Pagina
99 5.11.2016
Nell
’Italia immobile dove chi nasce povero resta povero
Indagine
| La crescita inclusiva è sparita dall’agenda dei governi europei.
E il nostro Paese è quello con il divario più ampio: i figli di
famiglie ricche e istruite hanno molte più possibilità di carriera
e benessere rispetto ai meno abbienti
di
Giovanna Faggionato
«Quando
ti vien voglia di criticare qualcuno», mi disse, «ricordati che non
tutti a questo mondo hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu». C’è
una sottile crudeltà nell’in -cipit che Francis Scott Fitzgerald
ha dato al romanzo che racconta il lusso e la vacuità, e la stessa
crudeltà si ritrova nella funzione che da quel romanzo ha preso il
nome: la curva del Grande Gatsby mostra quanto sia forte nei diversi
Paesi il grado di correlazione tra disuguaglianza dei redditi e
mobilità sociale e cioè quanto le disuguaglianze tra il reddito dei
genitori influenzino la capacità dei figli di migliorare la loro
posizione. A guardarla si scopre che l’Italia è, dopo Gran
Bretagna e Stati Uniti, il Paese in cui il divario iniziale influenza
maggiormente il destino sociale, la nazione in cui il figlio
dell’operaio ha meno probabilità di diventare dottore. «Una
maggiore disuguaglianza di reddito è associata a meno mobilità
intergenerazionale: i figli di famiglie povere tendono a diventare
poveri, mentre i figli delle famiglie ricche tendono a diventare
ricchi. Lo stesso vale per i risultati scolastici», riassumono gli
economisti Zsolt Darvas e Guntram B. Wolff in An Anatomy of Inclusive
Growth, l’ultimo rapporto del think tank Bruegel. Secondo i
ricercatori la disuguaglianza tra ricchi e poveri ha avuto un impatto
nella decisione del Regno Unito di lasciare l’Unione europea: il
leave ha vinto proprio dove il divario tra i piani alti della
piramide sociale e quelli più bassi era più alto. Una lezione
fondamentale che gli altri Paesi europei dovrebbero imparare,
mettendo la crescita inclusiva ai primi posti della loro agenda
economica, avvertono. Se infatti l’Europa resta il continente più
equo a livello sociale, con un tasso di povertà assoluta
praticamente inesistente rispetto ad altri Paesi avanzati o
emergenti, negli ultimi anni qualcosa è cambiato: «Le
disuguaglianze nell’Ue sono calate costantemente dal 1994 al 2008,
dopodiché sono rimaste sostanzialmente le stesse». La Grande
recessione, insomma, ha bloccato il processo di convergenza e, si
legge nel rapporto, è «aumentata la polarizzazione tra Nord e Sud».
Darvas e Wolff hanno anche scoperto che in Italia e Spagna c’è una
più ampie disparità di reddito e quelle con un maggior numero di
giovani senza lavoro. Eppure di fronte a tutto questo, scrivono, «la
spesa per le pensioni è stata sostenuta o addirittura aumentata,
mentre la spesa per le famiglie e l’istruzione è stata tagliata».
Tra il 2009 e il 2012 i governi di Spagna e Italia hanno accresciuto
la spesa sociale per gli anziani dell’8% e tagliato del 10% sia i
fondi per la famiglia e i bambini sia quelli per l’istruzione. E la
distorsione prosegue anche nell’ultima legge di bilancio che
destina agli assegni pensionistici lo 0,110% del Pil, contro lo 0,042
per le famiglie, lo 0,048 all’istruzione e lo 0,0028 – per di più
nel 2018 – al contrasto della povertà. Un meccanismo di
avvitamento che si somma alla viscosità propria delle dinamiche di
disuguaglianza forte correlazione tra le regioni che tendono a
riprodursi, come una ferita che non si rimargina mai. «Bisognerebbe
avere una riforma del sistema scolastico che rompa il meccanismo e
che riesca a recuperare chi abbandona il percorso. In Italia però
conta molto il peso del sistema di relazioni», osserva con pagina99
Maurizio Franzini, professore di economia politica all’università
La Sapienza, e per questo serve un aumento della concorrenza. Quando
abbiamo mercati protetti bisogna dirlo: stiamo proteggendo i ricchi.
Per Antonio Schizzerotto, professore di sociologia all’università
di Trento e tra i massimi esperti italiani di disuguaglianza, c’è
un elemento persino più strutturale: «Lo smantellamento della
grande industria negli anni Novanta e la successiva riduzione del
pubblico impiego hanno diminuito il numero delle posizioni superiori
e medie. Così, dalla metà del decennio, la mobilità sociale
ascendente è diminuita, mentre è aumentata quella in discesa: senza
una nuova politica industriale i figli non possono più aspirare a
entrare nelle posizioni di livello medio e superiore nelle quali
erano entrati i loro padri semplicemente perché molte di quelle
posizioni oggi non esistono più».
Un
Paese bloccato e ineguale
L’Italia
è storicamente un Paese caratterizzato da forti disparità
economiche. Il coefficiente di Gini (dal nome dello statistico
italiano Corrado Gini) è l’indice che misura la diseguaglianza
nella distribuzione del reddito di una nazione da 0 (reddito uguale
per tutti ) a 1 (estrema ineguaglianza), e nel nostro Paese è oggi
attorno allo 0,33. Il dato si riferisce alla distribuzione della
ricchezza così come appare dopo il prelievo fiscale e dovrebbe
dunque porre diversi interrogativi sulla capacità redistributiva del
nostro sistema di tassazione. Sono pochi i Paesi europei che hanno
valori così alti: considerando la media degli anni tra il 2000 e il
2014, i Paesi scandinavi registrano un coefficiente inferiore a 0,26,
la Francia è poco al di sopra, la Germania è sotto il limite dello
0,31. Le uniche grandi nazioni europee con valori maggiori o uguali a
0,33 sono la Gran Bretagna e l’Italia, affiancate dai Paesi
baltici, Grecia e Portogallo. Dietro ai numeri, però, ci sono
fenomeni differenti. In certi casi la mobilità sociale può essere
indipendente dal livello di diseguaglianza: una generazione di figli
può stare meglio o peggio di quella dei padri. Sono molti i fattori
che determinano questi diversi scenari. Il primo è legato alle
dinamiche di crescita di un Paese, ma ci sono anche altre cause.
Maurizio Franzini, docente di politica economica alla Sapienza di
Roma e studioso del fenomeno spiega a Pagina99 che «il principale
canale di collegamento tra origini famigliari e successo è
l’istruzione. Ma la componente che non si spiega con l’istruzione
è legata a quelle che vengono definite soft skill, cioè le “abilità
comportamentali” sempre più importanti che si imparano soprattutto
in famiglia come la capacità di relazionarsi con gli altri o di
essere leader: queste sembrano avere un ruolo maggiore nel Regno
Unito. Per l’Italia e la Spagna invece vale soprattutto il network
di relazioni famigliari che può portare a posti di lavoro
maggiormente remunerati: un meccanismo di avvitamento che ostacola la
mobilità».
L’1%
finanza, manifattura, hi-tech
Nell’Unione
europea la maggioranza dei lavoratori del settore finanziario,
dell’information technology, delle professioni e dell’industria
dell’e nergia appartiene all’1% della popolazione con il reddito
più alto. Ma tra i più ricchi c’è anche un’ampia fetta di
coloro che lavorano nel settore manifatturiero, in Germania la
manifattura pesa addirittura per il 34% nella composizione dell’1%
più facoltoso. Con buona pace degli apocalittici, la conclusione
dello studio realizzato da Bruegel è che lo sviluppo tecnologico non
è il motore della disuguaglianza. Anche se la sfida dell’automazione
richiederà sicuramente una adeguata risposta educativa, i dati
mostrano infatti che in diversi Paesi europei, Italia compresa, per
il mercato del lavoro le potenzialità dell’innovazione tecnologica
superano i rischi. «Sebbene», scrivono i ricercatori, «la
transizione tecnologica tenda a favorire chi ha maggiori competenze è
difficile scorgere nei dati un contributo nell’aumentare i premi
salariali e quindi le disuguaglianze di reddito. Altri fattori come
la redistribuzione, le politiche educative o la regolazione delle
professioni sono più importanti». Interventi fiscali, dunque, un
accesso equo all’istruzione e liberalizzazioni. «È chiaro»,
osserva Franzini, «che i mercati protetti non sono solo le
professioni, anche in settori tradizionali come la manifattura vi è
una perversa presenza pubblica che negli appalti favorisce sempre le
stesse aziende, come accade in Italia per le infrastrutture».
Solo
uno su dieci sta meglio di papà
Un
buon indicatore della scarsa mobilità sociale di molti Paesi
dell’Europa del Sud è il passaggio a un livello di istruzione
superiore da una generazione all’altra. Il think tank Bruegel ha
confrontato i dati del 2011 relativi alla popolazione tra i 29 e i 54
anni, i nati tra il 1957 e il 1982, cioè le coorti successive alla
generazione che ha beneficiato di più del boom economico. Su 100
figli di genitori con un livello basso di istruzione, in Italia e
Spagna 50 si posizionano allo stesso livello dei padri contro il 40
della Germania e il 20 della Francia. Nel nostro Paese solo quaranta
riescono a ottenere un livello medio di istruzione e solo dieci
raggiungono un’istruzione più alta. Su dieci figli di operai che
vogliono farei dottori, per rimanere alla semplificazione, uno su
dieci ce la fa. Il dato corrisponde più o meno al tasso di riduzione
della disuguaglianza che l’Italia ha registrato nel ventesimo
secolo. «Malgrado i suoi ancora elevati livelli di ereditarietà
sociale nella sfera educativa e, ancor più, in quella occupazionale,
l’Italia ha fatto registrare nel corso del Novecento un declino del
peso delle origini sociali sui destini lavorativi delle persone di
circa il 40%. Il problema vero oggi è la direzione della mobilità
intergenerazionale: mentre negli anni ‘60-‘70 era ascendente oggi
è discendente », spiega Antonio Schizzerotto. Nel 2002, in Vite
Diseguali, il professore già spiegava «che in Italia le
disuguaglianze intergenerazionali stavano diventando più importanti
di quelle pur consistenti tra i generi».
Più
sei qualificato meno guadagni
Avere
un profilo professionale altamente qualificato in Italia non paga. Il
nostro Paese apparentemente smentisce anche i principi di mercato:
negli altri Stati Ocse, dicono i dati di Bruegel, più è alta la
quota degli occupati con un livello di istruzione terziaria, più si
abbassa il premio salariale associato alle loro competenze. Da noi
invece i lavoratori con un alto livello di istruzione sono meno
numerosi che in ogni altro Paese europeo, Grecia compresa, eppure
offriamo loro un premio salariale molto basso. Questa eccezione,
secondo Schizzerotto è dovuta a un sistema produttivo mal
congegnato, fatto soprattutto di piccole e medie imprese, insomma a
una mancanza di domanda di lavoro qualificato associata a
un’istruzione terziaria esclusivamente accademica. Un problema
strutturale che la politica, secondo il professore, fa fatica a
recepire. In molti Paesi europei tra il 1995 e il 2009 la paga dei
lavoratori cosiddetti high skilled è cresciuta meno di quella dei
lavoratori meno qualificati. Ma in Italia è andata peggio: sono
cresciuti solo i salari dei lavoratori di qualificazione media,
mentre il calo della paga oraria dei lavoratori high skilled è stato
molto più consistente che per i lavoratori meno qualificati. La
ricerca mostra che questa transizione è associata statisticamente al
tasso di disoccupazione dei lavoratori più istruiti: dove è
maggiore il riconoscimento salariale nei confronti di coloro che
hanno acquisito nel percorso formativo maggiori competenze, ci sono
meno disoccupati. Dove invece il riconoscimento salariale è più
basso, come in Italia, anche i livelli di disoccupazione crescono.