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99 19.11.2016
e
ora sorge un dubbio,
avevano
ragione i no global?
Provocazioni
| Scesero in piazza contro la globalizzazione senza regole. Furono
sconfitti.
Ma il crollo del 2008, la rabbia della classe media e Trump riaprono
la
discussione. La sinistra saprà difendere un mondo aperto ma più
giusto?
Di
Gabriella
Colarusso e Roberta Paolini
Nella
notte italiana tra l’8 e il 9 novembre 2016 Donald Trump è
diventato presidente degli Stati Uniti. La sua vittoria coincide con
un anniversario fondamentale per l’Occidente, il 9 novembre 1989,
il momento in cui la democrazia liberale e il capitalismo
globalizzato sembravano aver definito il nuovo ordine mondiale.
L’elezione di Trump, 27 anni dopo, torna a far parlare di muri.
Ideologici,di cemento e filo spinato. Soprattutto, economici.
Americanism, not globalism will be our credo (l’America, non la
globalizzazione sarà il nostro credo, ndr), ha dichiarato il
neopresidente in campagna elettorale,deriva protezionistica di una
narrazione del mondo che ha nel populismo l’eredità
dell’anti-globalizzazione. L’Economist lo scriveva qualche mese
fa, con una copertina in cui un grande crepaccio divideva due modi e
mondi di fare politica: The new political divide, il nuovo
bipolarismo nei Paesi avanzati non è più tra destra e sinistra, ma
tra aperto e chiuso. Il patriottico si contrappone al globale. Il
movimento di critica alla globalizzazione partito alla fine degli
anni Novanta con gli scontri di Seattle, poi esploso anche in Europa,
in Francia prima e in Italia dopo, è stato sconsideratamente
ignorato per quasi 17 anni. La sinistra non ha saputo raccoglierne le
istanze, lasciando che i temi su cui era nato –la critica al
capitalisme sauvage e alle diseguaglianze crescenti – diventassero
nutrimento per i populismi. Com’è potuto accadere?
Le
responsabilità di Bill Clinton
Fu
Bill Clinton, nel 1999, a far cadere la separazione tra attività
bancaria tradizionale e investment banking, con l’abolizione del
Glass-Steagall Act, accelerando un lungo processo di
deregolamentazione finanziaria che per molti analisti è stato alla
base di quello che è accaduto nel 2008 con la crisi dei mutui
subprime. Nello stesso anno a Seattle iniziarono le prime
manifestazioni contro la globalizzazione senza regole. Gli occhi dei
contestatori erano puntati sullo sfruttamento dei Paesi emergenti,
sul divario tra Stati ricchi e poveri. Con l’11 settembre calò il
sipario sul movimento. La paura del terrorismo venne coperta, per
dirlo alla Naomi Klein, staccando una serie di assegni in bianco. E
nel 2003 l’invasione dell’Iraq spostò definitivamente
l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale sulla lotta al
terrore. Quello che non avevano capito, i ragazzi di Seattle e di
Genova, era che l’onda della globalizzazione non avrebbe
accresciuto le disuguaglianze nel mondo, ma avrebbe, piuttosto,
aumentato le disparità sociali all’interno dei singoli Paesi.
Branko Milacovic, economista della Banca Mondiale, ha fotografato il
fenomeno: la globalizzazione ha ridotto le diseguaglianze e la
povertà a livello mondiale, consentendo a milioni di persone di
accedere a un benessere prima sconosciuto, ma ha fatto guadagnare
solo una parte della popolazione del pianeta, l’1% più ricco e le
middle classes asiatiche, mentre in Occidente la classe media ha
invece visto progressivamente erodersi il proprio reddito. Tutto ciò
è avvenuto senza che le leadership politiche in Europa e negli Stati
Uniti ne comprendessero le conseguenze. Neppure dopo il settembre
2008, quando la crisi finanziaria dei subprime ha costretto gli Usa a
varare un piano di salvataggio monstre del sistema bancario: più di
700 miliardi di dollari di soldi pubblici. Da allora e fino al 2012,
secondo una ricerca dell’economista di Berkeley, Emmanuel Saez, in
America il 95% dell’aumento del reddito è andato all’1% dei più
ricchi. Nel 2011 nacque Occupy Wall Street, ma il movimento di
Zuccotti Park era diverso da quello No global: denunciava le
crescenti diseguaglianze, la mobilità sociale pressoché nulla,
l’indebitamento selvaggio. Il protagonista era la classe media
impoverita. Di nuovo, la sinistra non riuscì a tradurre la protesta
in proposta politica. E nel vuoto lasciato sono cresciute nuove
retoriche populiste e di destra. Il disagio della classe media Un
think tank svedese, Timbro, ha stilato un indice dei movimenti
populisti e autoritari in Europa. Nei 33 Paesi che compongono
l’indice emerge che i rappresentanti dei partiti illiberali e/o
antidemocratici detengono quasi un quinto dei mandati nei parlamenti
europei. Finché questi movimenti saranno gli unici a dare voce agli
elettori su temi come l’immigrazione e la globalizzazione, i
partiti populisti continueranno a crescere. È quello che è avvenuto
anche negli Stati Uniti. Nelle ore successive alla vittoria di Trump,
uno dei suoi consiglieri economici, il venture capitalist Anthony
Scaramucci, ha scritto sul Financial Times che il nuovo presidente
affronterà il problema della disparità dei redditi dopo 16 anni di
«politica fallimentare», sia dei repubblicani che dei democratici.
George W. Bush è stato responsabile, secondo Scaramucci, del deficit
per l’ingente spesa militare e per aver destabilizzato il Medio
Oriente. Barack Obama ha prodotto, con la sua riforma sanitaria, come
unico risultato quello di alzare le tasse. Trump sarebbe invece
diverso: «una persona empatica che riconosce il dolore della classe
media americana». Al di là delle opinioni, su una cosa il manager
ha ragione: il nuovo leader degli Usa ha saputo intercettare il
profondo disagio della classe media. Puntando il dito su una serie di
colpevoli, di cui uno in particolare: la globalizzazione che i
democratici, a partire da Bill Clinton, hanno sempre difeso come
fattore di sviluppo. Negli ultimi 17 anni però il divario tra ricchi
e poveri si è ampliato proprio nei due Paesi che sono stati il
simbolo e il motore della globalizzazione, del libero scambio, della
finanziarizzazione del sistema: Stati Uniti e Gran Bretagna, quelli
in cui la crepa tra il reddito del 99% e quello dell’1% è più
ampia. L’indice di Gini, che misura le diseguaglianze, vede gli
Stati Uniti al secondo posto tra i Paesi Ocse, con lo 0,39 e la Gran
Bretagna al sesto con lo 0,35. Mentre secondo Forbes, che riporta uno
studio di Jp Morgan, la concentrazione delle attività finanziarie è
aumentata dopo il 2009, con le prime cinque banche statunitensi che
detengono il 44% degli asset totali dell’industria finanziaria, per
un totale di oltre 6 mila miliardi di dollari. Vale a dire, in
valore, una cosa pari a circa il 37% del prodotto interno lordo
americano,di dollari. Troppo grandi per fallire. Eppure, la
regolazione di Wall Street non è stato un tema al centro dei
dibattiti democratici, nonostante gli sforzi del candidato Bernie
Sanders, mentre è tornata più volte nei discorsi elettorali di
Trump. Steen Jakobsen, capo economista di Saxo Bank, in un intervento
apparso il 16 marzo su Tradingfloor. com e ripreso dal Sole 24 Ore,
evidenziava come «il rapporto delle retribuzioni sul Pil negli Stati
Uniti ha raggiunto i livelli minimi della storia». I «profitti
societari» invece hanno toccato i loro «massimi storici ». Non
dovrebbe stupire che i “dipendenti” e la classe media vogliano un
cambiamento, avvertiva Jakobsen. Sembra che né i politici né le
banche centrali però riescano a comprendere le semplici basi
dell’economia. Scrive ancora il manager: «Le che nel 2015 era a
17,9 mila miliardi manovre di politica monetaria sono progettate a
favore di quel 20% dell’economia che ha già l’accesso al mercato
del credito: banche e società quotate. Tutto ciò a discapito del
restante 80% – le piccole e medie imprese che ottengono meno del
5%del credito e lo 0% del capitale politico, mentre il 20% –Wall
Street –ottiene il 95% del credito e il 100% del capitale
politico». Ma la soluzione a tutto questo non può essere un ritorno
al nazionalismo e a politiche economiche da anni ’30. L’unico
esponente politico che finora sembra aver capito quanto grave sia la
situazione e quale instabilità economico-politica questa potrebbe
portare è Theresa May, un premier conservatore. Parlando alle
imprese su come si affronterà Brexit, la leader britannica ha
ammonito: bisogna capire come il capitalismo possa«funzionare per
tutti» ed è necessario ammorbidire il risentimento di coloro che si
sentono «lasciati indietro » dalla globalizzazione. «Quando si
rifiuta di accettare che la globalizzazione nella sua forma attuale
ha lasciato troppe persone indietro, non si stanno gettando i semi
per la sua crescita, ma per la sua rovina», ha detto May.
«All’aumentare del sentimento anti-globalizzazione, spetta a
quelli di noi che occupano posizioni di leadership rispondere: per
dare un senso al mondo che cambia, per plasmare un nuovo approccio
che conservi il meglio di ciò che funziona, ed evolva ed adatti
quello che non funziona». La globalizzazione può funzionare,
ammesso che ci sia una governance in grado di guidarla. Diversamente,
quello che ci attende è l’alzata dei ponti levatoi. Ognuno nel
proprio fortino in un mondo diviso e a pezzi.