venerdì 4 novembre 2016

CULTURA

Corriere 4.11.16
Per Lucrezio l’uomo è solo materia ma nulla lo fa soffrire come l’amore
Fu Poggio Bracciolini a ritrovare nel 1417 il testo del «De rerum natura»
Il poema latino divenne allora una delle opere predilette dagli umanisti
di Pierluigi Panza

La deposizione di papa Giovanni XXIII (sconfessato come antipapa dalla Chiesa) nel 1417 liberò il suo segretario, Poggio Bracciolini, dagli incarichi ufficiali, lasciandolo libero di fare quel che gli piaceva: cercare innari, libri d’ore e manoscritti antichi nei monasteri. E a Fulda, un’abbazia benedettina fondata nell'VIII secolo da un discepolo di san Bonifacio, trovò il De rerum natura , un poema di 7.400 esametri in sei libri composto da Tito Lucrezio Caro alla metà del I secolo a.C.
In competizione com’era con gli altri cacciatori di codici, Lorenzo Valla, Guarino Veronese e Giorgio di Trebisonda, all’opera tanto lodata un tempo da Cicerone e Virgilio lo scriptore del Pontefice non diede peso: letta qualche spigolatura, la fece copiare e la inviò al bibliografo fiorentino Niccolò Niccoli perché ne facesse copie. Ma prima ancora che Gutenberg ne effettuasse la stampa, il De rerum natura era diventato la bibbia degli umanisti che non credevano nella Bibbia. Un testo sovversivo, che presentava una visione materialista del mondo intrisa di meraviglia, un mondo non abitato da dei e demoni, nel quale tuoni e fulmini, nubi, trombe marine e terremoti erano fenomeni spiegabili senza Giove e senza Dio, dove uomini e stelle sono costituiti dallo stesso infinito vortice di particelle che, muovendosi, determina la vita. Lo diceva Lucrezio, un pagano. Gli umanisti lo citavano, per evitare gli strali, quelli sì, della Chiesa cattolica.
Fu così che Lucrezio incominciò a far capolino negli scritti di molti autori, tra i quali l’abbreviatore apostolico di Niccolò V, Leon Battista Alberti. Nel Theogenius e nel Momus di Alberti, l’opera di Lucrezio si affianca alla Naturalis historia di Plinio, a Ippocrate e Vitruvio — il cui manoscritto fu pure ritrovato da Bracciolini a Montecassino — per tratteggiare una vita dominata dalla Natura: «Affermano e’ fisici essere a’ corpi umani ascritta vicessitudine, che o crescano continuo o scemino: quello che tra questi due sia in mezzo, dicono trovarsi brevissimo». Sembra di sentire Ippocrate e Lucrezio che dettano gli aspetti più tragici della visione umanistica del mondo.
Il culto «segreto» per Lucrezio crebbe poi con i pericolosi Tommaso Moro e Giordano Bruno, tanto che già nel 1516 il Sinodo fiorentino proibì la lettura del De rerum natura e nel 1551 il Concilio di Trento mise al bando Epicuro e Lucrezio. Ma se in Italia i lucreziani bruciavano nel fuoco, in Inghilterra il culto proseguì con William Shakespeare e Francesco Bacone e in Francia con Michel de Montaigne e Pierre Gassendi, che cercò di conciliare Lucrezio con il cristianesimo.
Ma torniamo ad Alberti per tornare a Lucrezio. In Opus praeclarum in amoris remedio , una silloge dell’umanista fiorentino che raccoglie scritti sull’amore, ritroviamo temi ispirati a Tertulliano e al IV libro del De rerum natura . Per Lucrezio l’amore è insaziabile e chi ne è privo è beneficiato perché non soffre. La leggenda vuole che proprio sull’amore Lucrezio si sia schiantato. Nel Chronicon di San Girolamo (IV secolo), si narra che «dopo essere impazzito per un filtro d’amore, e aver scritto negli intervalli della follia alcuni libri, Lucrezio si suicidò a 44 anni». Ma Luciano Canfora, nella sua Vita di Lucrezio (che era forse nato a Pompei) ha abbandonato questa ipotesi, che era un modo usato dalla Chiesa per screditare, attraverso Lucrezio, l’atomista Democrito insieme ad Epicuro.
Gli atomi sono infiniti nel numero, ma limitati nella forma. Si muovono secondo inclinazione, scrive Lucrezio, dalla quale dipendono il caso e il libero arbitrio. Nei rapporti con il corpo, la mente ha la supremazia sull’anima: la vita sussiste finché la mente è integra, anche se l’organismo è privo di alcune funzioni. L’umanità è impegnata in un continuo tentativo di fuga dal dolore, al quale le superstizioni (e le religioni) offrono una risposta.
La morte è nulla, perché quando c’è, noi non ci siamo. La paura della morte è nata da credenze vane: se una persona ha goduto delle esperienze, perché non dovrebbe accontentarsi? Non esiste una età dell’oro, come avrebbe pensato il materialista Jean-Jacques Rousseau secoli dopo: l’uomo inizia la sua esperienza con fatica. Dove c’è vuoto non c’è materia e dove c’è materia non c’è vuoto; ma la materia ha un limite: infatti sempre le cose nascono, crescono, raggiungono la maturità e poi decadono, secondo una visione biologica che sarà ripresa da Georg Simmel.
Foscolo e Leopardi sono figli di Lucrezio; meno Dante che, pur avendo forse conosciuto il De rerum natura , nella Divina Commedia piazza Epicuro all’ Inferno (Canto X) in bare incandescenti con «tutti suoi seguaci». Povero Lucrezio!
Ma Raffaello, nella Scuola di Atene in Vaticano rivaluta proprio Epicuro. Del resto, Raffaello viveva come un epicureo: morì anch’egli di troppo amore. Ma non per suicidio, bensì per aver amoreggiato troppo.

Corriere 4.11.16
La concezione filosofica di Epicuro tradotta in versi
di Jessica Chia

La violenza, l’oppressione, il trionfo delle paure ataviche (come la morte e l’aldilà), sono alcuni degli elementi che, secondo la filosofia di Lucrezio, avvicinano l’uomo all’infelicità. Riprendendo la lezione epicurea, il poeta latino parte da questo senso di disagio cosmico per comporre La natura delle cose , poema epico-filosofico, oggi in edicola con il «Corriere della Sera» a 6,90 € più il prezzo del quotidiano. L’opera fa parte della collana «Classici greci e latini» ed è il quarto volume di una serie che raccoglie 30 uscite settimanali con i testi fondamentali della tradizione greco-romana, imprescindibile per comprendere la storia del pensiero occidentale. La natura delle cose è un testo didascalico in cui si esprime il materialismo naturalistico di Lucrezio che tradusse la dottrina di Epicuro in termini fantastici e visionari con lo scopo di guidare il lettore attraverso la vicenda misteriosa che è la storia cosmica e quella dell’umanità. Un invito a prendere coscienza della realtà nella quale l’essere umano si sente vittima fin dalla nascita, nella contemplazione del perpetuo divenire delle cose. Nella collana sono raccolte le diverse matrici del pensiero occidentale che si sono sviluppate nei secoli e nei millenni successivi, fino a oggi. Tra le prossime uscite: Cesare, La guerra civile (11 novembre); Epicuro, Lettere sulla felicità, sul cielo e sulla fisica (18 novembre); Euripide, Medea (25 novembre). Le opere sono tutte edizioni integrali con testo a fronte e ricchi apparati critici, uscite nella Biblioteca Universale Rizzoli.

il manifesto 4.11.16
Il piacere è un atto rivoluzionario
Un incontro con l'arabista Martina Censi, che ha indagato le raffigurazioni del corpo nei romanzi di alcune scrittrici siriane contemporanee
intervista di Francesca Del Vecchio

«Un corpo non è solo sinonimo di donna, di segregazione sessuale e di velo. Corpo vuol dire soprattutto individuo, maschile e femminile, con le sue irrinunciabili differenze. Nell’approccio a questo tema, le società arabe ed europee non sono poi così diverse». Nel suo saggio Le Corps dans le roman des écrivaines syriennes contemporaines (edito da Brill), Martina Censi, ricercatrice e docente di lingua e letteratura araba all’Università di Rennes 2, spiega il ruolo della condizione non solo femminile nel mondo arabo quanto piuttosto della persona stessa nella contemporaneità.
Chi sono i protagonisti dei sei romanzi scelti per condurre la sua ricerca?
In Una sedia di Dima Wannus il focus è un uomo: il corpo del protagonista subisce una frammentazione che rappresenta l’effetto del potere repressivo sull’individuo. In questi romanzi ci sono donne e uomini in divenire: attraverso la propria fisicità, ogni personaggio rivendica una differenza, contribuendo a mettere in discussione ogni rappresentazione monolitica di mascolinità e femminilità.
Corpo e repressione, corpo e potere, corpo tra tradizione e modernità. Binomi che raccontano qualcosa nei libri presi in esame….
Ogni capitolo del mio saggio è dedicato a un romanzo specifico. L’aspetto principale riguarda la raffigurazione del corpo come luogo simbolico della lotta tra istanza individuale, cioè la spinta all’affermazione della propria libertà, e istanza collettiva di controllo, rappresentata in ognuno da uno o più elementi: il potere repressivo legato al partito al governo, la logica di dominazione che oltre ad organizzare la società permea le relazioni intime, l’influenza della tradizione che attribuisce dei ruoli sociali agli individui. Più questi si allontanano dalla morsa della repressione politica, dal peso della tradizione, dalla logica di dominazione, più riescono a godere del proprio corpo. L’affermazione del piacere è un atto rivoluzionario.
Qual è stata la genesi del suo saggio?
Ho dedicato a questo argomento la mia tesi di dottorato. Ma desideravo approfondire la produzione narrativa contemporanea siriana – per questo motivo ho optato per sei romanzi scritti tra il 2004 e il 2011. Non sono riuscita a includere tutte le autrici siriane che hanno pubblicato recentemente, ma i nomi – Dima Wannus, Rosa Yasin Hasan, Maha Hasan, Samar Yazbek, Hayfa’ Bitar e Salwa al-Naymi – sono rappresentativi del panorama attuale. Ho scelto lasciandomi condurre dai romanzi, che hanno confermato la mia supposizione: i testi erano pervasi dalla presenza di corpi. Ho iniziato da Il Profumo della cannella di Samar Yazbek, storia della relazione erotica tra due donne agli antipodi: una matura dell’alta borghesia damascena, e un’adolescente venduta dal padre per lavorare nella villa della ricca signora. Qui l’elemento del corpo è centrale.
Perché proprio la Siria come luogo simbolico per la sua indagine?
È stato il primo paese arabo che ho visitato durante i miei studi. Ho percepito lì una realtà diversa e vicina al contempo, che mi ha messa in contatto con un’umanità che non mi era capitato di incontrare prima. Così, scrivendo il libro, ho voluto lasciare alcuni passaggi dei romanzi in arabo per dare al lettore la possibilità di accedervi direttamente attraverso la lingua originale.
Il saggio è in francese. Non pensa a un’edizione italiana?
Desideravo che il mio saggio circolasse oltre i confini nazionali e Brill è una delle case editrici più note a livello internazionale. Sarei molto felice se il mio lavoro potesse essere tradotto in italiano. Ma il limite non è di natura linguistica: spesso le case editrici considerano la letteratura araba come non redditizia, a meno che non si tratti di opere che stimolano l’immaginario orientalista del pubblico, segregazione femminile, velo e via dicendo. Negli ultimi anni, però, c’è stata una inversione di tendenza, con un aumento delle opere tradotte dall’arabo in italiano.
A proposito di corpo: quello femminile suscita ancora oggi dibattiti e discussioni…
Il corpo femminile continua a rappresentare l’altro per eccellenza, il cui marchio è la differenza definita dalla non conformità rispetto al maschile, considerato come la norma, termine di paragone «neutro». Non è un semplice involucro di carne: è la sintesi di più variabili che interagiscono tra loro – linguaggio, storia personale, età, appartenenze, nazionalità, classe sociale. È un’entità iscritta in una rete di relazioni di potere.
Tempo fa si è accesa una polemica sul burkini: non le sembra che il corpo femminile sia una specie di bacheca su cui affiggere un manifesto?
Certamente. Troppo spesso è strumentalizzato in nome di politiche identitarie: negli anni ’70 i collettivi di sinistra non tolleravano il trucco sui visi delle compagne, perché considerato simbolo borghese. In risposta alle femministe europee che additavano le musulmane velate, Fatima Mernissi rispondeva che in Europa il velo delle donne era rappresentato dalla taglia 42. Sarebbe utile, quindi, cercare di avere maggiore consapevolezza dei modelli ai quali si aderisce per fornire a se stesse e all’altro una determinata identità. Per quanto riguarda il burkini, dibattiti e analisi erano eccessivi se commisurati all’importanza della questione, di per sé marginale: è l’ennesima forma di orientalismo – o razzismo – funzionale alla costruzione di un’immagine dell’altro come meno evoluto che spesso ha per bersaglio i corpi delle donne musulmane.
Una donna è forse ancora un oggetto pubblico nella società araba tradizionale?
La donna è ancora un oggetto pubblico un po’ dappertutto, direi. Basti pensare ai recenti casi di femminicidio in Italia, alle ragazze che si sono suicidate dopo essere state messe alla gogna sui social. Nei paesi di cui mi sono occupata – Siria e Libano – il peso della tradizione si fa tuttora sentire, limitando la libertà individuale. Non si tratta dell’Islam, ma di un sistema di valori condiviso che accomuna le diverse confessioni religiose e che lega l’identità del singolo a quella collettiva. Ecco perché il corpo acquisisce un’importanza centrale nella produzione letteraria: rappresenta l’individuo e la sua lotta per l’affermazione della propria libertà.
Assia Djebar diceva «scrivo contro la regressione e la misoginia». Quali sono le tappe fondamentali ancora da compiere per la parità di genere nel mondo arabo?
L’islam non è una realtà monolitica. Anzi, cambia di stato in stato, di paese in paese. Per questi motivi non si può pensare che il proprio punto di vista sia applicabile a tutte le realtà e valido per tutte le persone: il velo può essere femminista e può rappresentare una libera scelta della donna. Un passo necessario per il cambiamento è l’apertura verso ciò che si considera diverso e la disponibilità a uno sconvolgimento delle categorie di pensiero alle quali siamo ormai assuefatti, tanto da considerarle le uniche possibili.

Corriere 4.11.16Papa Francesco e la svolta di Lundt
risponde Sergio Romano
Lei non pensa che ora — dopo la «svolta» ecclesiastica di papa Bergoglio, giunto a commemorare, insieme ai protestanti, le tesi luterane di cinquecento anni fa — prenderanno vigore quelle requisitorie dell’integralismo cattolico, già da tempo pullulanti in Internet, che vedono in lui l’antipapa o, addirittura, l’anticristo? Personalmente non mi ritengo coinvolto, né pro né contro. Ma mi sembrerebbe che un po’ tutta l’umanità avrebbe da guadagnare se questo avvicinamento ai protestanti portasse a liberare ancor più i numi laici, «ragione» e «natura», dai dogmi e dal principio di autorità religiosa. Così come Carducci nel suo illuministico inno «A Satana» —in cui, si sa, egli intendeva per Satana, appunto, la ragione, il progresso, la civiltà moderna — auspicava che avvenisse («Gittò la tonaca/Martin Lutero:/gitta i tuoi vincoli,/uman pensiero» ).
Bruno Faccini

Caro Faccini,
Come ha scritto Lucetta Scaraffia, studiosa e collaboratrice dell’ Osservatore Romano (Corriere del 1° novembre), un gesto come quello di Francesco poteva essere fatto soltanto da un pontefice «sottratto ai duri condizionamenti storici della vecchia Europa». Aggiungo che alla origine della svolta papale esistono, a mio avviso, altri due fattori. In primo luogo il Papa ha avuto qualche familiarità con la «teologia della liberazione», una sorta di marxismo cristiano che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI avevano fortemente avversato. In secondo luogo è stato testimone della clamorosa avanzata del cristianesimo evangelico in quasi tutti i Paesi dell'America Latina. È possibile che l’osservazione di questi due fenomeni lo abbia reso maggiormente disponibile alla ricerca di un terreno comune fra cattolici e luterani.
Quanto agli effetti della sua «svolta» sull’integralismo cattolico, non è escluso, in effetti, che i seguaci di monsignor Lefebvre (il vescovo scismatico di Dakar) colgano questa occasione per lanciare una nuova offensiva contro il papato romano. Al di là delle loro divergenze ideologiche, cattolicesimo e protestantesimo sono diventati identità culturali, profondamente radicate nelle mentalità e nell’autocoscienza delle diverse famiglie cristiane. Può darsi che i tempi siano cambiati e che le ultime generazioni abbiano uno spirito più ecumenico dei loro padri e nonni. Ma i vecchi pregiudizi sono duri a morire ed è possibile che i lefebvriani della Fraternità sacerdotale di San Pio X diventino una sorta di rifugio per cattolici frustrati e delusi.
Vi saranno reazioni anche nel cattolicesimo progressista. Nel suo viaggio a Lundt il Papa non ha parlato genericamente alla Chiesa luterana. Ha parlato a una donna, Antje Jackelen, arcivescovo e «primate» di Svezia. Sarà possibile continuare e riservare il sacerdozio agli uomini quando il capo della Chiesa romana accetta una donna come interlocutrice e collaboratrice di un comune progetto ecclesiale?