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99 19.11.2016
l’Est
Europa si sta svuotando
Demografia
| Hanno perso sei milioni di abitanti dal 1989 a oggi.
E
ne perderanno altri 12 entro il 2050. Mentre i giovani migrano a
Ovest
di
Matteo Tacconi
La
nuova Europa è molto vecchia. Polonia, Repubblica Ceca, Slovenia e
tutti i membri di più recente ingresso nell’Ue sono destinati a
patire nei prossimi decenni una recessione micidiale sul piano
demografico. In realtà la tendenza è già in corso, se è vero che
dal 1989, in questo versante d’Europa, la popolazione complessiva è
scesa da 106 a 100 milioni. Nel2050 si arriverà a 88 milioni di
abitanti, stando alla banca dati e alle proiezioni dell’O cse, che
tra i Paesi di nuova adesione non contempla però la Croazia.
Prendendo il 1989 come base, l’erosione, se queste stime si
confermeranno, sarà del 16%. Nel resto dell’Ue avverrà invece il
contrario. Le sue economie più avanzate guadagneranno popolazione,
persino più di quella persa a Est. Cosa che nel 2050 porterà
l’attuale spazio comunitario (Paesi di nuovo ingresso inclusi) a
524 milioni di abitanti dai 510 attuali. C’è dunque un pezzo d’E
uropa che si fa più affollato e un altro che si svuota. E la
differenza, ben più che i tassi di natalità e mortalità, la fanno
e la faranno gli squilibri economici e l’immigrazione. L’Europa
pre-allargamento, con i suoi redditi e le sue garanzie sociali,
attirerà nuovi abitanti: dai Paesi extra-europei e dalla stessa
nuova Europa. Emerge allora una contraddizione intra-europea.
Germania, Francia, Italia, Austria, Benelux e Scandinavia hanno
assicurato ai nuovi soci due benzine formidabili per lo sviluppo:
fondi strutturali e investimenti industriali. Tutto ciò però non
basta. Per quanto in questi anni sia stata notevole, l’espansione
nell’Europa centro-orientale, che al momento del crollo dei regimi
comunisti partiva da condizioni di grave arretratezza, non è ancora
tale da creare benessere diffuso e trattenere gente. L’Europa ricca
si ritrova a dare e a togliere. Esporta sviluppo, ma offrendo
condizioni di reddito e vita migliori drena al tempo stesso cervelli
e braccia. Oltre la vecchia cortina la questione della sostenibilità
socio-economica, cruccio che assilla l’intera Ue, è più
incalzante che altrove. Chi pagherà le pensioni? Chi rimpiazzerà i
medici, tanti, che si sono trasferiti nell’altra Europa? E chi
lavorerà per le aziende occidentali? La carenza di lavoratori
specializzati, causa emigrazione, sta infatti divenendo critica.
Giulio Bertola, vice presidente di Confindustria Romania, spiega che
«l’incidenza varia da settore a settore, ma rileviamo ad esempio
una forte mancanza di venditori formati ». Scenario simile nella
vicina Ungheria, riferisce Judit Graczer, responsabile risorse umane
di Itl Group, società di consulenza. «La carenza di qualifiche si
riscontra soprattutto nella fascia tra i 25 e i 45 anni, ovvero il
pilastro della popolazione attiva. Questo perché i laureati guardano
al mercato dell’Europa occidentale, che premia di più. Molti,
spostandosi, recidono le radici con il Paese. Ma anche chi non è
laureato tenta l’avventura all’estero, almeno per qualche anno».
Per Judit Graczer il deficit di specializzazione dipende anche dal
sistema scolastico, che dopo la fine del comunismo ha smesso di
insegnare mestieri. «Non era ritenuta più una cosa prestigiosa ».
Ora il governo sta cercando di invertire la rotta, «seguendo il
modello tedesco, con accordi tra scuole e aziende». È previsto
inoltre un taglio delle tasse alle imprese, nella speranza che possa
favorire tra le altre cose salari migliori: un incentivo a non
emigrare, sempre che sia sufficiente. Anche in Lettonia si tenta di
fare qualcosa, ma è difficile porre rimedio a una delle recessioni
demografiche più acute al mondo. Tre ne sono stati i passaggi
principali, riferisce Guido Sechi, ricercatore del Dipartimento di
Geografia socioeconomica all’Università statale della Lettonia.
«Il primo si ebbe dopo l’indipendenza, con il collasso economico e
l’esodo delle minoranze russofone, conseguenza del timbro etno-
nazionale che ha caratterizzato la Lettonia indipendente. Una seconda
ondata c’è stata prima e durante l’allargamento europeo. La
terza, infine, è coincisa con la crisi economica, seguita da
un’austerity dura, socialmente poco equa». Il Paese, intanto, è
passato dai 2,6 milioni di abitanti del 1989 ai due attuali. Nel 2050
potrebbero essere 1,6. Anche la china imboccata dalla Bulgaria è
impressionante. Dal 1989 è passata da 8,8 a 7,2 milioni di abitanti.
Nel 2050 potrebbe averne appena 5,4. L’emigrazione, anche qui, è
stata massiccia. Chi aveva carte da giocare ha scelto l’America,
Londra e altri bastioni del progresso. I più sono andati in Spagna,
Grecia e Italia a lavorare nel settore costruzioni e nell’agricoltura
(gli uomini), oppure nell’assistenza sociale (le donne). Ma è
riduttivo pensare che l’allargamento europeo sia per lo più
coinciso con una fuga della forza lavoro, dice Francesco Martino,
corrispondente da Sofia di Osservatorio Balcani e Caucaso. «Gli
investimenti dall’Europa occidentale hanno anche creato
occupazione, e almeno consentono a parecchi giovani qualificati,
impiegati nei distretti tecnologici, di restare nel Paese», afferma
Martino. È un dare e togliere, un togliere e dare. Di certo per far
sì che il dare prevalga c’è bisogno di molto tempo ancora. Lo
dimostra il caso polacco: sviluppo enorme dall’ingresso in Europa,
ma saldo migratorio ancora negativo. Per arginare declino demografico
(nel 2050 la popolazione dovrebbe calare di quattro milioni) e
deficit delle specializzazioni, il governo ha lanciato una generosa
politica di assegni familiari epunta a ridare slancio alla formazione
tecnica nelle università. Eppure la risorsa più efficace, secondo
uno studio della Banca Mondiale del 2014, sarebbe quella di attirare
e integrare stranieri. Non solo dalle vicine Ucraina e Bielorussia,
che esportano già oggi centinaia di migliaia di lavoratori. Si
tratterebbe di aprire l’economia in espansione della Polonia a
quell’emigrazione proveniente dalle aree di mondo dove la
popolazione continua a crescere, come l’Africa sub-sahariana e il
subcontinente indiano. Ma oggi Varsavia e la nuova Europa in generale
non sono pronte per questo salto. E il modo spiccio con cui hanno
chiuso ai rifugiati sta lì a dimostrarlo.