MONDO
La Stampa 4.11.16
L’Alta Corte rallenta la Brexit
“Il Parlamento deve votare”
Per
i giudici serve il sì dei deputati per dare il via al distacco
dall’Unione Il governo: faremo appello. La sterlina risale. Bruxelles
teme l’incertezza
di Alessandra Rizzo
La
decisione che sconvolge la politica britannica arriva a metà mattinata
in un’aula di tribunale talmente piena che qualcuno si è dovuto sedere
per terra: il governo non può dare il via al processo di uscita
dall’Unione europea senza l’approvazione del Parlamento. Per Theresa May
si tratta di una sconfitta bruciante: la Premier aveva sempre
rivendicato il diritto esclusivo di attivare l’Articolo 50 del Trattato
di Lisbona, che dà il via a due anni di negoziati formali. Adesso deve
fare i conti con un Parlamento in cui molti deputati hanno votato contro
la Brexit.
La sentenza dell’Alta Corte non blocca la Brexit, nè
ribalta l’esito del referendum del 23 giugno: i deputati non possono, e
non vogliono, ignorare il voto di 17 milioni di concittadini. Ma
certamente il pronunciamento rende più incerto e più complicato il
cammino verso il divorzio da Bruxelles. Probabilmente rallenterà le
procedure e potrebbe costringere May a un compromesso e, forse, a una
Brexit più soft. «Siamo delusi», ha detto Liam Fox, ministro al
Commercio internazionale. «Siamo determinati a rispettare il risultato
del referendum». Downing Street fa sapere che andrà avanti con i piani e
che farà ricorso alla Corte Suprema. Il governo spera di confermare la
tabella di marcia prevista e avviare le procedure entro fine marzo.
Il
caso era stato presentato da un gruppo di cittadini capitanati dalla
manager della City Gina Miller e dal parrucchiere Deir Dos Santos. Al
centro della battaglia c’era la questione, squisitamente britannica, su
cosa dovesse prevalere nel dare il via alla Brexit: la prerogativa
reale, che dà potere esecutivo al governo, o la sovranità del
Parlamento? Questione resa più confusa dal fatto che la Gran Bretagna
non ha una costituzione scritta e che la formulazione stessa
dell’Articolo 50 è vaga: uno stato membro può attivarlo «in accordo con i
propri requisiti costituzionali».
L’Alta Corte però è stata
chiarissima: «Il principio fondamentale della costituzione del Regno
Unito è che il Parlamento è sovrano», ha detto il giudice Lord Thomas
nel leggere il verdetto dopo meno di tre settimane di delibera. Livido
Nigel Farage, che sente odore di «tradimento» del referendum. «Temo che
le proveranno tutte per bloccare o rallentare l’attivazione
dell’Articolo 50. Se sarà cosi, non hanno idea della rabbia popolare che
questo provocherà», ha detto sinistro il leader del partito
anti-europeo Ukip. Esultano i nemici non solo della Brexit ma anche del
governo. Diane Abbott, braccio destro del leader laburista Jeremy
Corbyn, twitta velenosa: «Sovranità del Parlamento significa sovranità
del Parlamento» (con riferimento alla frase preferita e tanto vituperata
di May: «Brexit means Brexit»). Ed è raggiante Gina Miller, che giura
che la sua battaglia non è volta a ribaltare l’esito del voto. «Questo
risultato è di tutti noi, non c’entra la politica ma la giusta
procedura», ha detto fuori dalla Corte.
La decisione ha fatto
scattare il rialzo della sterlina, mentre il governatore della Banca di
Inghilterra Mark Carney, nell’annunciare che i tassi sarebbero rimasti
invariati, ha spiegato che la sentenza è «un esempio dell’incertezza che
caratterizzerà questo processo». Stessa incertezza avvertita anche a
Bruxelles. La sentenza rischia di trasformare un caso già senza
precedenti in una disputa legale prolungata e, nel frattempo, di tenere
in ostaggio l’Ue a tempo indeterminato.
La Stampa 4.11.16
Gina, attivista e manager immigrata che manda all’aria i piani della May
Dopo il referendum ha presentato ricorso insieme a un parrucchiere
Ex modella, col marito ha creato un software che vigila sulla finanza
di Vittorio Sabadin
In
un mondo ormai guidato da donne di carattere, ci voleva una donna con
un pessimo carattere per rimettere al suo posto Theresa May. È vero, il
ricorso all’Alta Corte britannica ha avuto anche un altro protagonista
altrettanto testardo e determinato, Deir Tosetti Dos Santos, nato in
Brasile e di professione parrucchiere. Ma l’eroe della giornata è lei:
Gina Miller, 51 anni, la lingua più acida e tagliente della City, una
combattente nata che i sostenitori del «Remain» hanno ora già eletto nei
loro siti web, forse con un po’ di precipitazione, «donna del secolo».
Pochi
giorni dopo il 23 giugno, giorno nel quale la Gran Bretagna ha votato
la Brexit, sono stati loro due a presentare le prime ingiunzioni
all’Alta Corte, sostenendo che il governo non poteva invocare
l’applicazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona senza
l’approvazione del Parlamento. Dos Santos, 37 anni, aveva votato per la
Brexit, convinto che l’Europa avesse ormai usurpato i poteri della
Camera dei Comuni. Ma è un grande idealista, e non sopportava l’idea che
il suo diritto di essere rappresentato dal Parlamento fosse violato dal
governo. Di lui si sa molto poco, perché ha sempre preferito restare
nell’ombra, incaricando gli avvocati dello studio Edwin Coe di definirlo
«un ragazzo qualunque» e di riferirsi a lui come «il cittadino
britannico Deir Dos Santos». Anche ieri non si è fatto vedere,
incaricando l’avvocato David Green di leggere una sua dichiarazione.
Gina
Miller ama invece i fotografi e le telecamere. Anche lei è
un’immigrata, nata nell’ex colonia inglese della Guyana, e c’è un po’ di
immancabile ironia britannica nel fatto che siano stati due cittadini
nati all’estero a rimettere in discussione il risultato di un referendum
che si è giocato in gran parte sull’immigrazione. Ma la Miller a Londra
è ormai di casa. Ex modella, ha sposato Alan, un geniale gestore
finanziario soprannominato Mr Hedge Fund per essere stato il primo, nel
1997, ad aprire un fondo che ha distribuito un guadagno del 17% in nove
anni. Nella causa di divorzio dalla prima moglie si è scoperto che
Miller aveva accumulato 30 milioni di sterline, e ancora si ricorda il
suo ostinato rifiuto a concedere alla ex una adeguata buonuscita,
giustificato dal fatto che erano rimasti insieme per poco tempo.
Il
matrimonio con Gina ha creato una delle coppie meglio assortite della
City, fortemente impegnata a guadagnare denaro ma pure a spenderlo in
opere filantropiche di altissimo livello. Anche le loro finanze sono
state duramente colpite dalla crisi del 2008 e Gina Miller ha osservato:
«Se abbiamo subito danni noi, che conoscevamo i mercati, che cosa ha
potuto fare la gente comune, che aveva investito con fiducia i propri
soldi?». Alan ha così ideato un software che consente ai clienti di
verificare ogni sera lo stato dei propri investimenti. Insieme si sono
battuti apertamente contro la disonestà nell’industria dei servizi
finanziari e anche contro gli sprechi delle associazioni di carità.
Gina
Miller ha votato per non uscire dalla Ue e ora sostiene che questa sua
campagna non è politica, perché non vuole rimettere in discussione il
risultato del referendum, ma solo difendere un principio costituzionale.
Ma è ovvio che ora la politica entrerà nella battaglia. La Miller vota
per un partito, quello laburista, che cerca un leader più concreto e
meno stravagante di Corbyn. Nei sogni di Theresa May, da ieri, c’è un
incubo in più: una intelligente donna bruna più testarda di lei.
Corriere 4.11.16
L’italiano Ivo, anima della battaglia
Ma i nomi dei «registi» sono segreti
di Federico Fubini
Ivo
Ilic Gabara ha capito che lui e i suoi potevano vincere quando davanti
all’Alta Corte, di colpo, la questione è diventata personale. A inizio
ottobre il Procuratore generale dell’Inghilterra e del Galles Jeremy
Wright ha aggredito verbalmente Gina Miller, invece di rifarsi alla
legge: secondo l’avvocato del governo di Londra, questa manager della
finanza etica nata in Guyana stava cercando di sovvertire la volontà del
popolo espressa nel referendum sul divorzio dall’Unione europea.
Gli
attacchi personali al posto degli argomenti giuridici sono sempre una
spia che questi ultimi scarseggiano. Sono tic tipici più di un regime
autoritario, che delle battaglie davanti alle parrucche bianche
dell’Alta Corte dei Lord. Ivo Gabara, 56 anni, italiano trasferitosi a
Londra nel 2008, non li aveva messi in conto quando all’inizio
dell’estate con un piccolo gruppo di alleati ha gettato il seme della
svolta di ieri. Era il mercoledì dopo il referendum sulla Brexit, 29
giugno. In una saletta di Mishcon de Reya, uno dei grandi studi di
avvocati d’affari della City, Miller, Gabara e pochi altri si ritrovano
per impostare la sfida legale che ieri avrebbe segnato una prima
vittoria.
«Non abbiamo mai cercato di rovesciare l’esito del
referendum né di impedire la Brexit», dice Gabara, presidente e
proprietario di una società di comunicazione con clienti come i governi
del Bangladesh e delle Mauritius o grandi gruppi, da Exxon Mobil a Telia
Sonera. «Volevamo ristabilire il principio che nel Regno Unito il
Parlamento è la sede della sovranità e non lo si può accantonare in un
corto circuito fra un referendum consultivo e l’azione incontrastata del
governo. Sarebbe stato uno stravolgimento della Costituzione formatasi
in secoli di common law , quasi un colpo di Stato».
Rapidamente
Miller, Gabara e una decina di altri, in buona parte soci di Mishcon de
Reya, hanno formato un «comitato d’indirizzo» che avrebbe portato al
duello di questo autunno nei tribunali. Lo studio legale fondato dallo
scomparso Victor Mishcon, figlio di un rabbino polacco che aveva trovato
la salvezza a Londra, presto avrebbe pagato per la sua scelta di
esporsi: in luglio davanti alle sue finestre hanno iniziato a formarsi
proteste e picchetti di fautori più radicali della Brexit. Da allora
molti dei nomi dei registi del ricorso sono rimasti gelosamente
custoditi nei computer dello studio. Per rappresentare Miller all’Alta
Corte Mishcon de Reya ha ingaggiato Lord (David) Pannick, un «Queen’s
Council», ossia uno degli avvocati da dibattimento più celebri della
nazione. A Gabara tocca il compito di parlare a nome del gruppo e
gestire la comunicazione di Miller. Quanto agli altri sostenitori della
causa, si sa solo che fra di essi si trovano figure di punta del mondo
degli affari e dell’industria. «Non solo soci di Mishcon de Reya — si
limita a dire Gabara —. Ci sono anche clienti dello studio, come la
stessa Miller. Non posso aggiungere altro per non dare adito a
inesistenti teorie del complotto», aggiunge l’italiano. «Se tirassimo
fuori i nomi, saremmo tacciati di essere l’élite di Londra che vuole
rovesciare la volontà del popolo».
Questa cortina di segreto
rischia di alimentare i sospetti dei fautori della Brexit. A Gabara
preme sottolineare il coraggio della donna che ha messo il suo nome
sulla battaglia legale: «Nel clima di aggressione seguito al referendum
non si è mai tirata indietro». Fare di lei il volto della sfida nelle
Corti è stata una decisione presa a fine luglio, dopo il primo
dibattimento: allora divenne chiaro che sarebbe bastato avere un unico
ricorrente ufficiale. Gabara però sa bene che la vittoria non è ancora
assicurata. Da tempo la Corte Suprema aveva riservato il 7 e 8 dicembre
per l’appello che sarebbe sicuramente seguito. Ma un primo segnale c’è
già, nota l’italiano: «Abbiamo dimostrato che il Regno Unito resta la
patria dello Stato di diritto. Non si possono privare milioni di
britannici della possibilità di vivere gli anni della pensione in Spagna
o di aprire un conto in Germania, senza prima ascoltare il Parlamento».
L’Alta Corte in realtà non precisa se la Camera dei Comuni dovrà votare
un mandato preciso al governo per i negoziati di secessione dalla Ue,
oppure alla premier Theresa May basterà una rapida consultazione. In
ogni caso il Parlamento non oserà esprimersi contro la Brexit. «Ma il
referendum non ha mai decretato che dovrà esserci la rottura radicale
che il governo persegue. Non ha mai dato mandato al premier di portare
il Paese fuori dal mercato unico, danneggiando l’industria dell’auto,
della farmaceutica e della finanza — nota Gabara —. Ora grazie a noi i
moderati tornano in gioco».
Corriere 4.11.16
Il dilemma politico di Londra
di Sergio Romano
L’
uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea (un problema che il
governo di Londra credeva di potere affrontare con i considerevoli
poteri di cui gode tradizionalmente l’esecutivo del Regno Unito) è
improvvisamente diventata una imbrogliata crisi politica e
costituzionale. Con una sentenza emessa ieri, l’Alta Corte britannica
non riconosce al governo di Sua Maestà il diritto di avviare il
negoziato con la Commissione di Bruxelles senza avere prima consultato
la Camera dei Comuni e forse anche quella dei Lord. I referendum
britannici sono consultivi e la necessità di una verifica parlamentare
sarebbe legalmente giustificata. Ma il Primo Ministro replica che la
convocazione di un referendum e i suoi quesiti erano già stati approvati
da un voto dei Comuni; non sarebbe necessario quindi interpellare
nuovamente i membri del Parlamento. Ma l’Alta Corte sembra sostenere che
non è possibile modificare i diritti acquisiti dai cittadini britannici
nell’ambito della Ue senza un dibattito parlamentare. Vi sarà un
ricorso del governo e leggeremo di qui a qualche tempo, verosimilmente,
un’altra sentenza. Ma il dramma di cui saremo spettatori nelle prossime
settimane non sarà soltanto la prosecuzione di una vicenda ormai nota:
se la Gran Bretagna voglia restare nell’Ue o uscirne. Sarà anche un
duello fra politica e giustizia.
Non sarà il primo nelle
democrazie occidentali. Abbiamo assistito a parecchi interventi della
Corte Suprema americana contro le iniziative del presidente degli Stati
Uniti.
S appiamo che la elezione di George W. Bush alla Casa
Bianca nel novembre del 2000 è stata decisa in Florida dall’ordinanza di
un giudice della Corte Suprema che aveva una evidente simpatia per il
partito repubblicano. Sappiamo che il Tribunale costituzionale di
Karlsruhe può bloccare per qualche mese la ratifica di un trattato della
Repubblica federale nell’ambito dell’Unione Europea. Sappiamo che la
Corte costituzionale italiana può cancellare una legge elettorale. Ma il
caso britannico è quello di un Paese che non ha una carta
costituzionale ed è giustamente noto per avere sempre sottratto
l’Esecutivo e il Legislativo a condizionamenti esterni. Forse l’errore
del Primo Ministro David Cameron, quando credette di potere ammansire
con un referendum la fazione euroscettica del suo partito, fu di avere
somministrato una dose di democrazia diretta a un Paese in cui la
democrazia è sempre stata rigorosamente indiretta.
Non sarà facile
riparare il guasto provocato dall’imprudenza di Cameron. Se il governo
di Theresa May non vincerà il ricorso, assisteremo a un dibattito
parlamentare in cui verrà rimessa in discussione l’uscita della Gran
Bretagna dalla Ue. Secondo calcoli fatti prima del referendum, i
partigiani del Remain (quelli che non volevano uscire dall’Unione) erano
più numerosi di quelli che volevano uscirne. È possibile che i dubbi
dei mercati finanziari sul futuro della City e alcune stime negative
sulle esportazioni della Gran Bretagna verso il mercato unico abbiano
rafforzato il primo gruppo. Ma non è escluso che molti parlamentari, se
dovessero scegliere fra il primato della politica e quello dei giudici,
sceglierebbero la politica. La Commissione di Bruxelles, per il momento,
potrà soltanto aspettare. Quando verrà il momento dei negoziati,
tuttavia, sarà bene evitare concessioni che permettano alla Gran
Bretagna di restare nel mercato unico senza rispettare gli altri
obblighi dei Trattati europei. Ciò che sta accadendo in queste ore
conferma che sarà sempre un difficile compagno di viaggio.
Repubblica 4.11.16
Europa, una carta in più
L’Alta Corte restituisce al Parlamento di Londra un ruolo di controllo sui negoziati con Bruxelles
di Andrea Bonanni
L’ALTA
corte britannica ha riportato il Parlamento di Westminster, il più
antico del mondo, quello che ha inventato la moderna democrazia
parlamentare, al centro dei destini del Paese. Ha restituito ai deputati
britannici l’ultima parola sulla Brexit, decisa dagli elettori con un
referendum consultivo. Anche così, difficilmente la sentenza dei giudici
potrà cambiare il corso di questo destino ed evitare l’uscita della
Gran Bretagna dalla Ue. Ma potrebbe offrire ai negoziatori europei
qualche carta in più per condizionare l’esito delle trattative sulla
secessione britannica. E magari far sì che, quando la separazione sarà
sancita, la Manica sia un po’ meno larga e gli inglesi un po’ meno
distanti di quanto avrebbe voluto il loro governo.
I problemi
giuridici, economici e politici posti dalla Brexit sono tali e tanti che
certo l’Europa tirerebbe un sospiro di sollievo se le due Camere del
Regno Unito revocassero la scelta degli elettori. In Gran Bretagna sono
molti a sperare che ciò accada. Come scrive Tony Blair nell’articolo
uscito ieri su Repubblica, «possiamo prendere una decisione e possiamo
cambiare idea». In effetti la stragrande maggioranza dei deputati, 480
contro 150, prima del referendum si era schierata contro l’ipotesi di
Brexit, in sintonia sia con il governo conservatore di Cameron sia con
l’opposizione laburista. Dunque, in teoria, l’ipotesi che il Parlamento
respinga il ricorso all’articolo 50 per uscire dall’Ue non è priva di
fondamento.
Ma il referendum, vinto da Brexit con il 52 per cento
dei suffragi, ha completamente cambiato il quadro della politica
britannica. Secondo uno studio della University of East Anglia, oggi nel
61 per cento dei collegi uninominali che eleggono i deputati la
maggioranza è favorevole a uscire dall’Ue, mentre questa percentuale, al
momento della consultazione popolare, era appena al di sotto del 52 per
cento. È difficile che un deputato britannico si esprima in Parlamento
contro l’opinione predominante del suo collegio, soprattutto su una
questione così cruciale che certamente gli costerebbe la rielezione.
Se
mai le Camere dovessero negare al governo la possibilità di invocare
l’articolo 50 per innescare il processo di uscita dalla Ue si aprirebbe
un conflitto senza precedenti tra la volontà popolare e la classe
politica dominante. E il risultato di un simile scontro sarebbe molto
probabilmente la convocazione di nuove elezioni piuttosto che quella di
un nuovo referendum. Con una inevitabile sconfitta per i conservatori,
che si avvierebbero così verso un declino politico simile a quello già
imboccato dai laburisti, e con un probabile trionfo dei populisti dello
Ukip, il partito indipendentista di Nigel Farage, che oggi invece ha
esaurito la propria funzione ed è manifestamente in crisi. Ma se verrà
confermata, nonostante l’appello che sarà presentato dal governo, la
sentenza dell’Alta corte potrebbe comunque cambiare il destino del
Paese. Perché restituirà al Parlamento un ruolo di controllo e di guida
sui negoziati che Londra aprirà con Bruxelles a primavera. Finora,
nonostante le accuse rivolte all’Europa di essere poco democratica e
poco trasparente, il nuovo governo pro-Brexit insediato a Downing Street
non ha ancora spiegato ai suoi cittadini e ai suoi deputati dove vuole
portare la Gran Bretagna. Nessuno sa se Theresa May e Boris Johnson
vogliano tenere Londra in qualche modo ancorata all’Europa, partecipando
al mercato interno e accettandone le regole anche in materia di libera
circolazione delle persone. O se invece il progetto che ispirerà il
negoziato sarà quello di una “hard Brexit”, una Brexit dura, che
restituirebbe piena sovranità alla Gran Bretagna ma la metterebbe fuori
dal più grande e più ricco mercato mondiale.
La premier, finora,
si è tenuta tutte le carte in mano rivendicando, di fatto, piena libertà
di azione. Certo, da un punto di vista negoziale, questa è l’opzione
più conveniente. Ma da un punto di vista democratico, lascia non poco a
desiderare. Come ha ricordato Tony Blair nel suo articolo, «non c’è
motivo per rimanere in silenzio e accettare qualsiasi versione di Brexit
che finiremo col negoziare... abbiamo approvato un cambio di casa senza
aver visto quella nella quale si andrà ad abitare».
Se anche il
Parlamento britannico non si suiciderà respingendo l’apertura dei
negoziati di secessione, è dunque molto probabile che vorrà dire la sua e
condizionare il governo sul modo in cui condurre le trattative e
sull’obiettivo finale da perseguire. È ciò che Theresa May ha cercato di
evitare presentando il governo come interprete diretto della volontà
popolare e cortocircuitando le Camere. L’operazione non le è riuscita.
Ora dovrà trattare non solo con i negoziatori europei, ma anche con i
propri deputati. Ed è ragionevole pensare che questi, essendo stati in
larga maggioranza contrari alla Brexit, favoriranno una soluzione più
morbida e più filo-europea riducendo i margini di manovra di Downing
Street. Contrariamente al suo modello Margareth Thatcher, Theresa May,
la nuova aspirante Lady di ferro, ha già perso una battaglia cruciale
senza aver ancora inizato la guerra.
Il Sole 4.11.16
Westminster o referendum
Una disputa sull’idea di democrazia
di Leonardo Maisano
Il
penultimo giro di valzer della Brexit ci dispensa un imprevisto capace
di allontanare nel tempo il distacco anglo-europeo, incenerendo mesi di
chiacchiere, riducendo in coriandoli insieme con tanti immaginifici
scenari del mondo che verrà anche la credibilità di Theresa May, la
signora premier appena issata a Downing Street. E con la sua anche
quella, assai meno significativa, dei tre moschettieri del divorzio da
Bruxelles: il ministro degli esteri Boris Johnson; il responsabile del
prossimo (si farà davvero?) negoziato anglo-europeo, David Davis; il
dominus del nuovo ordine commerciale internazionale di cui (forse)
Londra si doterà, Liam Fox.
In attesa di capire se la storia li
assolverà per tanta millantata spavalderia avvolta nello slogan “Brexit
significa Brexit”, da Londra torna a levarsi una rassicurante certezza:
il Parlamento esiste. L’Alta Corte ha fatto accomodare un ospite che la
logica ci suggeriva fosse indispensabile, ma che le voci più squillanti
facevano credere fosse di troppo. La parola spetta, infatti, alla Camera
dei Comuni, e per quanto di sua competenza a quella dei Lords, hanno
detto i giudici, riposizionando il referendum entro i confini originari
quelli, cioè, di un esercizio consultivo. La disputa che divide i
costituzionalisti riguarda l’uso della cosiddetta “prerogativa reale”
per dare al governo la forza di trasformare una consultazione popolare
in un atto sufficiente per sancire lo strappo, storico, di Londra da
Bruxelles e, ancor più impropriamente, per dettare le modalità e la
tempistica della separazione. Non sarà così se la Corte Suprema, a cui
Downing Street farà appello, confermerà in ultima istanza l’indirizzo
espresso ieri dai giudici.
Inutile fare previsioni perché la
triste storia delle relazioni fra Londra e Bruxelles è un cimitero di
smentite. In attesa dell’ultimo giro di valzer che meneranno i giudici
supremi, possiamo ragionare però sulle conseguenze di quanto sancito dal
penultimo giro, ovvero dalla sentenza di ieri, ipotizzando che non sarà
riformata.
Se la riaffermata centralità di Westminster è tornata
ad essere una certezza nel processo decisionale britannico il cammino
verso un chiarimento dei rapporto fra i due lati della Manica va nella
direzione opposta. La Brexit si allontana abbiamo detto, rischiando di
complicarsi nel conflitto fra esecutivo e parlamento. Downing Street
insisterà per poter avviare l’articolo 50 del Trattato di Lisbona che
sancisce il recesso entro il marzo prossimo, mentre il parlamento,
popolato da deputati in netta maggioranza favorevoli all’adesione
all’Ue, potrebbe resistere non invocando la procedura di separazione.
È
poco credibile che Westminster sia davvero pronta a neutralizzare del
tutto la volontà popolare, ma da ieri, in linea assolutamente teorica,
non è impossibile. Resta da vedere quanto i deputati saranno pronti a
sfidare i propri collegi o se, in quegli stessi collegi, si
concretizzerà invece la “voglia di ripensamento” che i sondaggi dicono
occhieggi qua e là. Se così dovesse essere, se davvero si incisterà un
conflitto duro fra Governo e Parlamento, Londra scioglierà le Camere,
nonostante i recenti vincoli introdotti sulla vita della legislatura, e
andrà ad elezioni anticipate. I Tory non solo sono divisi sulla Brexit,
ma si reggono su una maggioranza impalpabile ai Comuni e non possono
sopportare eccessive tensioni. Una via, quella delle urne, che potrebbe
davvero riaprire tutti i giochi, inducendo le forze politiche (i LibDem
sono già pronti) a mettere nel proprio manifesto una nuova consultazione
popolare.
Accadrà davvero? È possibile, abbiamo detto, ma
l’evoluzione più probabile della scossa giudiziaria prodotta dall’Alta
Corte suggerisce, per ora, uno sviluppo diverso. Il Parlamento chiederà
poteri di veto e di controllo sul negoziato con Bruxelles, scongiurando,
crediamo, quella hard Brexit che sembrava, paradossalmente, essere
divenuta ipotesi privilegiata da Londra, neanche fosse stata, davvero,
espressione della volontà popolare. Il referendum non sancisce affatto
il “sì” alla cesura violenta delle relazioni anglo-europee e neppure
detta l’approdo finale di questo straordinario pasticcio che David
Cameron ha lasciato in eredità al suo Paese e al mondo intero.
Un’interpretazione in tal senso è stata tuttavia accreditata dai
brexiters e accettata – apparentemente – da Theresa May. Il verdetto di
ieri non entra ovviamente nel merito delle opzioni politiche o
negoziali, si limita – se così si può dire – a ridare a Cesare quel che è
di Cesare, al Parlamento le sue competenze. Non è, sia chiaro, solo un
nuovo twist della schizofrenica relazione anglo-europea, è molto di più.
Un chiarimento procedurale che ridimensiona il peso del referendum,
assegnando ai remainers tutte le armi per tentare l’ultima carica a
tutela del rapporto con Bruxelles. Carica per la vittoria? Si
accontenteranno, crediamo, di limitare i danni, anche se un giudice di
Londra facendo saltare il banco ha annunciato al mondo che il Parlamento
pesa più del referendum e la Brexit, per converso, non è destino certo.
Il Sole 4.11.16
L’Europa senza bussola
Troppi dossier senza governance
di Adriana Cerretelli
Prima
il ruggito del topo ha rischiato di affondare il Ceta, l’accordo di
libero scambio Ue-Canada: il faticoso dietrofront della Vallonia,
micro-regione del Belgio da 3,5 milioni di abitanti, il ritiro delle sue
riserve l’ha salvato sul filo di lana. Ma l’entrata in vigore
definitiva non è priva di nuovi rischi: deve passare per ben 38
ratifiche nazionali e regionali.
Poi il barrito dell’elefante, con
il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, all’attacco della
Commissione europea per invocarne ad alta voce l’esproprio di
competenze, questa volta sulle politiche macroeconomiche e di bilancio
nazionali, da affidare all’Esm, il Fondo salva-Stati: istituzione troppo
politica la prima, meglio la neutralità del secondo.
Nel mezzo la
voce ancora afona di Mark Rutte, il premier olandese che, senza
fragore, ha appena scampato l’ultimatum parlamentare del 1° novembre,
ottenuto altre 6 settimane per trovare un accordo politico che non lo
costringa a revocare la ratifica dell’accordo di associazione e libero
scambio con l’Ucraina, provvisoriamente già in vigore dal gennaio
scorso, perché così deciso dal risultato del referendum consultivo di
aprile: solo il 32% degli aventi diritto ha votato ma il 61% di questi
ha detto no.
E ancora sussurri e grida di varia potenza e
pericolosità: l’Alta Corte britannica che chiama il parlamento a
pronunciarsi su Brexit contro il no del governo May, aggiungendo nuove
incertezze a una partita confusa e complicatissima. L’Italia di Matteo
Renzi che non ci sta a quelle che, a suo dire, sono le regole inique di
un’Unione che prende molto e restituisce troppo poco, applica
l’eurodisciplina a soggetto, secondo il tipo di stabilità, economica o
migratoria, in gioco.
La Polonia di Jaroslaw Kaczynski che
respinge al mittente le reprimende europee sulla sua gestione dello
Stato di diritto. I 4 di Visegrad (Polonia, Ungheria, Cechia e
Slovacchia) che non solo pretendono la solidarietà flessibile nella
ripartizione dei migranti ma teorizzano la contro-rivoluzione per una
nuova Europa di Stati sovrani e indipendenti.
Tante storie
diverse, apparentemente lontane tra loro, ma molto più vicine di quanto
non si creda. Tutte il riflesso del mal sottile che sta lentamente
consumando l’Europa del dopoguerra, che continua a perdere consensi
popolari perché spesso la si scambia con le vere o presunte malefatte
della globalizzazione. Ormai ogni scusa è buona per metterla in croce:
Brexit insegna. Ma mentre in passato la si accusava strumentalmente in
difesa degli interessi nazionali senza mai rimetterla in discussione,
oggi lo si fa per disfarla a poco a poco: demonizzazione fa rima con
l’ansia di demolizione.
Naturalmente c’entrano appuntamenti e
tempeste elettorali alle viste, le ambizioni politiche dei singoli come
il disagio di democrazie e di società provate da recessione e ripresa
stanca, da insicurezze diffuse e accresciuti divari sociali, dalle paure
no-global facilmente clonate in rigetto no-Europe. Che dilaga anche a
Nord, nel suo pianeta più affluente.
C’è un filo sottile che lega i
killeraggi di Ceta e Trattato con l’Ucraina, i diffusi assalti
governativi alla diligenza europea e l’attacco frontale di Schauble alla
Commissione Ue: è la sfiducia reciproca a tutti i livelli, il solo
patrimonio di cui l’Europa di oggi abbonda.
«Se i ministri delle
Finanze non rispettano le regole che si sono dati, da dove potrà venire
la fiducia nella nostra moneta?», chiede Schauble citando il presidente
della Bce Mario Draghi. Il suo non è un soprassalto ideologico ma
l’interrogativo che nasce dalla crescente angoscia del vivere insieme
senza più intendersi se non per denominatori comuni sempre più minimi.
In dissolvenza.
Quando i valloni temono le prepotenze delle
multinazionali ai danni dei Governi e gli olandesi esigono garanzie che
l’Ucraina non sarà integrata nell’Ue, non avrà protezione militare
europea, né finanziamenti extra e nemmeno libera circolazione dei
lavoratori rovesciano sul tavolo comune lo zibaldone di paure più o meno
giustificate e razionali, non il disegno di un’Europa più giusta e
benevola. Del resto minare la sua credibilità internazionale come
partner, commerciale e non, paradossalmente non aiuta a fugare quelle
paure ma a moltiplicarle nel tempo, mettendo a repentaglio la crescita
economica e la sicurezza su una frontiera esterna e dir poco tellurica, a
ridosso della Russia di Putin.
Quando Berlino destruttura le
istituzioni Ue puntando quasi tutto sul metodo intergovernativo che
marginalizza Bruxelles, crea un vuoto di poteri e di mediazione politica
che accresce e non attenua l’attuale incertezza.
Travagli
difficili ma inevitabili nell’Europa in transizione verso un ordine
nuovo, ancora tutto da inventare? C’è da sperarlo. Perché l’alternativa
sarebbe ben peggiore dei mali che si vorrebbero curare: senza Unione la
globalizzazione diventerebbe uno schiacciasassi senza freni.
Il Sole 4.11.16
Da Londra a Roma, il duello tra i partiti sul ruolo del Parlamento e del popolo
di Lina Palmerini
Forse
le due vicende non sono confrontabili, di certo Londra non è Roma, ma
quello che è accaduto ieri su Brexit con la decisione dei giudici della
Corte suprema di dare la parola finale al Parlamento racconta un pezzo
di storia che stiamo vivendo anche noi. E che riguarda il ruolo delle
Camere su cui si confrontano due culture e due posizioni molto diverse.
In fondo è di questo che si discute quando ci si divide sull’Italicum:
c’è chi vuole dare più spazio alla volontà popolare sulla scelta dei
Governi e chi invece vuole restare nel perimetro attuale in cui le
maggioranze si formano in Parlamento. Ed è sempre questo il tema quando i
5 Stelle invocano una partecipazione diretta dei cittadini alle
istituzioni. In entrambi i casi si arriva alla domanda su cosa, allora,
deve diventare il Parlamento. E se la strada delle consultazioni
popolari, ormai sempre più frequenti per la pressione delle opinioni
pubbliche e per la debolezza della politica, possa diventare nei
prossimi anni un metodo di gestione della democrazia.
In Gran
Bretagna l’Esecutivo May riteneva sufficiente il referendum popolare per
avviare Brexit, per i giudici invece è necessario che siano le Camere a
esprimersi nel merito ma anche sui tempi e sulle modalità. «La regola
fondante del nostro ordinamento è la centralità del Parlamento», hanno
scritto i giudici inglesi. E il dilemma che questa decisione ha aperto a
Londra rimbalza su Roma dove già da tempo si discute sulla funzione del
Parlamento e se questa debba ridursi a vantaggio della sovranità
popolare. Con tutte le conseguenze che ne derivano come quella di
ripensare un sistema che poggia sulla rappresentanza parlamentare.
In
fin dei conti è questo l’anello debole che fa traballare l’attuale
assetto: il “declino” della rappresentatività. Che c’è nelle sue varie
declinazioni – in politica ma anche in tutti i corpi intermedi – e che è
diventata la breccia attraverso cui si stanno mettendo in discussione
le Camere. La lotta alla casta e ai suoi privilegi, i costi della
politica, le inchieste sulla corruzione hanno dato il colpo finale a una
crisi che nasce da lontano in cui l’elettore non “riconosce” più chi
elegge. La certificazione di questa distanza è arrivata con le liste
bloccate – c’erano nel Porcellum e restano in parte con l’Italicum – in
cui sono i vertici di partito a decidere i nomi, sciogliendo di fatto
quel legame su cui si fonda la rappresentanza.
A questa crisi come
si sta rispondendo? Sostanzialmente con la lotta a chi taglia di più i
costi della politica. I 5 Stelle propongono il taglio delle indennità
parlamentari, il Pd di Renzi risponde con i risparmi derivanti dalla
riforma costituzionale. Una specie di guerra sui prezzi, una gara al
ribasso, per tentare di risalire la china della delegittimazione.
L’altra via per risalirla è, appunto, quella di togliere peso
all’istituzione parlamentare a vantaggio della sovranità popolare. Ma
questa via apre scenari che poi la stessa politica fa fatica a gestire.
Fu lampante con il primo referendum controverso della storia europea,
quello su Grexit. Oggi c’è Brexit. In Italia si discute se dare o no più
voce in capitolo agli elettori sulla scelta del Governo. Finora, però,
con un paradosso: per chi ha cercato la “voce” del popolo, la strada
invece di semplificarsi si è complicata.
Corriere 4.11.16I sentieri possibili per una vittoria di Donald
di Massimo Gaggi
NEW
YORK Come una squadra di calcio che, in vantaggio 3 a 1 nel finale,
prova ad addormentare la partita, Hillary Clinton conduce da giorni una
campagna sulla difensiva, cercando di amministrare il vantaggio
conquistato nei tre dibattiti in tv. La riapertura dell’indagine Fbi
sull’«emailgate» e le nuove rivelazioni di WikiLeaks su come la
Fondazione Clinton mescolava filantropia e affari, hanno, però, minato
il calcolo degli strateghi democratici.
Giorno dopo giorno, il
vantaggio della ex «First Lady» è stato eroso. Nei sondaggi più recenti
c’è di tutto: quelli, la maggioranza, che danno la Clinton ancora in
vantaggio e qualcuno che, invece, pronostica la vittoria di Trump. I
sondaggi nazionali, si sa, hanno un significato relativo visto che, in
una corsa che si decide sui voti elettorali espressi localmente per
arrivare alla soglia cruciale dei 270 «grandi elettori», tutto dipende
da quello che succederà in una manciata di Stati in bilico.
La
mappa di questa pagina mostra chiaramente che i sentieri che possono
condurre Trump a conquistare la Casa Bianca esistono e ce n’è più d’uno,
ma sono stretti e impervi. Per farcela l’immobiliarista dovrebbe — in
una delle ipotesi — conquistare, oltre a tutti gli Stati vinti da Romney
nel 2012, anche Florida, Ohio, Iowa, Colorado e New Hampshire.
Possibile? La sensazione è che le rivelazioni e i casi scoppiati nei
giorni scorsi non bastino. Analisti e scommettitori si sono fatti più
prudenti, le Borse sono preoccupate, ma la maggioranza degli elettori
un’idea precisa se l’è fatta da tempo. E molti di loro, un quinto del
totale, hanno già votato con gli «absentee ballot».
Un margine di
dubbio, certo, rimane e non solo perché viviamo in tempi di elettorati
rabbiosi sedotti dalle istanze antisistema e di candidati, come Trump,
capaci di condurre una campagna elettorale non tradizionale: i colpi di
scena potrebbero non essersi esauriti con l’«October Surprise» riservata
dai federali alla Clinton. Il loro capo, Comey, è stato crocifisso dai
democratici, ma in realtà sembra sia in corso uno scontro anche dentro
l’Fbi con alcuni agenti, forse politicamente motivati, che fanno uscire
indiscrezioni e accuse anonime — da presunte prove di corruzione nella
Clinton Foundation a cinque servizi segreti stranieri che avrebbero
messo le mani sulle email che la Clinton ha lasciato uscire dal
Dipartimento di Stato — tutte prontamente rilanciate da Bret Baier, un
«anchor» della Fox. Nei 4 giorni che restano prima del voto c’è ancora
tempo per una «November Surprise» .
Repubblica 4.11.16
The Donald ha sfidato la Storia per conquistare l’America razzista
Il repubblicano ha fatto rivivere divisioni etniche e religiose a lungo latenti nel Paese
Insultando messicani e musulmani, ha rilanciato l’interpretazione più restrittiva dell’identità Usa
Alla base di molte sue idee c’è la negazione del ruolo che le minoranze hanno avuto negli Stati Uniti
Se vincesse, tutta la nazione sarebbe sconfitta
di Evan Cornog
La
campagna presidenziale di quest’anno è insolita sotto molti aspetti, ma
è tipico della tradizione americana che le divisioni razziali, etniche e
religiose abbiano un ruolo importante nella vita pubblica. Donald Trump
ha inaugurato la sua campagna bollando gli immigrati messicani come
sfruttatori, narcotrafficanti e quant’altro, invocando poi il blocco
totale dell’immigrazione musulmana, ha definito i quartieri urbani
degradati inferni di violenza e fatto suo lo slogan nixoniano “law and
order” (legge e ordine), in contrasto con le critiche mosse alla polizia
per la recente epidemia di violenze ai danni di giovani afroamericani.
Gli storici da tempo evidenziano l’ironia insita nel fatto che questa
nazione di immigrati ha così spesso interpretato in senso restrittivo
l’identità americana, cercando di limitare l’immigrazione di chi
giudicava incompatibile con le istituzioni o i principi degli Stati
Uniti.
Per la massima parte del diciannovesimo secolo, il grande
male agli occhi dei nativisti fu l’arrivo dei cattolici dall’Irlanda.
Molti dei primi coloni di Stati come il Massachusetts appartenevano
ovviamente a sette protestanti che consideravano il Papa e i suoi
cardinali forze oppressive a livello mondiale o provenivano da nazioni
che avevano sofferto per mano degli eserciti o delle flotte delle
potenze cattoliche.
Il metro dell’intensità e della natura
dell’odio dei nativisti per il cattolicesimo è dato dal testo dell’opera
di propaganda anti-cattolica più sensazionale del secolo, “Le terribili
rivelazioni di Maria Monk”. Pubblicato nel 1836, questo scritto fasullo
si spacciava come denuncia della licenziosità e della generale
depravazione dei preti e delle suore in un convento con adiacente
seminario a Montreal, in Canada. I lettori potevano indulgere in
fantasie erotiche e contemporaneamente trovare conferma ai loro
pregiudizi religiosi: per cui il libro divenne un bestseller,
probabilmente l’opera letteraria contemporanea più venduta negli Stati
Uniti prima de “La capanna dello zio Tom”.
Dopo la Guerra Civile
una nuova immigrazione proveniente da un Paese avulso da qualsiasi
versione del cristianesimo comportò una nuova drastica forma di
restrizione all’immigrazione. Il Chinese Exclusion Act del 1882
escludeva i “lavoratori” cinesi, una categoria talmente vaga da
comprendere in pratica chiunque, eccetto i diplomatici. (Questa
restrizione rimase in vigore sotto varie forme fino al 1943.) Una delle
motivazioni era che il peculiare aspetto fisico dei cinesi non ne
avrebbe permesso l’integrazione nella società americana e quindi era
opportuno escluderli a priori.
Nello stesso periodo in cui gli
immigrati cinesi assumevano la valenza di problema politico negli Stati
americani dell’Ovest, la crescita dell’immigrazione di cattolici
dall’Italia e di ebrei dall’Europa orientale parve incarnare una nuova
“minaccia” agli occhi di chi era convinto che gli unici cittadini
desiderabili della repubblica fossero bianchi e protestanti.
Verso
la fine del ventesimo secolo il timore dei movimenti politici radicali
in Europa attizzò il nativismo americano, al pari dell’esperienza della
Prima guerra mondiale. Questi elementi, stratificati sui pregiudizi
anticattolici e antisemiti incoraggiarono una legge fortemente
restrittiva sull’immigrazione, l’Immigration Act del 1924, che stabiliva
quote mirate a ridurre drasticamente l’immigrazione complessiva e in
particolare a tagliare il numero dei cattolici e degli ebrei in arrivo.
Nel
1924, il partito democratico, nelle sue due componenti, l’ala
protestante del sud e quella delle grandi città del nord (che puntava
sui voti degli immigrati), arrivò alla convention di New York diviso tra
due canditati, William McAdoo, ex ministro del Tesoro, sostenuto dai
nativisti, e Alfred Smith, governatore cattolico dello Stato di New
York. Sull’immigrazione il partito si spaccò, tanto che la convention
durò tre settimane e dopo 103 votazioni si arrivò a un compromesso
candidando John W. Davis, poi stracciato dal presidente in carica, il
repubblicano Calvin Coolidge. Quando, quattro anni dopo, fu Al Smith a
correre, venne a sua volta sconfitto duramente dal portabandiera
repubblicano Herbert Hoover.
Ovviamente nella storia della nazione
a soffrire maggiormente della privazione dei diritti civili sono stati
gli elettori afro-americani, che dopo l’emancipazione godettero del
potere politico per un breve periodo nel Sud all’epoca della
“ricostruzione” successiva alla Guerra civile, ma vennero privati del
diritto di voto al termine della stessa, nel 1877. Solo con l’entrata in
vigore della legge per limitare le discriminazioni elettorali, il
Voting Rights Act del 1965, nel Sud riacquistarono potere politico:
tuttora i tribunali federali sono chiamati a contrastare tentativi di
sopprimere il diritto di voto dei neri.
L’anticattolicesimo che
“Maria Monk” aveva contribuito a diffondere e di cui Al Smith era stato
vittima aveva ancora un peso nel 1960, quando fu candidato alla
presidenza un altro cattolico democratico, John Kennedy, tanto che in
campagna elettorale Kennedy tenne un discorso a una platea di ministri
protestanti in Texas, andando direttamente al punto: «Se l’esito di
questa elezione dipende dal fatto che 40 milioni di americani hanno
perso l’opportunità di diventare presidente il giorno in cui sono stati
battezzati sarà tutta la nazione a essere sconfitta agli occhi dei
cattolici e non cattolici di tutto il mondo, agli occhi della Storia, e
agli occhi della nostra gente».
Le riforme degli anni Sessanta non
riguardarono solo i diritti civili e elettorali, ma anche
l’immigrazione. All’epoca, quasi in sordina, la legge sull’immigrazione e
la nazionalità (Immigration and Nationality Act) del 1965 aprì le porte
dell’America all’immigrazione regolare in misura senza precedenti da
decenni. Per chi ancora vede l’”americano” come un bianco protestante il
recente flusso di immigrati mina la supposta identità della nazione. E
la minaccia terroristica offre lo scudo adatto ai dogma nativisti.
Quest’anno
Donald Trump dà voce al nativismo al massimo livello politico dell’era
post-bellica. Oggi è l’Islam, non il cattolicesimo, la religione
condannata e gli immigrati latini e i neri americani sono il grande
“problema”. Il partito repubblicano ha assunto per lo più una posizione
scomoda a riguardo, in bilico tra l’ovvia necessità di conquistarsi voti
che oggi non ha (quelli di molti latini) e il timore di perdere il
sostegno degli elettori nativisti pro-Trump.
Va ricordato che 15
anni fa, dopo gli attacchi dell’11 settembre, il presidente George W.
Bush tracciò una distinzione inequivocabile tra i terroristi di Al Qaeda
e i musulmani in generale. A meno di una settimana agli attacchi, tenne
un discorso al Centro islamico di Washington. Queste le sue parole: «Il
volto del terrore non è la vera fede islamica. Non è l’essenza
dell’Islam. L’Islam è pace. Questi terroristi non rappresentano la pace.
Rappresentano il male e la guerra». L’America conta milioni di
musulmani tra i suoi cittadini e apportano un contributo prezioso al
nostro paese. Sono medici, avvocati, docenti di giurisprudenza, membri
delle forze armate, imprenditori, negozianti, mamme e papà. E devono
essere trattati con rispetto. Nella nostra rabbia ed emozione i nostri
connazionali devono trattarsi con rispetto reciproco.
Se è vero
che il nativismo e il razzismo hanno sempre fatto parte della politica
americana è anche vero che è sempre esistito un altro elemento, fatto di
tolleranza e inclusione. Gli ideali della Statua della libertà non sono
sempre sostenuti appieno, ma restano ampiamente condivisi. In uno spot
pubblicitario a favore della candidatura di Hillary Clinton appaiono i
familiari di Humayun Khan, capitano dell’esercito americano, morto per
salvare il suo reparto da un attentatore suicida in Iraq nel 2004. Al
termine del filmato il padre del capitano, con gli occhi pieni di
lacrime chiede «Signor Trump, ci sarebbe posto per mio figlio nella sua
America? ». Forse questa elezione risponderà al quesito se nella nostra
America c’è spazio per il capitano Khan. Se la risposta è no, allora,
mutuando le parole di Kennedy, «sarà tutta la nazione a essere sconfitta
».
(Traduzione di Emilia Benghi)
La Stampa 4.11.16
La Fondazione Clinton finisce nella morsa dell’Fbi
Dopo il mailgate l’inchiesta sugli affari di famiglia. Tensioni tra i federali
di Paolo Mastrolilli
La
morsa dell’Fbi si stringe intorno a Clinton, allargandosi
dall’inchiesta sulle mail private a quella sui favori ottenuti per la
Fondazione di famiglia. Questo però sta provocando fortissime tensioni
all’interno del Federal Bureau of Investigation, e col dipartimento alla
Giustizia, che rischiano di compromettere a lungo l’azione del governo.
È molto improbabile, poi, che gli investigatori abbiano risposte
definitive prima del voto, e ciò apre la porta a due scenari entrambi
pericolosi: la sconfitta di Hillary aiutata dall’inchiesta dell’Fbi,
costretta poi ad ammettere che non aveva violato alcuna legge; la
vittoria di Hillary, seguita da una incriminazione che provocherebbe una
crisi costituzionale senza precedenti.
Il «Wall Street Journal»
ieri ha rivelato che l’inchiesta sulla Fondazione Clinton era cominciata
nell’estate del 2015, sulla base del libro «Clinton Cash», in cui un ex
scrittore dei discorsi di George Bush denunciava i favori concessi da
Hillary quando era segretario di Stato a privati, aziende e governi che
aiutavano la fondazione di Bill.
In questo contesto, i servizi
segreti di cinque Paesi avrebbero letto le mail della Clinton. Alcune
intercettazioni segrete legate ad altri casi di corruzione avevano
confermato i sospetti, ma il ministero della Giustizia aveva fatto
pressioni per fermare le indagini, scontrandosi con il vice capo
dell’Fbi Andrew McCabe, che poi però aveva frenato i suoi agenti. La
moglie di McCabe, Jill, si era candidata al Senato in Virginia e aveva
ricevuto fondi da Terry McAuliffe, amico storico dei Clinton. Fonti
vicine all’agenzia dicono che il vero problema tecnico è la difficoltà
di provare i reati: serve un quid pro quo evidente, e un chiaro
passaggio di soldi in cambio di favori, per ottenere una condanna in
tribunale. Altrimenti, in un caso di così alto profilo, il Bureau
rischia di distruggere la sua reputazione.
L’inchiesta sulle mail
private trovate negli apparecchi di Huma Abedin è invece cominciata
all’inizio di ottobre, e il direttore Comey lo sapeva. Prima di
annunciarla però aveva bisogno dei metadata, che servivano a capire
quante di queste mail erano transitate dal server privato di Hillary
all’account della consigliera Huma. L’Fbi ne ha trovate abbastanza per
chiedere al dipartimento di Giustizia il mandato per leggerle, ma è
molto improbabile che arrivi ad una conclusione in grado di scagionare
Clinton prima del voto, perché ciò richiede di esaminare tutti i
messaggi. Al contrario, uno solo di essi basterebbe a dimostrare
l’esistenza di un reato, e un agente motivato a distruggere la
candidatura di Hillary potrebbe farlo uscire come leak. Questo riporta
alla mente scenari di interferenze tipo quelle dell’Fbi di Edgar Hoover
tra gli Anni Trenta e Settanta, o anche a «Gola Profonda» Mark Felt, il
vice capo dell’agenzia che aiutò Bob Woodward a smascherare il
Watergate.
Fonti vicine agli investigatori smentiscono che ci
siano state dimissioni di massa per spingere il direttore Comey a
riaprire l’inchiesta, ma le tensioni interne esistono, al punto che gli
agenti sono stati richiami al silenzio. Il rischio più grave è la
destabilizzazione che può seguire a questa bufera. Per l’Fbi sarebbe
devastante aver influenzato le elezioni, determinando la vittoria di
Trump, per poi ammettere che non esistevano reati. Altrettanto grave,
però, sarebbe l’incriminazione di un presidente eletto o già in carica,
che provocherebbe una crisi costituzionale senza precedenti. Davanti a
prove inoppugnabili di reati, la soluzione meno traumatica diventerebbe
convincere Hillary a dimettersi, ma i Clinton non sono abituati ad
arrendersi.
Corriere 4.11.16
Il segretario Nato Stoltenberg
«La Russia vorrebbe spartire l’Europa tra grandi potenze»
intervista di Maurizio Caprara
BRUXELLES
«Se occorre aiutare un alleato sotto attacco cibernetico abbiamo
duecento persone pronte a partire», fa notare Jens Stoltenberg, l’ex
primo ministro norvegese che è segretario generale della Nato. Lo dice
durante un’intervista al Corriere mentre si parla dei nuovi tipi di
minacce che possono turbare parti di un mondo ancora alla ricerca di
nuovi equilibri dopo la fine della divisione della Terra in due blocchi,
uno filoamericano e uno filosovietico.
«Niente discussioni
classificate in questa zona», avvisa il personale della Nato un cartello
ben prima di arrivare all’ufficio di Stoltenberg. Nel quartier generale
dell’Alleanza atlantica a Bruxelles schermi azzurri ricordano che
all’interno il grado di allerta è al livello «Bravo», a fianco c’è chi
prende il caffè al bar come in tante grandi aziende, un manifesto
pubblicizza il salone di bellezza «Nato Beauty». La serie di immagini è
emblematica della vicinanza tra fattori di inquietudine e rilassatezza
che percorrono le nostre società.
La Russia oggi ha un ruolo di
rilievo in Siria e la sua aspirazione è non essere disturbata nei
dintorni di casa. Malgrado i massacri ad Aleppo siano orribili e Mosca
abbia difficoltà economiche, crede sia possibile negare che adesso la
Russia sia più importante di cinque anni fa per la sicurezza o
l’insicurezza del mondo?
«Quello che vediamo — risponde
Stoltenberg — è una Russia che in molti anni ha rafforzato le sue
capacità militari. Esercita di più le sue forze, anche nucleari, e ha
mostrato volontà di impiegare la forza contro vicini: in Georgia, in
Crimea. In Siria appoggia il regime di Bashar el Assad e bombarda
indiscriminatamente. Tutto ciò per me non è un segno di importanza».
Perché?
«L’importanza
non equivale alla volontà di usare la forza. Un Paese può essere
importante senza impiegarla, ma il modello visibile è una Russia che
prova a stabilire sfere di influenza basate su un vecchio modo di
intendere come dovrebbe essere l’Europa, su un’idea di grandi potenze
che se le spartiscono. Non è l’Europa per la quale stiamo lavorando».
La
Russia ha dislocato verso Paesi della Nato sistemi missilistici adatti
per testate nucleari. Qual è a suo avviso la linea rossa che non
andrebbe varcata tra politica realistica, realpolitik, il dialogo con
Mosca, e la codardia, ossia accettare qualunque cosa faccia?
«Il
compito fondamentale della Nato è difendere tutti gli alleati da ogni
minaccia, sia che vengano da Sud o con una Russia più assertiva all’Est.
E noi abbiamo mandato un messaggio chiaro di deterrenza: noi siamo lì
per difendere tutti gli alleati e un attacco contro un alleato farebbe
scattare una risposta di tutti gli alleati».
Da dove potrebbe venire un attacco cibernetico diretto contro l’Italia?
«Non
mi dedicherò a speculazioni su chi può essere responsabile di attacchi
ibridi a un nostro alleato, l’Italia, ma posso dire che abbiamo
osservato tanti tipi diversi di attacchi ibridi contro molti alleati. Ed
è il motivo per cui stiamo lavorando per rafforzare le difese
cibernetiche. Se occorre aiutare un alleato sotto attacco cibernetico,
alla Nato abbiamo duecento persone pronte a partire».
Quando lei
parla di Russia sembra di ascoltare una lingua diversa da quella di
altre personalità di governo europee italiane e mediterranee. Il
presidente del Consiglio Matteo Renzi, il 21 ottobre, ha ottenuto che
fosse eliminato un riferimento alle sanzioni contro la Russia da un
documento in preparazione con i suoi colleghi europei. Lei sente di
avere con sé tutti gli alleati?
«Nel vertice di Varsavia siamo
stati tutti d’accordo sulle politiche verso la Russia: difesa, ma anche
dialogo. Quando incontro Matteo Renzi sento che abbiamo lo stesso
approccio, sia sull’importanza di essere determinati e uniti tra alleati
per la difesa collettiva sia mentre si agisce per relazioni più
costruttive e cooperative con la Russia».
Quale sarà la prima cosa che dirà al prossimo presidente degli Stati Uniti?
«Che
l’Europa ha cominciato a investire di più nella nostra difesa
collettiva. Il 2015 è stato il primo anno nel quale abbiamo visto una
crescita nella spesa per la difesa tra i nostri alleati europei Lo dirò
perché è un’espressione di solidarietà della Nato, un segno che gli
alleati europei investono nella loro sicurezza e stanno contribuendo a
una suddivisione più equa degli oneri dentro l’Alleanza».
Suona
come una risposta a Donald Trump, particolare candidato repubblicano,
favorevole ad aiutare gli europei in caso di attacco russo soltanto «se
adempiono agli obblighi che hanno verso di noi», ossia gli Stati Uniti.
«Non
sarò parte nella campagna elettorale americana, però posso affermare
che cosa è importante per la Nato: che le garanzie di sicurezza della
Nato sono incondizionate, non assoggettabili a condizioni. Noi
proteggiamo tutti gli alleati contro qualunque minaccia, fondandoci sui
principi dei tre moschettieri: “Uno per tutti e tutti per uno”. Perché
questo dà deterrenza».
La Stampa 4.11.16
Il Giappone corteggiato da Putin
di Bill Emmott
Può
un uomo che ha espresso il proprio nazionalismo occupando dei
territori, in Ucraina e in Georgia, mettere a segno il suo prossimo
colpo strategico cedendo dei territori, in Giappone? Quando, a dicembre,
il presidente Vladimir Putin visiterà Tokyo, la domanda comincerà ad
avere una risposta. Sia il cancelliere Angela Merkel sia il neoeletto
presidente degli Stati Uniti seguiranno l’incontro non solo con
interesse, ma anche con sospetto.
Agli occhi del primo ministro
giapponese, Shinzo Abe, questa potrebbe essere una occasione tanto
storica quanto strategica. Fin dal 1945, l’annessione da parte
dell’Unione Sovietica, negli ultimi giorni della guerra, di quattro
isole giapponesi della catena delle Curili, appena al largo della costa
dell’isola settentrionale di Hokkaido, rappresenta un punto dolente.
Eppure, con la Cina che in Asia suscita infinite preoccupazioni al
Giappone, è altamente allettante l’occasione di controbilanciare i
cinesi grazie a un rapporto più stretto con la Russia.
Così a
Tokyo si rincorrono le speculazioni sul possibile accordo che potrebbe
essere sul tavolo a dicembre: un aumento di investimenti giapponesi nel
settore dell’energia e delle infrastrutture nell’ Estremo Oriente russo
in cambio della restituzione di almeno due delle quattro isole. La
domanda per il cancelliere Merkel e per il nuovo presidente degli Stati
Uniti, tuttavia, sarà quanto questo inciderebbe sul coinvolgimento
giapponese nelle sanzioni occidentali imposte alla Russia per le sue
azioni in Ucraina.
Non fosse per le sanzioni, gli americani e i
tedeschi accoglierebbero bene, o almeno tollererebbero, un
riavvicinamento giapponese alla Russia. Ma qualsiasi violazione o
indebolimento delle sanzioni da parte del Giappone sarebbe considerato
un prezzo troppo alto da pagare.
L’atteggiamento dei funzionari e
degli uomini d’affari giapponesi verso la Russia è più o meno lo stesso
che nella loro percezione gli europei hanno nei confronti della Cina.
Proprio come gli europei vedono la Cina principalmente come
un’opportunità economica e non la temono come una minaccia militare,
così i giapponesi vedono la Russia. A loro, l’ offensiva della Russia in
Ucraina e in Siria sembra lontana e ininfluente.
La dipendenza
del Giappone dal nucleare per il 30% della sua produzione di energia
elettrica significa che il paese ha bisogno di nuove fonti di
rifornimento. L’incidente nucleare di Fukushima Daichi nel 2011 implica
che solo alcune delle centrali nucleari del paese saranno rimesse in
funzione, e probabilmente non ne saranno costruite di nuove. Il gas
naturale liquido messo a disposizione dalla Russia è un’alternativa
interessante.
Le imprese giapponesi da tempo investono in progetti
per l’estrazione di gas sull’isola di Sakhalin, a nord delle Curili, ma
ciò che è in discussione oggi è su una scala molto più ampia. La
Russia, con la sua economia malmessa per via dei bassi prezzi del
petrolio e del gas, ha urgente bisogno della spinta propulsiva che un
aumento degli investimenti giapponesi potrebbe portare.
Le isole
Curili non sono importanti per le loro risorse o in termini strategici.
Sono giusto una zona di pesca, in particolare di granchi. Ma in Giappone
hanno un valore simbolico ed emozionale.
Molti ministri hanno
viaggiato fino a Hokkaido per guardare con il binocolo queste isole
perdute impegnandosi a riportarle alla patria. Al signor Abe, rientrarne
in possesso, almeno di alcune di esse, non servirebbe solo alla sua
agenda politica nazionalista; sarebbe anche un incentivo in un momento
in cui la Cina sta sfidando la sovranità del Giappone sulle isole del
Mar Cinese orientale.
Così ci sono di certo le premesse per un
accordo. Eppure ci sono tre grandi ostacoli, uno per il signor Putin e
due per il signor Abe.
Per Putin, l’ostacolo è il suo programma
nazionalista. Ha trascorso un decennio e mezzo a ricostruire ciò che
considera il naturale dominio russo, prendendosi o controllando i
territori intorno ai suoi confini, tra cui la Crimea in Ucraina e la
provincia georgiana separatista deell’Ossezia del Sud. Quindi, per
rinunciare alle isole in favore del Giappone avrebbe bisogno di una
giustificazione chiara e significativa in termini di vantaggi strategici
che Russia guadagnerà in cambio.
Potrebbe tornare utile a Putin
dire che sta cercando di perfezionare un accordo che fu discusso per la
prima volta nel 1956, quando prese piede l’idea di restituire le due
isole minori e di ipotizzare uno sviluppo congiunto delle due più grandi
come mezzo per siglare la pace tra il Giappone e l’Unione Sovietica.
Quel piano fallì, ma è se non altro un precedente. Anche così, Putin
rischierebbe molto.
Per Abe, il primo problema sono i
finanziamenti. I gruppi di affari che discutono di energia e altri
investimenti infrastrutturali in Russia chiedono garanzie finanziarie.
Il problema è che per via delle sanzioni europee e americane, le banche
internazionali non saranno in grado di offrire tali finanziamenti, per
non dire delle garanzie. Quindi l’unica opzione è la Banca del Giappone
per la cooperazione internazionale, o JBIC, di proprietà statale. Ma un
tale impegno a lungo termine sarebbe un peso enorme.
Il secondo
problema è rappresentato dalle sanzioni stesse. Il vero premio per
Putin, oltre l’investimento, sarebbe quello di dividiere l’alleanza
occidentale sul tema delle sanzioni. E sicuramente farà molta pressione
sul Giappone in questo senso.
E quindi il signor Abe dovrà
decidere quanto è disposto a infastidire le due donne più potenti del
mondo: la signora Merkel e, supponendo che sia lei a essere eletta,
Hillary Clinton. Farlo solo per qualche isola dove si pescano i granchi,
per quanto simbolica possa essere, richiede nervi saldi.
traduzione di Carla Reschia
Corriere e The Japan Times 4.11.16
Il Giappone che vota sì alle armi nucleari
E
già si parla di ipocrisia. Quella mostrata dal Giappone che ha votato
contro la risoluzione Onu per arrivare a vietare le armi nucleari. Lo
denuncia un editoriale del Japan Times , diretto da Takashi Kitazume .
Sei potenze nucleari si sono espresse contro: come era previsto. Meno
che la Corea del Nord votasse a favore. Ma il Giappone? Il Paese che più
ha pagato sulla propria pelle la catastrofe atomica si è poi
giustificato dicendo che sulla vicenda è necessario un approccio
graduale.
il manifesto 4.11.16
Il Giappone dissidente
Maboroshi.
Uno studio sul paese partendo dal volume dello studioso William Andrews
dal titolo «Dissenting Japan A History of Japanese Radicalism and
Counterculture, from 1945 to Fukushima»
di Matteo Boscarol
In
uno dei suoi lungometraggi la filmmaker, studiosa e femminista
vietnamita Trinh Minh-ha scrive «non appena si mostra un paese e si
parla di una cultura in qualsivoglia modo, si entra nella finzione
benché si aspiri all’invisibilità». Ogni volta che si tenta di
descrivere un paese e le sue culture cioè, anche quando animati da buone
intenzioni, si finisce quasi inevitabilmente per finire nel costruito
quando non nell’apodittico, un discorso che è ancor più valido per
territori che sono geograficamente isolati come l’arcipelago giapponese
ad esempio. Quando si tentano di descrivere alcune tendenze nipponiche
recenti, se ne criticano certi aspetti o dall’altro lato dello spettro
se ne esaltano altri, ci si scontra quasi sempre con un vespaio di
critiche e una generale alzata di scudi.
Questo perché esiste una
narrazione dominante che vuole descrivere il popolo giapponese come
omogeneo e docile, una narrazione tossica frutto di un’immagine
prestabilita cristallizzata negli ultimi secoli e che caratterizza il
Giappone come Altro rispetto all’Occidente, ma anche Altro rispetto
all’Oriente dove è situato geograficamente ma a cui sembra non
appartenere.
Ad aggravare questa situazione si aggiunga il fatto
che questa concezione dei giapponesi come popolo omogeneo e poco
propenso alla rivolta ed alla protesta è una narrazione che viene usata
nel discorso corrente giapponese per definire il proprio paese e popolo e
così esaltarne l’unicità, la cosiddetta sindrome di Galapagos. Una
prospettiva non di per se totalmente errata, lo scandalo è quando
diventa questa diventa l’unica verità che circola nel mediascape
contemporaneo internazionale. Ad equilibrare il tutto e a fornire un
quadro più complesso e storicamente interessante ci ha pensato lo
studioso William Andrews con il suo volume Dissenting Japan – A History
of Japanese Radicalism and Counterculture, from 1945 to Fukushima
(Hurst, Nonfiction), attenta e approfondita esplorazione dei movimenti
di protesta radicale e di rivolta avvenuti nell’arcipelago nel
dopoguerra.
Partendo dalle macerie reali e politiche del 1945
l’autore scandaglia e porta alla luce quanto l’impeto di andar contro
l’ordine costituito abbia determinato molti dei cambiamenti storici e
culturali avvenuti nella seconda metà del secolo scorso nel Sol Levante.
Dalle veementi proteste contro il trattato di sicurezza fra America e
Giappone, vere e proprie rivolte che portarono nelle strade e nelle
piazze, non solo quelle di Tokyo è bene ricordarlo, centinaia di
migliaia di persone, alle proteste che continuano ancora oggi nell’isola
di Okinawa.
Fino alla formazione dell’Armata Rossa Giapponese,
con la conseguente radicalizzazione delle lotte ed il processo
autodistruttivo e di balcanizzazione dei movimenti nella seconda metà
degli anni settanta. Una cavalcata storica che ha il pregio di
rivelarci, grazie ad un ampio numero di dettagli, numeri e figure
cruciali, un volto del Giappone poco conosciuto, un movimento di
rivoluzione che nei momenti più riusciti si legò al cinema, al teatro
underground ed alle altre arti visive con risultati esteticamente e
politicamente di altissimo livello. Un viaggio che passa anche per gli
anni ottanta, quando il cosiddetto benessere economico gonfiato dalla
bolla economica assopì gli animi e che arriva fino ai nostri giorni,
quando nell’era post-Fukushima secondo
Andrews si avverte una
certa rinascita dei grandi movimenti di antagonismo e protesta,
specialmente nelle giovanissime generazioni, il che è un segno di
speranza.
matteo.boscarol@gmail.com
La Stampa 4.11.16
La Cina e la strategia della carota
di Carlo Pizzati
In
Asia c’è qualcuno che sta guadagnando molto da questa stagione
d’incertezza dovuta alle elezioni americane. E questo qualcuno è
ovviamente la Cina. Nelle ultime settimane, la “svolta asiatica”
iniziata nel 2011 da Barack Obama con l’allora Segretario di Stato
Hillary Clinton si sta rivelando un fallimento. Si dovevano spostare più
forze armate dall’Atlantico al Pacifico, sostenere il libero scambio
commerciale in Asia, promuovere le associazioni di nazioni del Sudest
asiatico, rafforzare i rapporti con l’India, tenere il Giappone come
perno asiatico, sigillare i rapporti con il Vietnam. Risultati: il
risentimento di Pechino per il contenimento della sua espansione, e il
riarmo del Giappone con rafforzamento di nazionalismo e revisionismo
storico. Adesso, con l’annunciato isolazionismo di Donald Trump e
l’indebolimento temporaneo di Washington, la politica paziente e a lungo
termine della Cina sta dando i suoi frutti e paesi come Malesia,
Vietnam e Filippine spezzano la catena anti-espansionismo cinese che
s’era formata nel Pacifico.
A Pechino, il premier malese Najib
Razak si è appena a comprato 4 navi da guerra, scaricando i fornitori
americani e dicendo: “Le ex potenze coloniali non dovrebbero ficcare il
naso nella politica interna delle ex colonie,” in riferimento anche agli
Stati Uniti che lo coinvolgono in un processo per corruzione.
Il
ministro degli Esteri vietnamita ha posato corone di fiori sulla tomba
di Mao Tze-Tung a Pechino, mentre il premier ha citato l’antico
sodalizio anti-americano con la Cina. È necessario, poi, ricordare quel
“figlio di p…” rivolto a Barack Obama con cui il presidente filippino ha
aperto la crisi nei rapporti con gli Stati Uniti? Non era una battuta.
Poco dopo, Rodrigo Duterte è partito per Pechino, invitando imprenditori
e militari americani a fare i bagagli. Dal Congresso è arrivata la
sospensione della vendita di 26mila mitragliatori alla polizia
filippina, accusata del massacro di 1400 civili. “Duterte Harry” ha
annunciato che li comprerà dalla Russia.
Nel frattempo in Corea
del Nord il dittatore Kim Jong-un sbraita minacce nucleari, bislacche ma
pur sempre mirate al “nemico yankee,” e in Corea del Sud, la presidente
Park Geun-hye cambia il premier per coprire la propria crisi irrisolta.
In Tailandia, l’avvicendamento al trono causa nuove tensioni e mentre
in Birmania si perseguita la minoranza musulmana Rohingya, nel laico Sri
Lanka il conflitto tra buddisti e induisti risveglia un’antica
battaglia, e in Bangladesh i musulmani attaccano i templi indù. In tutto
questo, il colosso indiano non mantiene i risultati economici promessi e
i rapporti precari con il Pakistan sulla questione del Kashmir sono
contrassegnati da “attacchi chirurgici” e ritiro di diplomatici.
In
quest’incerto autunno, nell’Asia del Pacifico e del Sud-Est, è proprio
Pechino, con aperture e accordi, ad avvantaggiarsi dello scompaginamento
politico che tocca monarchi indecisi, oligarchi perplessi, premier
indagati per corruzione e Hitler asiatici (Duterte ipse dixit).
È
la Cina, non più con il bastone, ma con la carota, a compattare un
continente sotto la bandiera della crescita commerciale ed economica.
Una vittoria di Trump l’isolazionista potrebbe accelerare questa
conquista.
Repubblica 4.11.16
Thuli, l’eroina degli onesti che ha incastrato Zuma
E il Sudafrica torna in piazza
Le inchieste di Madonsela hanno colpito i potenti corrotti. E ora infiammano le proteste
di Pietro Veronese
LA
VIRTÙ di una donna ha in mano le sorti politiche del Sudafrica. Una
donna che al momento non ha alcuna carica, alcun potere, alcuna funzione
o ruolo. Thuli Madonsela ha 54 anni e un volto duro e tosto, capace
però anche di improvvisi sorrisi. È disoccupata, eppure tiene in vita le
speranze di milioni di sudafricani in un avvenire migliore.
La
classe dirigente del Sudafrica, a cominciare dal capo dello Stato Jacob
Zuma, affonda nel discredito. Al termine di una lunga battaglia persa,
il presidente ha dovuto restituire parte del denaro pubblico speso per
ristrutturare la sua residenza di campagna. È il bersaglio di ricorrenti
accuse di corruzione e richieste di dimissioni. È impegnato in continue
schermaglie difensive con i tribunali. Di recente la messa sotto
inchiesta giudiziaria del ministro delle Finanze Pravin Gordhan è
naufragata. È emerso che una parte del governo vicina al presidente
voleva togliere Gordhan di mezzo con accuse pretestuose, per dare libero
corso alla propria corruttela. Il procuratore capo della Repubblica
Shaun Abra-hams, che aveva ordito il tutto con l’evidente consenso di
Zuma, è a un passo dalle dimissioni.
Il rand, la moneta nazionale,
declina, l’economia è in recessione, gli investitori stranieri in fuga,
gli studenti da mesi sul piede di guerra, le opposizioni scatenate
all’offensiva. I vecchi compagni di Nelson Mandela che sono ancora in
vita chiedono a gran voce che il presidente tragga le conclusioni e si
ritiri. Da quando è diventato un Paese libero e democratico, con le
elezioni del 1994, il Sudafrica non ha mai conosciuto una crisi così
profonda, o dagli esiti al momento altrettanto imprevedibili.
In
questa tempesta che assorbe quotidianamente tutte le energie politiche
della nazione, una sola figura sembra godere di una stima inalterata.
Raccoglie consensi universali e inviti pressanti ad assumere un ruolo
maggiore nella vita pubblica. Fino al 14 ottobre, cioè una ventina di
giorni fa, Thuli Madonsela era il Public Protector del Sudafrica, una
sorta di magistrato supremo anticorruzione, una Giovanna d’Arco degli
onesti e dei delusi. Quel giorno il suo mandato, che è durato sette
lunghissimi anni, è finito. Ma Thuli aveva lasciato sulla scrivania una
bomba a orologeria che è finalmente esplosa l’altro ieri, il 2 novembre,
quando colei che l’aveva innescata era tornata già da tre settimane a
vita privata.
Ma raccontiamo la storia dall’inizio. Thulisile
Madonsela, detta Thuli, è di origini molto modeste. Cresce a Soweto,
rimane vedova giovanissima, a diciott’anni, e cresce da sola i suoi due
figli, un maschio e una femmina. Ottiene una laurea breve in Legge,
milita nell’African National Congress, il partito di Mandela,
collaborando alla stesura della nuova Costituzione e occupandosi di
riforma legislativa. Quando Zuma la nomina Public Protector nel 2009 è
stimata, ma poco conosciuta. Lei paragona la sua carica a quella della
makhadzi nella tribù dei Venda, un ruolo tradizionalmente sempre svolto
da una donna: «Il mio compito», dirà, «consiste nel dare al popolo una
voce e al leader una coscienza».
Comincia subito a dar fastidio a
molti potenti con le sue inchieste e i suoi rapporti, ma la prima grande
battaglia sarà quello sulla residenza presidenziale di Nkandla. Man
mano che procede nella denuncia degli abusi di Zuma, Thuli è oggetto di
pressioni pesantissime, insulti, accuse, calunnie, minacce. Lei resiste,
il suo nome comincia a essere scandito nelle manifestazioni di protesta
come uno slogan. Sappiamo com’è andata a finire: la Corte
costituzionale ha ordinato al capo dello Stato di restituire i soldi.
Negli
ultimi mesi del suo mandato Thuli Madonsela si è occupata di un altro
scandalo di regime, il cosiddetto Gupta-gate. I Gupta sono una famiglia
di imprenditori indiani diventati ricchissimi in Sudafrica. Sono legati
da numerosi interessi alla famiglia Zuma e hanno ricevuto incredibili
favori dallo Stato. Alcuni candidati a poltrone ministeriali hanno
dichiarato di aver ricevuto l’offerta dell’incarico da uno dei Gupta,
anziché dal capo del governo. Thuli ha indagato e l’ultimo giorno,
all’ultima conferenza stampa, ha presentato il suo ultimo rapporto. Gli
avvocati di Zuma hanno chiesto che venisse secretato. La schermaglia
legale è durata venti giorni e il presidente ha perso: da due giorni il
rapporto di Thuli è pubblico. La battaglia continua.