domenica 6 novembre 2016

Pagina 99 5.11.2016
Oltre l’uomo e la donna.
Le identità di genere si vanno ridefinendo. Racconto di una rivoluzione verso un mondo
post- gender
Tendenze | Sta evaporando la distinzione tra maschile e femminile. E nascono nuove identità ibride. Storie di un cambiamento epocale
di Anna Momigliano

Quando ho organizzato la festa di compleanno per mia figlia, sei anni, la mia priorità era evitare che si ripetesse quanto accaduto nell’edizione precedente, quando un’orda di bambini esagitati aveva distrutto un castello delle principesse Disney in mattoncini Lego faticosamente assemblato. Quanto a lei, aveva altre preoccupazioni: il castello andava sì nascosto, m’ha spiegato, ma perché un suo compagno di classe «che ama tutte le cose con le principesse e da grande vuole mettersi la gonna» avrebbe potuto rubarlo. Da genitore di sinistra, cioè non al passo coi tempi, ho avvertito la necessità di un intervento educativo: «E tu lo sai, tesoro, che è sbagliato prendere in giro i maschi che si vestono da femmina?».Mia figlia m’ha guardata storto: «Che cosa stupida hai detto, mamma, a chi salterebbe in mente di prendere in giro qualcuno per questo? ». Seguendo le elezioni americane sulla stampa anglofona, ho notato una domanda ricorrente: l’elezione di Hillary Clinton porterebbe a una “società post-gender”? L’idea di un mondo “post-gender”, dove la differenza tra maschi e femmine sarà superata, non è nuova, ma ha assunto una rilevanza maggiore negli ultimi anni, in vari contesti assai diversi fra loro: si va dalla partecipazione delle donne in politica e nel mondo del lavoro ai diritti delle persone transgender, dalla ridefinizione dei ruoli “maschili” e “femminili” in termini di diritti e doveri, a chi invece sceglie di non identificarsi in nessuna di queste due categorie, fino ai genitori che si sforzano di non imporle ai loro figli. Davvero, in Occidente, stiamo andando verso una società dove la distinzione tra uomo e donna è destinata a diventare obsoleta? Nel dibattito politico statunitense di questi mesi, il termine “post- gender” si riferisce a una società dove il sessismo – più che altro: la disparità tra uomini e donne quanto a peso nella sfera pubblica – si sta gradualmente riducendo, con la speranza che un giorno scompaia del tutto. Quando si parla di una “società post-gender” a proposito di un possibile approdo di Hillary Clinton alla Casa Bianca, si ripete la stessa discussione avvenuta otto anni fa con Barack Obama, quando ci si domandava se la sua elezione fosse il segnale d’ingresso in una società “post-razziale”. L’obiettivo non è il superamento di un’identità (“bianco” o “nero”, “uomo” o “donna”) ma degli ostacoli che a volte essa comporta. Infatti, nella sua corsa al potere, Hillary ha rivendicato la sua identità femminile come pochi altri leader donna, a cominciare da Margaret Thatcher e Angela Merkel, hanno fatto prima di lei. Il paradosso, almeno in apparenza, è che, proprio mentre alcune spinte verso una società “post- gender” passano da una richiesta di maggiore spazio per le donne in quanto donne, insomma da un orgoglio di genere, all’interno del mondo progressista aumentano le voci secondo cui il “g enere” è un concetto da superare. O se non altro da affrontare in termini meno rigidi. C’è chi si ribella all’idea che le persone debbano per forza essere catalogate in un sistema binario e inalterabile: o “maschio” o “femmina”. Tra questi, alcuni “transgender,” cioè individui che scelgono un’identità di genere diversa rispetto al sesso biologico; ed alcuni “intersex”, persone nate con caratteristiche fisiche e genetiche di entrambi i sessi: finora la prassi è stata quella di “correggere” la condizione d’intersessualità con operazioni chirurgiche, spesso effettuate alla nascita; ma adesso, anche in Italia, comincia a farsi avanti un movimento di individui che chiedono il diritto di mantenere la loro identità “i ntersex” senza interventi d’ufficio. Perché, in fondo, chi l’ha detto che bisogna per forza essere maschio o femmina? (È un dossier delicato, che tocca anche la salute: ve ne parliamo in un altro pezzo). Altri, poi, vedono l’identità di genere come un costrutto troppo rigido: così c’è chi vorrebbe un mondo “gender-neutral,” dove nulla, dai bagni pubblici al vestiario, sia più etichettato “per maschi” o “per femmine;” oppure chi cresce i figli in modo “neutro”, senza dare loro un’identità di genere, per esempio facendo scegliere ai maschietti se indossare un vestitino o i pantaloni (anche a questo dedichiamo un articolo). Verrebbe da pensare che sono casi molto specifici, situazioni minoritarie che per il momento riguardano poco la società più vasta. Quante persone, in fondo, si definiscono trans o intersex? E quanti genitori incoraggiano i bambini maschi a indossare una gonna? Si potrebbe aggiungere che il tema del “pos t - gender” è troppo vago, tiene insieme cose lontane tra loro. In fondo, che cosa c’entra il superamento del binomio maschio-femmina con il fatto che le donne stanno ottenendo sempre più spazi nella vita pubblica? Forse però tutte queste storie, apparentemente lontane fra loro, sono tasselli dello stesso puzzle, e toccano tasti che ci riguardano tutti, un cambiamento nella società che, per quanto graduale, è di portata epocale: stanno evaporando, per un certo verso, le distinzioni fra maschio e femmina. E la cosa, che piaccia omeno, va ben oltre il movimento, minoritario, del “post-gender”. Qualche tempo fa ho visto un video caricato su YouTube dalla campagna di “no gender”, quel movimento di genitori italiani che si oppongono ad alcune attività svolte nelle scuole per educare i bambini alla diversità (per loro la parola “gender”, o “ideologia gender”, indica qualsiasi attività educativa che non presenti la famiglia tradizionale come unico modello). Il video si concludeva con la minaccia che, se andremo avanti così, «vostro figlio penserà che da grande potrà mettere il rossetto e vostra figlia vorrà guidare un camion». La cosa mi ha fatto sorridere, perché mentre davo per scontata l’idea che l’italiano medio consideri “strano” per un maschio mettersi il lucidalabbra, nemmeno mia nonna, che pure è una signora all’antica, si sognerebbe di dire che le donne non possono guidare gli automezzi pesanti. I “no gender”, ho pensato, sono talmente fuori dal mondo da non sapere distinguere cosa è “da maschi” e “da femmine” secondo dei canoni non dico progressisti, ma borghesi. Io mi sono sempre considerata una madre tradizionalista, più per pigrizia che per altro: compro Barbie, principesse Disney e tutte quelle cose sberluccicose che fanno orrore ai “gender-neutral”, poi però quando mia figlia mi ha detto che da grande vuole fare il benzinaio, le ho risposto che era una bellissima idea. In realtà, per paradosso, gli autori della campagna avevano capito, molto prima di me, che esiste una continuità tra alcune posizioni apparentemente marginali e ciò che chiamiamo “modernità.” Nell’ultimo secolo la società occidentale ha attraversato quella che il sociologo britannico Rogers Brubaker ha definito una «riconfigurazione dell’o rdine di genere»: le donne si sono appropriate di molte cose che prima consideravamo appannaggio degli uomini, dall’indossare pantaloni al diritto di voto, e (per il momento in misura minore) gli uomini sono entrati in sfere prima considerate femminili, come il cambio dei pannolini. Non è un processo concluso, ma un’evoluzione in corso che negli ultimi decenni ha subito un’accelerazione, e che nei decenni a venire potrebbe fare irrompere nel mainstream scelte, posizioni e comportamenti che oggi sembrano minoritari. Quei genitori ultra-progressisti che mettono le gonne ai figli maschi sono poi così diversi dagli altri? In fondo, la stragrande maggioranza delle famiglie occidentali stanno già educando le loro figlie secondo canoni che qualche decennio fa sarebbero stati visti come poco conformi all’idea di femminilità, ma che oggi troviamo normalissimi. L’ingresso delle donne nella sfera pubblica non può essere scisso dal fatto che sta cambiando la nostra idea di cosa significhi essere maschio o femmina, e la distinzione tra maschio e femmina sta diventando sempre più marginale. Brubaker, che pure guarda con sospetto l’idea di una società “al di là del genere”, dice che però sotto alcuni aspetti stiamo già andando in quella direzione: «La visione di una vita al di là del genere, avanzata da alcuni attivisti trans e da alcune femministe èancora un po’ vaga, ma si potrebbe dire che in un mondo “post-gender”, il genere perderà il suo ruolo centrale nella distribuzione di diritti e altre forme di rispetto, nell’organizzazione e nella divisione del lavoro, nel dare forma a cosa sia appropriato pensare, sentire o fare» dice a pagina99. «Ovviamente non siamo lontanamente vicini ad aver raggiunto questo modello, e ho qualche dubbio che ci arriveremo mai. Però va detto che nell’ultimo secolo le società occidentali si sono mosse, in un certo senso, in quella direzione. Il genere è già diventato meno determinante nello stabilire chi può ottenere cosa, e chi ha il diritto di fare certe cose».



Maschio o femmina? deciderà da grande
Gender neutral | Si moltiplicano le famiglie che non impongono ai bambini gonne o pantaloni.
E bandiscono dal lessico “signorina” e “ometto”
di Flavia Gasperetti

Allora, la buona notizia è che Papa Bergoglio e i vescovi più allarmisti avevano ragione: la perfida ideologia del gender è al lavoro, signori, e vuole i/le vostr@ figli@. Magari stavate ancora lì a cercare di chiarirvi se il gender sia meglio o peggio dell’Isis, ma non importa, non è più tempo di fare le pulci alla minaccia, di rubricare e incasellare. Il gender, avanza, inesorabile, e vuole liberare le nuove generazioni dalla dittatura del rosa e dell'azzurro, delle principesse, dei tutù, e dei loro equivalenti maschili che ora su due piedi non mi vengono in mente – stavo per dire “cowboy”, ma temo che questo riveli solo lo status di nullipara della sottoscritta, e così la sua età avanzata e lo scarso spirito di osservazione. I segnali dell'imminente apocalisse sono ovunque e sono globali: la nuova parola d'ordine è gender neutral. Dall'agosto del 2015, il colosso americano della grande distribuzione Target ha smesso di utilizzaredesignazioni gender-specific per identificare i giocattoli destinati a bambini e bambine, a ruota hanno seguito i Disney Store, Amazon e Mattel. I canadesi, nella loro smania di essere sempre i primi della classe hanno addirittura emendato il loro inno nazionale per renderlo più inclusivo: il terzo verso, in cui si celebrava l'amore patriottico dei 'figli' (maschi) della nazione, è stato rimpiazzato con un generico 'noi' pigliatutto. A spalancare le porte all'avanzata del neutro, si direbbe, sono in molti casi proprio i genitori. Famiglie dove, semplicemente, si sceglie di non imporre ai bambini tutto l'indotto materiale e psicologico che pare concepito al fine esclusivo di femminilizzare le bambine e mascolinizzare I maschi. L’educazione gender-neutral, leggiamo sui numerosi siti dedicati, nella sua accezione più diffusa propone di mettere a disposizione dei bambini giocattoli di qualsiasi tipo, facendo scegliere a loro. Stesso discorso vale per i vestiti, la lunghezza dei capelli, le attività sportive. C'è chi si spinge più in là. Ci sono coppie che addiritturaevitano di comunicare ad amici e parenti il sesso biologico della loro prole fino al raggiungimento dell'età scolare, perché si sa, per crescere un bambino ci vuole un villaggio e qualsiasi progetto neutral-utopistico parte male se il villaggio è pieno di nonne e zii che ti stordiscono a forza di “bella signorinella” e “ti stai facendo proprio un ometto”. Va detto che di queste famiglie visionarie si legge quasi sempre solo sulla stampa estera, e viene da chiedersi se a Cambridge o nel Quebec le nonne siano un po' più discrete che qui, perché sono certa che la mia, di nonna, in nessun modo si sarebbe trattenuta dal dare una sbirciata all'interno del mio pannolone alla prima opportunità. In un non trascurabile rispetto, gli anglofoni sono avvantaggiati: liberi dal determinismo linguistico della finale -a, e -o, possono con più facilità assegnare nomi neutri alle loro creature gender-free. È una tendenza piuttosto diffusa, l'anno scorso negli Stati Uniti i nomi unisex più popolari sono stati Hayden (39% bambine e 61% maschi), Charlie (che pare da maschio, sì, ma il 48% dei Charlie del 2015 è femmina) e Emerson. Sul NewYork Times troviamo anche un piccolo vademecum per guidare nella scelta del nome gender neutral, cognomi di personaggi celebri, nomi di alberi o di luoghi, per esempio, sono tutti neutri pronti all'uso e alcuni, come Dakota e Phoenix, già molto popolari. Leggo queste statistiche e mi chiedo fino a che punto possiamo aprirci al trend anche qui in Italia. E non perché ai miei contemporanei con figli manchino la creatività sguaiata e un totale sprezzo per i rancori futuri della loro discendenza, anzi – ma noi il neutro non ce l'abbiamo, nemmeno per i nomi comuni di fiori e alberi. Se anche potessimo raccogliere gli spunti offerti dal New York Times, davvero ne avremmo il coraggio? Siamo pronti a chiamare i nostri figli post-gender Fiesole o Pertini? Magari Hibiscus? Ma soprattutto, poi, a nonna chi glielo dice?

GLOSSARIO DELLA NUOVA SESSUALITÀ
Transgender
Individui nati con un sesso biologico bene definito ma che si identificano nel genere opposto. Uomini che si sentono donne e viceversa. In molti stanno chiedendo di cambiare i documenti di identità. Alcuni (ma non tutti) si sottopongono a un’operazione, nota come “gender restauration” o ripristino del genere, come a dire che quello con cui si identificano è quello “giusto”. In diversi Paesi è necessaria una diagnosi psichiatrica prima di effettuare fare questo intervento: l’identificarsi con un genere diverso da quello fisico è (ancora) considerata una malattia mentale.
Gender fluid
Chi si riconosce in questa definizione non si sente né maschio né femmina, né etero né gay o bisessuale. I gender fluid hanno appunto una concezione “fluida” del genere, tale per cui un giorno si sentono uomini, un altro donne, un altro ancora nessuno dei due. Ritengono che avere un’identità di genere costante nel tempo non faccia al caso loro e possa diventare opprimente. Come la personalità, dicono, il genere cambia nel tempo.
Non-binary
indica tutto ciò che non rientra nella distinzione binaria tra maschio e femmina. Include quindi i gender fluid ma anche quelle persone che si definiscono come “agender”, cioè che sostengono di non identificarsi in alcun genere. Anche alcuni transgender si identificano come non-binary; altri invece dicono di sentire fortemente l’appartenenza a un genere specifico anche se non è quello della nascita.
Gender neutral
È una filosofia di vita, e soprattutto educativa, basata sull’eliminazione dei connotati “maschili” o “femminili” dalla vita quotidiana. Un genitore che segue questo approccio, per esempio, lascia scegliere al proprio figlio maschio, fin da piccolissimo, se indossare gonna o pantaloni. L’idea è non imporre un’identità di genere – e in alcuni casi che l’identità di genere sia qualcosa da tenere sottotraccia il più possibile.
Post-gender
Corrente di pensiero che trova le sue radici nel movimento femminista anni ’70: l’idea è che stiamo andando (o dovremmo farlo) verso una società in cui la distinzione tra maschio e femmina e la divisione binaria di genere saranno superate. Il principio ricalca quello di una società post-razziale, dove il colore della pelle non conterà più. In un certo senso, se paragoniamogli standard attuali alla rigidità di solo due generazioni fa, siamo già un po’ post-gender.
Intersex
Coloro che, dalla nascita, hanno un fenotipo non corrispondente al genotipo: per esempio un corredo cromosomico maschile (XY) e genitali esterni femminili, o forme di mosaicismo, cioè di compresenza di organi sessuali periferici maschili e femminili. Casi diversi, un tempo riassunti genericamente nel termine di ermafroditsmo, oggi codificati dalla medicina che individua decine di forme differenti di intersessualità, definendole “disturbi della determinazione e della differenziazione sessuale”.