quando prese piede l’idea di restituire le due isole minori e di ipotizzare uno sviluppo congiunto delle due più grandi come mezzo per siglare la pace tra il Giappone e l’Unione Sovietica. Quel piano fallì, ma è se non altro un precedente. Anche così, Putin rischierebbe molto.
Per Abe, il primo problema sono i finanziamenti. I gruppi di affari che discutono di energia e altri investimenti infrastrutturali in Russia chiedono garanzie finanziarie. Il problema è che per via delle sanzioni europee e americane, le banche internazionali non saranno in grado di offrire tali finanziamenti, per non dire delle garanzie. Quindi l’unica opzione è la Banca del Giappone per la cooperazione internazionale, o JBIC, di proprietà statale. Ma un tale impegno a lungo termine sarebbe un peso enorme.
Il secondo problema è rappresentato dalle sanzioni stesse. Il vero premio per Putin, oltre l’investimento, sarebbe quello di dividiere l’alleanza occidentale sul tema delle sanzioni. E sicuramente farà molta pressione sul Giappone in questo senso.
E quindi il signor Abe dovrà decidere quanto è disposto a infastidire le due donne più potenti del mondo: la signora Merkel e, supponendo che sia lei a essere eletta, Hillary Clinton. Farlo solo per qualche isola dove si pescano i granchi, per quanto simbolica possa essere, richiede nervi saldi.
traduzione di Carla Reschia

Corriere e The Japan Times 4.11.16
Il Giappone che vota sì alle armi nucleari

E già si parla di ipocrisia. Quella mostrata dal Giappone che ha votato contro la risoluzione Onu per arrivare a vietare le armi nucleari. Lo denuncia un editoriale del Japan Times , diretto da Takashi Kitazume . Sei potenze nucleari si sono espresse contro: come era previsto. Meno che la Corea del Nord votasse a favore. Ma il Giappone? Il Paese che più ha pagato sulla propria pelle la catastrofe atomica si è poi giustificato dicendo che sulla vicenda è necessario un approccio graduale.

il manifesto 4.11.16
Il Giappone dissidente
Maboroshi. Uno studio sul paese partendo dal volume dello studioso William Andrews dal titolo «Dissenting Japan A History of Japanese Radicalism and Counterculture, from 1945 to Fukushima»
di Matteo Boscarol

In uno dei suoi lungometraggi la filmmaker, studiosa e femminista vietnamita Trinh Minh-ha scrive «non appena si mostra un paese e si parla di una cultura in qualsivoglia modo, si entra nella finzione benché si aspiri all’invisibilità». Ogni volta che si tenta di descrivere un paese e le sue culture cioè, anche quando animati da buone intenzioni, si finisce quasi inevitabilmente per finire nel costruito quando non nell’apodittico, un discorso che è ancor più valido per territori che sono geograficamente isolati come l’arcipelago giapponese ad esempio. Quando si tentano di descrivere alcune tendenze nipponiche recenti, se ne criticano certi aspetti o dall’altro lato dello spettro se ne esaltano altri, ci si scontra quasi sempre con un vespaio di critiche e una generale alzata di scudi.
Questo perché esiste una narrazione dominante che vuole descrivere il popolo giapponese come omogeneo e docile, una narrazione tossica frutto di un’immagine prestabilita cristallizzata negli ultimi secoli e che caratterizza il Giappone come Altro rispetto all’Occidente, ma anche Altro rispetto all’Oriente dove è situato geograficamente ma a cui sembra non appartenere.
Ad aggravare questa situazione si aggiunga il fatto che questa concezione dei giapponesi come popolo omogeneo e poco propenso alla rivolta ed alla protesta è una narrazione che viene usata nel discorso corrente giapponese per definire il proprio paese e popolo e così esaltarne l’unicità, la cosiddetta sindrome di Galapagos. Una prospettiva non di per se totalmente errata, lo scandalo è quando diventa questa diventa l’unica verità che circola nel mediascape contemporaneo internazionale. Ad equilibrare il tutto e a fornire un quadro più complesso e storicamente interessante ci ha pensato lo studioso William Andrews con il suo volume Dissenting Japan – A History of Japanese Radicalism and Counterculture, from 1945 to Fukushima (Hurst, Nonfiction),  attenta e approfondita esplorazione dei movimenti di protesta radicale e di rivolta avvenuti nell’arcipelago nel dopoguerra.
Partendo dalle macerie reali e politiche del 1945 l’autore scandaglia e porta alla luce quanto l’impeto di andar contro l’ordine costituito abbia determinato molti dei cambiamenti storici e culturali avvenuti nella seconda metà del secolo scorso nel Sol Levante. Dalle veementi proteste contro il trattato di sicurezza fra America e Giappone, vere e proprie rivolte che portarono nelle strade e nelle piazze, non solo quelle di Tokyo è bene ricordarlo, centinaia di migliaia di persone, alle proteste che continuano ancora oggi nell’isola di Okinawa.
Fino alla formazione dell’Armata Rossa Giapponese, con la conseguente radicalizzazione delle lotte ed il processo autodistruttivo e di balcanizzazione dei movimenti nella seconda metà degli anni settanta. Una cavalcata storica che ha il pregio di rivelarci, grazie ad un ampio numero di dettagli, numeri e figure cruciali, un volto del Giappone poco conosciuto, un movimento di rivoluzione che nei momenti più riusciti si legò al cinema, al teatro underground ed alle altre arti visive con risultati esteticamente e politicamente di altissimo livello. Un viaggio che passa anche per gli anni ottanta, quando il cosiddetto benessere economico gonfiato dalla bolla economica assopì gli animi e che arriva fino ai nostri giorni, quando nell’era post-Fukushima secondo
Andrews si avverte una certa rinascita dei grandi movimenti di antagonismo e protesta, specialmente nelle giovanissime generazioni, il che è un segno di speranza.
matteo.boscarol@gmail.com

La Stampa 4.11.16 
La Cina e la strategia della carota
di Carlo Pizzati

In Asia c’è qualcuno che sta guadagnando molto da questa stagione d’incertezza dovuta alle elezioni americane. E questo qualcuno è ovviamente la Cina. Nelle ultime settimane, la “svolta asiatica” iniziata nel 2011 da Barack Obama con l’allora Segretario di Stato Hillary Clinton si sta rivelando un fallimento. Si dovevano spostare più forze armate dall’Atlantico al Pacifico, sostenere il libero scambio commerciale in Asia, promuovere le associazioni di nazioni del Sudest asiatico, rafforzare i rapporti con l’India, tenere il Giappone come perno asiatico, sigillare i rapporti con il Vietnam. Risultati: il risentimento di Pechino per il contenimento della sua espansione, e il riarmo del Giappone con rafforzamento di nazionalismo e revisionismo storico. Adesso, con l’annunciato isolazionismo di Donald Trump e l’indebolimento temporaneo di Washington, la politica paziente e a lungo termine della Cina sta dando i suoi frutti e paesi come Malesia, Vietnam e Filippine spezzano la catena anti-espansionismo cinese che s’era formata nel Pacifico.
A Pechino, il premier malese Najib Razak si è appena a comprato 4 navi da guerra, scaricando i fornitori americani e dicendo: “Le ex potenze coloniali non dovrebbero ficcare il naso nella politica interna delle ex colonie,” in riferimento anche agli Stati Uniti che lo coinvolgono in un processo per corruzione.
Il ministro degli Esteri vietnamita ha posato corone di fiori sulla tomba di Mao Tze-Tung a Pechino, mentre il premier ha citato l’antico sodalizio anti-americano con la Cina. È necessario, poi, ricordare quel “figlio di p…” rivolto a Barack Obama con cui il presidente filippino ha aperto la crisi nei rapporti con gli Stati Uniti? Non era una battuta. Poco dopo, Rodrigo Duterte è partito per Pechino, invitando imprenditori e militari americani a fare i bagagli. Dal Congresso è arrivata la sospensione della vendita di 26mila mitragliatori alla polizia filippina, accusata del massacro di 1400 civili. “Duterte Harry” ha annunciato che li comprerà dalla Russia.
Nel frattempo in Corea del Nord il dittatore Kim Jong-un sbraita minacce nucleari, bislacche ma pur sempre mirate al “nemico yankee,” e in Corea del Sud, la presidente Park Geun-hye cambia il premier per coprire la propria crisi irrisolta. In Tailandia, l’avvicendamento al trono causa nuove tensioni e mentre in Birmania si perseguita la minoranza musulmana Rohingya, nel laico Sri Lanka il conflitto tra buddisti e induisti risveglia un’antica battaglia, e in Bangladesh i musulmani attaccano i templi indù. In tutto questo, il colosso indiano non mantiene i risultati economici promessi e i rapporti precari con il Pakistan sulla questione del Kashmir sono contrassegnati da “attacchi chirurgici” e ritiro di diplomatici.
In quest’incerto autunno, nell’Asia del Pacifico e del Sud-Est, è proprio Pechino, con aperture e accordi, ad avvantaggiarsi dello scompaginamento politico che tocca monarchi indecisi, oligarchi perplessi, premier indagati per corruzione e Hitler asiatici (Duterte ipse dixit).
È la Cina, non più con il bastone, ma con la carota, a compattare un continente sotto la bandiera della crescita commerciale ed economica. Una vittoria di Trump l’isolazionista potrebbe accelerare questa conquista.

Repubblica 4.11.16 
Thuli, l’eroina degli onesti che ha incastrato Zuma
E il Sudafrica torna in piazza
Le inchieste di Madonsela hanno colpito i potenti corrotti. E ora infiammano le proteste
di Pietro Veronese

LA VIRTÙ di una donna ha in mano le sorti politiche del Sudafrica. Una donna che al momento non ha alcuna carica, alcun potere, alcuna funzione o ruolo. Thuli Madonsela ha 54 anni e un volto duro e tosto, capace però anche di improvvisi sorrisi. È disoccupata, eppure tiene in vita le speranze di milioni di sudafricani in un avvenire migliore.
La classe dirigente del Sudafrica, a cominciare dal capo dello Stato Jacob Zuma, affonda nel discredito. Al termine di una lunga battaglia persa, il presidente ha dovuto restituire parte del denaro pubblico speso per ristrutturare la sua residenza di campagna. È il bersaglio di ricorrenti accuse di corruzione e richieste di dimissioni. È impegnato in continue schermaglie difensive con i tribunali. Di recente la messa sotto inchiesta giudiziaria del ministro delle Finanze Pravin Gordhan è naufragata. È emerso che una parte del governo vicina al presidente voleva togliere Gordhan di mezzo con accuse pretestuose, per dare libero corso alla propria corruttela. Il procuratore capo della Repubblica Shaun Abra-hams, che aveva ordito il tutto con l’evidente consenso di Zuma, è a un passo dalle dimissioni.
Il rand, la moneta nazionale, declina, l’economia è in recessione, gli investitori stranieri in fuga, gli studenti da mesi sul piede di guerra, le opposizioni scatenate all’offensiva. I vecchi compagni di Nelson Mandela che sono ancora in vita chiedono a gran voce che il presidente tragga le conclusioni e si ritiri. Da quando è diventato un Paese libero e democratico, con le elezioni del 1994, il Sudafrica non ha mai conosciuto una crisi così profonda, o dagli esiti al momento altrettanto imprevedibili.
In questa tempesta che assorbe quotidianamente tutte le energie politiche della nazione, una sola figura sembra godere di una stima inalterata. Raccoglie consensi universali e inviti pressanti ad assumere un ruolo maggiore nella vita pubblica. Fino al 14 ottobre, cioè una ventina di giorni fa, Thuli Madonsela era il Public Protector del Sudafrica, una sorta di magistrato supremo anticorruzione, una Giovanna d’Arco degli onesti e dei delusi. Quel giorno il suo mandato, che è durato sette lunghissimi anni, è finito. Ma Thuli aveva lasciato sulla scrivania una bomba a orologeria che è finalmente esplosa l’altro ieri, il 2 novembre, quando colei che l’aveva innescata era tornata già da tre settimane a vita privata.
Ma raccontiamo la storia dall’inizio. Thulisile Madonsela, detta Thuli, è di origini molto modeste. Cresce a Soweto, rimane vedova giovanissima, a diciott’anni, e cresce da sola i suoi due figli, un maschio e una femmina. Ottiene una laurea breve in Legge, milita nell’African National Congress, il partito di Mandela, collaborando alla stesura della nuova Costituzione e occupandosi di riforma legislativa. Quando Zuma la nomina Public Protector nel 2009 è stimata, ma poco conosciuta. Lei paragona la sua carica a quella della makhadzi nella tribù dei Venda, un ruolo tradizionalmente sempre svolto da una donna: «Il mio compito», dirà, «consiste nel dare al popolo una voce e al leader una coscienza».
Comincia subito a dar fastidio a molti potenti con le sue inchieste e i suoi rapporti, ma la prima grande battaglia sarà quello sulla residenza presidenziale di Nkandla. Man mano che procede nella denuncia degli abusi di Zuma, Thuli è oggetto di pressioni pesantissime, insulti, accuse, calunnie, minacce. Lei resiste, il suo nome comincia a essere scandito nelle manifestazioni di protesta come uno slogan. Sappiamo com’è andata a finire: la Corte costituzionale ha ordinato al capo dello Stato di restituire i soldi.
Negli ultimi mesi del suo mandato Thuli Madonsela si è occupata di un altro scandalo di regime, il cosiddetto Gupta-gate. I Gupta sono una famiglia di imprenditori indiani diventati ricchissimi in Sudafrica. Sono legati da numerosi interessi alla famiglia Zuma e hanno ricevuto incredibili favori dallo Stato. Alcuni candidati a poltrone ministeriali hanno dichiarato di aver ricevuto l’offerta dell’incarico da uno dei Gupta, anziché dal capo del governo. Thuli ha indagato e l’ultimo giorno, all’ultima conferenza stampa, ha presentato il suo ultimo rapporto. Gli avvocati di Zuma hanno chiesto che venisse secretato. La schermaglia legale è durata venti giorni e il presidente ha perso: da due giorni il rapporto di Thuli è pubblico. La battaglia continua.