domenica 6 novembre 2016

Pagina 99 5.11.2016
Nell ’Italia immobile dove chi nasce povero resta povero
Indagine | La crescita inclusiva è sparita dall’agenda dei governi europei. E il nostro Paese è quello con il divario più ampio: i figli di famiglie ricche e istruite hanno molte più possibilità di carriera e benessere rispetto ai meno abbienti
di Giovanna Faggionato

«Quando ti vien voglia di criticare qualcuno», mi disse, «ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu». C’è una sottile crudeltà nell’in -cipit che Francis Scott Fitzgerald ha dato al romanzo che racconta il lusso e la vacuità, e la stessa crudeltà si ritrova nella funzione che da quel romanzo ha preso il nome: la curva del Grande Gatsby mostra quanto sia forte nei diversi Paesi il grado di correlazione tra disuguaglianza dei redditi e mobilità sociale e cioè quanto le disuguaglianze tra il reddito dei genitori influenzino la capacità dei figli di migliorare la loro posizione. A guardarla si scopre che l’Italia è, dopo Gran Bretagna e Stati Uniti, il Paese in cui il divario iniziale influenza maggiormente il destino sociale, la nazione in cui il figlio dell’operaio ha meno probabilità di diventare dottore. «Una maggiore disuguaglianza di reddito è associata a meno mobilità intergenerazionale: i figli di famiglie povere tendono a diventare poveri, mentre i figli delle famiglie ricche tendono a diventare ricchi. Lo stesso vale per i risultati scolastici», riassumono gli economisti Zsolt Darvas e Guntram B. Wolff in An Anatomy of Inclusive Growth, l’ultimo rapporto del think tank Bruegel. Secondo i ricercatori la disuguaglianza tra ricchi e poveri ha avuto un impatto nella decisione del Regno Unito di lasciare l’Unione europea: il leave ha vinto proprio dove il divario tra i piani alti della piramide sociale e quelli più bassi era più alto. Una lezione fondamentale che gli altri Paesi europei dovrebbero imparare, mettendo la crescita inclusiva ai primi posti della loro agenda economica, avvertono. Se infatti l’Europa resta il continente più equo a livello sociale, con un tasso di povertà assoluta praticamente inesistente rispetto ad altri Paesi avanzati o emergenti, negli ultimi anni qualcosa è cambiato: «Le disuguaglianze nell’Ue sono calate costantemente dal 1994 al 2008, dopodiché sono rimaste sostanzialmente le stesse». La Grande recessione, insomma, ha bloccato il processo di convergenza e, si legge nel rapporto, è «aumentata la polarizzazione tra Nord e Sud». Darvas e Wolff hanno anche scoperto che in Italia e Spagna c’è una più ampie disparità di reddito e quelle con un maggior numero di giovani senza lavoro. Eppure di fronte a tutto questo, scrivono, «la spesa per le pensioni è stata sostenuta o addirittura aumentata, mentre la spesa per le famiglie e l’istruzione è stata tagliata». Tra il 2009 e il 2012 i governi di Spagna e Italia hanno accresciuto la spesa sociale per gli anziani dell’8% e tagliato del 10% sia i fondi per la famiglia e i bambini sia quelli per l’istruzione. E la distorsione prosegue anche nell’ultima legge di bilancio che destina agli assegni pensionistici lo 0,110% del Pil, contro lo 0,042 per le famiglie, lo 0,048 all’istruzione e lo 0,0028 – per di più nel 2018 – al contrasto della povertà. Un meccanismo di avvitamento che si somma alla viscosità propria delle dinamiche di disuguaglianza forte correlazione tra le regioni che tendono a riprodursi, come una ferita che non si rimargina mai. «Bisognerebbe avere una riforma del sistema scolastico che rompa il meccanismo e che riesca a recuperare chi abbandona il percorso. In Italia però conta molto il peso del sistema di relazioni», osserva con pagina99 Maurizio Franzini, professore di economia politica all’università La Sapienza, e per questo serve un aumento della concorrenza. Quando abbiamo mercati protetti bisogna dirlo: stiamo proteggendo i ricchi. Per Antonio Schizzerotto, professore di sociologia all’università di Trento e tra i massimi esperti italiani di disuguaglianza, c’è un elemento persino più strutturale: «Lo smantellamento della grande industria negli anni Novanta e la successiva riduzione del pubblico impiego hanno diminuito il numero delle posizioni superiori e medie. Così, dalla metà del decennio, la mobilità sociale ascendente è diminuita, mentre è aumentata quella in discesa: senza una nuova politica industriale i figli non possono più aspirare a entrare nelle posizioni di livello medio e superiore nelle quali erano entrati i loro padri semplicemente perché molte di quelle posizioni oggi non esistono più».

Un Paese bloccato e ineguale
L’Italia è storicamente un Paese caratterizzato da forti disparità economiche. Il coefficiente di Gini (dal nome dello statistico italiano Corrado Gini) è l’indice che misura la diseguaglianza nella distribuzione del reddito di una nazione da 0 (reddito uguale per tutti ) a 1 (estrema ineguaglianza), e nel nostro Paese è oggi attorno allo 0,33. Il dato si riferisce alla distribuzione della ricchezza così come appare dopo il prelievo fiscale e dovrebbe dunque porre diversi interrogativi sulla capacità redistributiva del nostro sistema di tassazione. Sono pochi i Paesi europei che hanno valori così alti: considerando la media degli anni tra il 2000 e il 2014, i Paesi scandinavi registrano un coefficiente inferiore a 0,26, la Francia è poco al di sopra, la Germania è sotto il limite dello 0,31. Le uniche grandi nazioni europee con valori maggiori o uguali a 0,33 sono la Gran Bretagna e l’Italia, affiancate dai Paesi baltici, Grecia e Portogallo. Dietro ai numeri, però, ci sono fenomeni differenti. In certi casi la mobilità sociale può essere indipendente dal livello di diseguaglianza: una generazione di figli può stare meglio o peggio di quella dei padri. Sono molti i fattori che determinano questi diversi scenari. Il primo è legato alle dinamiche di crescita di un Paese, ma ci sono anche altre cause. Maurizio Franzini, docente di politica economica alla Sapienza di Roma e studioso del fenomeno spiega a Pagina99 che «il principale canale di collegamento tra origini famigliari e successo è l’istruzione. Ma la componente che non si spiega con l’istruzione è legata a quelle che vengono definite soft skill, cioè le “abilità comportamentali” sempre più importanti che si imparano soprattutto in famiglia come la capacità di relazionarsi con gli altri o di essere leader: queste sembrano avere un ruolo maggiore nel Regno Unito. Per l’Italia e la Spagna invece vale soprattutto il network di relazioni famigliari che può portare a posti di lavoro maggiormente remunerati: un meccanismo di avvitamento che ostacola la mobilità».


L’1% finanza, manifattura, hi-tech
Nell’Unione europea la maggioranza dei lavoratori del settore finanziario, dell’information technology, delle professioni e dell’industria dell’e nergia appartiene all’1% della popolazione con il reddito più alto. Ma tra i più ricchi c’è anche un’ampia fetta di coloro che lavorano nel settore manifatturiero, in Germania la manifattura pesa addirittura per il 34% nella composizione dell’1% più facoltoso. Con buona pace degli apocalittici, la conclusione dello studio realizzato da Bruegel è che lo sviluppo tecnologico non è il motore della disuguaglianza. Anche se la sfida dell’automazione richiederà sicuramente una adeguata risposta educativa, i dati mostrano infatti che in diversi Paesi europei, Italia compresa, per il mercato del lavoro le potenzialità dell’innovazione tecnologica superano i rischi. «Sebbene», scrivono i ricercatori, «la transizione tecnologica tenda a favorire chi ha maggiori competenze è difficile scorgere nei dati un contributo nell’aumentare i premi salariali e quindi le disuguaglianze di reddito. Altri fattori come la redistribuzione, le politiche educative o la regolazione delle professioni sono più importanti». Interventi fiscali, dunque, un accesso equo all’istruzione e liberalizzazioni. «È chiaro», osserva Franzini, «che i mercati protetti non sono solo le professioni, anche in settori tradizionali come la manifattura vi è una perversa presenza pubblica che negli appalti favorisce sempre le stesse aziende, come accade in Italia per le infrastrutture».

Solo uno su dieci sta meglio di papà
Un buon indicatore della scarsa mobilità sociale di molti Paesi dell’Europa del Sud è il passaggio a un livello di istruzione superiore da una generazione all’altra. Il think tank Bruegel ha confrontato i dati del 2011 relativi alla popolazione tra i 29 e i 54 anni, i nati tra il 1957 e il 1982, cioè le coorti successive alla generazione che ha beneficiato di più del boom economico. Su 100 figli di genitori con un livello basso di istruzione, in Italia e Spagna 50 si posizionano allo stesso livello dei padri contro il 40 della Germania e il 20 della Francia. Nel nostro Paese solo quaranta riescono a ottenere un livello medio di istruzione e solo dieci raggiungono un’istruzione più alta. Su dieci figli di operai che vogliono farei dottori, per rimanere alla semplificazione, uno su dieci ce la fa. Il dato corrisponde più o meno al tasso di riduzione della disuguaglianza che l’Italia ha registrato nel ventesimo secolo. «Malgrado i suoi ancora elevati livelli di ereditarietà sociale nella sfera educativa e, ancor più, in quella occupazionale, l’Italia ha fatto registrare nel corso del Novecento un declino del peso delle origini sociali sui destini lavorativi delle persone di circa il 40%. Il problema vero oggi è la direzione della mobilità intergenerazionale: mentre negli anni ‘60-‘70 era ascendente oggi è discendente », spiega Antonio Schizzerotto. Nel 2002, in Vite Diseguali, il professore già spiegava «che in Italia le disuguaglianze intergenerazionali stavano diventando più importanti di quelle pur consistenti tra i generi».

Più sei qualificato meno guadagni

Avere un profilo professionale altamente qualificato in Italia non paga. Il nostro Paese apparentemente smentisce anche i principi di mercato: negli altri Stati Ocse, dicono i dati di Bruegel, più è alta la quota degli occupati con un livello di istruzione terziaria, più si abbassa il premio salariale associato alle loro competenze. Da noi invece i lavoratori con un alto livello di istruzione sono meno numerosi che in ogni altro Paese europeo, Grecia compresa, eppure offriamo loro un premio salariale molto basso. Questa eccezione, secondo Schizzerotto è dovuta a un sistema produttivo mal congegnato, fatto soprattutto di piccole e medie imprese, insomma a una mancanza di domanda di lavoro qualificato associata a un’istruzione terziaria esclusivamente accademica. Un problema strutturale che la politica, secondo il professore, fa fatica a recepire. In molti Paesi europei tra il 1995 e il 2009 la paga dei lavoratori cosiddetti high skilled è cresciuta meno di quella dei lavoratori meno qualificati. Ma in Italia è andata peggio: sono cresciuti solo i salari dei lavoratori di qualificazione media, mentre il calo della paga oraria dei lavoratori high skilled è stato molto più consistente che per i lavoratori meno qualificati. La ricerca mostra che questa transizione è associata statisticamente al tasso di disoccupazione dei lavoratori più istruiti: dove è maggiore il riconoscimento salariale nei confronti di coloro che hanno acquisito nel percorso formativo maggiori competenze, ci sono meno disoccupati. Dove invece il riconoscimento salariale è più basso, come in Italia, anche i livelli di disoccupazione crescono.