Se
così le donne hanno salvato l’Algeria
di
Michela Murgia
Khalida
Toumi | Per oltre dieci anni è stata Ministra della Cultura.
Un’autorità
nel suo Paese in tema di condizione femminile e diritti umani. E
anche un simbolo della lotta contro l’islamizzazione radicale della
società. La scrittrice Michela Murgia è andata a incontrarla
ALGERI
. La casa di Khalida Toumi è dignitosa, modesta e in un quartiere senza pretese: non è così che mi aspettavo l’abitazione di una donna che è stata ministro della cultura per dodici anni nello Stato più grande del continente africano.
Gli alti funzionari hanno dimore di ben altro fasto, ma lei per sé ha scelto diversamente. La ragazzina fulva che ci accoglie è sua nipote, ma a presiedere il rituale dell’ospitalità appare subito lei: cinquantotto anni portati con vigore, leggings neri e modi sbrigativi. Mi squadra con gli occhi di chi è abituata a capire in fretta di chi si
può fidare. «La tua faccia», dice fissandomi, «sembra che tutto il Mediterraneo si sia dato appuntamento lì».Lo stesso non si può dire di lei: rossa di capelli e chiarissima
di pelle, Khalida Toumi non corrisponde in nulla allo stereotipo che
ho della donna algerina, ma non è strano: nella sua regione
d’origine, la Cabilia – la più popolosa regione berberofona del
Paese – i capelli e gli occhi chiari sono frequenti. D’altronde
l’Algeria, come tutti i paesi mediterranei, è stata nel corso
della storia un luogo di mescolanze etniche successive che si
riflettono nei tratti somatici diversificati della sua gente. Ne
intuisco anche il caratteraccio, intuisco. Mentre Khalida mette in
tavola l’onnipresente tè alla menta, il caffè in una piccola moka
italiana e qualche ramo di datteri, le spiego che sono lì perché ad
Algeri me l’hanno indicata come un’autorità in tema di cultura
del suo Paese e condizione femminile. Il sorriso che fa a quelle
parole sembra più amaro che compiaciuto, segno che quella fama deve
averla pagata cara. Si accende una sigaretta – gesto ancora
considerato riprovevole per una donna in pubblico in Algeria
nonostante l’altissimo numero di fumatori (e fumatrici) – e
comincia a parlare. «Questo è un Paese di patriarcato, te ne sarai
resa conto, un patriarcato in salsa algerina, cioè complesso quanto
la nostra società e presente in tutte le sue declinazioni: islamico,
berbero, mediterraneo, arabo, africano. Abbiamo l’imbarazzo della
scelta!». Ride e il suo viso brilla di complicità, ma dura un
istante: quando riprende il discorso è di nuovo una creatura
politica. «La questione del patriarcato è fondamentale per
comprendere il problema del terrorismo. Quello che sta accadendo oggi
a Parigi, a Istanbul, a Bruxelles, a Nizza e anche quello che è
accaduto l’11 settembre, qui in Algeria era già accaduto prima e
peggio, per i dieci anni in cui siamo stati lasciati completamente
soli davanti all’orrore. Alle cinque del pomeriggio c’era già il
coprifuoco, le strade erano deserte, poteva succedere qualunque cosa,
ovunque. Le bombe messe tra la gente, le persone sgozzate, i bambini
trucidati, le donne stuprate: morirono 200 mila persone ed è
cominciato tutto qui. Eravamo completamente soli». Ribadire la
solitudine internazionale dell’Algeria nel decennio nero degli anni
’90 le sta particolarmente a cuore e sottintende che se la comunità
internazionale si fosse interessata del dramma del terrorismo
algerino e delle sue ragioni, probabilmente adesso capiremmo molte
più cose del nostro. Le motivazioni dell’orrore di quegli anni per
lei sono evidenti: il suo Paese fu oggetto di un tentativo di
teocratizzazione armata. «Chi agisce in modo terroristico ha sempre
obiettivo politico e il loro era l’islamizzazione radicale della
società algerina. Per questo mirarono alle donne, perché qui se
controlli le donne controlli tutti. Le algerine hanno lottato con un
coraggio inaudito contro questa minaccia e se oggi l’Algeria non è
un Paese fondamentalista è merito loro, del loro sacrificio, della
loro forza». Eppure le donne velate che ho incontrato a decine per
le strade con i bambini per mano in nulla somigliano alla signora
infiammabile che ho davanti. «Non farti ingannare dalle apparenze.
Le donne qui avevano tutto da perdere a sottomettersi ai dettami dei
terroristi islamisti, il primo dei quali è stato impedire la
scolarizzazione. Hanno attaccato asili, licei, università. Nessuno
poteva studiare. Se mandate i bambini a scuola li uccidiamo,
dicevano. Ma per noi la possibilità di andare a scuola è
fondamentale per il riscatto sociale e poiché la scuola dei bambini
è una cosa seguita dalle madri, hanno dovuto decidere: o accettavano
la paura e tenevano i figli a casa, privandoli di ogni possibilità,
oppure accettavano il rischio e li portavano a scuola a costo della
vita. Hanno preferito il rischio. Li hanno portati a scuola». Cosa è
accaduto? «È stato terribile: i terroristi hanno sgozzato bambini,
insegnanti, persino rettori nei loro stessi uffici. Hanno cercato in
ogni modo di farsi obbedire, ma non ci sono riusciti mai del tutto».
E poi? «E poi i divieti di manifestazione e di assembramento.
Volevano impedire alla gente di scendere in piazza e di riunirsi,
perché sapevano che l’isolamento è importante per nutrire la
paura. Le donne però sono scese in piazza comunque, sfidandoli. Si
legavano sul petto dei finti bersagli, scendevano in strada e
gridavano: “sparateci, uccideteci tutte”». Mi rendo conto che
continua a dire le donne come se fossero un’entità astratta. In
quelle piazze lei c’era? «Certo che c’ero!». Dal modo in cui lo
dice vorrei rimangiarmi la domanda. Una donna come quella non si
intesta una battaglia collettiva. Certo che c’era. C’erano tutte.
O no? «No. Le donne degli islamisti ci sputavano per strada. Ci
minacciavano e strappavano i capelli a quelle che li tenevano
scoperti, ma insultavano anche quelle che tra noi portavano il velo.
Sembra una sindrome di Stoccolma che alcune donne volessero la
teocrazia che negava la loro libertà, ma non bisogna pensare che le
donne siano angeli e scelgano sempre la cosa giusta. Le donne sono
persone, possono scegliere anche di opprimere. Ce n’è di certo
molte anche tra i terroristi attuali». Alcune cose che Khalida Toumi
mi racconta sembrano appartenere a una consapevolezza di popolo che
altrove forse non esiste. Se i terroristi facessero in una qualunque
città europea quello che hanno fatto in Algeria, dubito che le madri
rischierebbero i figli per opporvisi. Da dove è venuto alle donne
algerine quel coraggio eroico? «È difficile spiegartelo, perché
voi non siete mai oggetto di una colonizzazione di popolamento, cioè
di un’appropriazione permanente dei vostri luoghi da parte di
persone di un’altra nazione, che ci vanno a vivere e vi espropriano
dei diritti. A noi il coraggio viene dalla nostra storia. Quelle
donne erano le figlie di quelle che quarant’anni prima avevano
fatto la guerra per l’indipendenza. Avevamo riconquistato la
libertà da meno di una generazione. Anche la scuola era una
riconquista. Quando nel 1830 sono venuti qui i francesi, gli algerini
avevano il loro stesso tasso di scolarizzazione. Quando se ne sono
andati centotrent’anni dopo, il tasso di analfabetismo in Algeria
era quasi totale (85% degli uomini, praticamente il 100% per le
donne) perché l’istruzione era pensata e organizzata per i coloni
e non per gli indigeni. Se non ci fossimo opposte saremmo tornate
indietro di un secolo, ma oppresse anche teocraticamente. Poi certo
che avevamo paura di morire, chi non ne ha? Ma se gli islamisti si
fossero affermati saremmo morte lo stesso, perché loro ci vogliono
morte. Zitte, sparite, velate, invisibili, ininfluenti, sottomesse.
Se ci fosse da scegliere tra la vita e la morte, chiunque sano di
mente sceglierebbe la vita, ma noi avevano da scegliere solo tra due
morti: o quella per la vergogna di non aver difeso il Paese, o la
morte onorata nel tentativo di difenderlo. Una morte ignobile o una
morte nobile. La vita nella vergogna io non l’avrei potuta
sopportare. Per noi la vergogna è una cosa molto grave. Come avrei
potuto guardare negli occhi le mie amiche ex combattenti della guerra
di liberazione? Loro avevano deciso di offrire la loro vita per
liberare l’Algeria dal colonialismo e ritrovare la sovranità e la
dignità. Senza quella libertà dovuta al sacrificio di centinaia di
migliaia di algerine e di algerini io non avrei potuto studiare, fare
politica, lavorare oltre dieci anni come ministra, e con me
tantissime altre donne». Mi indica un disegno stilizzato appeso al
muro che raffigura una giovane donna. È Zohra Drif, eroina della
battaglia di Algeri (immortalata nell’omonimo film di Gillo
Pontecorvo del 1965) e della guerra di indipendenza che ha liberato
l’Algeria dall’ultimo tenace residuo del dominio coloniale
francese. Lei e Khalida sono molto legate. «Se avessero prevalso i
teocrati, la prospettiva per gli uomini era brutta, ma non
invivibile. Gli uomini tra loro un accordo lo trovano sempre. In uno
Stato teocratico islamista avrebbero comunque avuto un po’ di
potere: quello su di noi. Siamo noi che avevamo tutto da perdere:
ecco perché eravamo il bersaglio principale». Il vostro contributo
a quella lotta è stato riconosciuto? «Sì. Non in fretta e non
quanto avremmo voluto, ma se questo Paese oggi ha qualche legge più
favorevole ai diritti delle donne lo deve al sacrificio delle donne
durante gli anni del terrorismo. Nel mio gabinetto erano quasi tutte
donne, sai? Abbiamo dato forza a tutti e questo ha reso più forti
anche noi. Ora, per quanto sembri assurdo, la situazione è più
difficile». Non è assurdo e non le chiedo di spiegarmi un perché
che è evidente. In Algeria c’è una democrazia apparente retta da
un’oligarchia che si è formata all’ombra della rendita
petrolifera. Il presidente Bouteflika è vecchio e malato, eppure si
annuncia per lui l’ipotesi di un quinto mandato. I tassi di
disoccupazione sono alti quanto la corruzione e ora che i proventi
del petrolio, in caduta libera dal 2014, non bastano più a garantire
lo stato sociale di un’economia così fragile, la pace sociale
vacilla e le tensioni e l’angoscia per il futuro aumenta. Se
succedesse qualcosa, la storia del medio Oriente insegna che le forze
internazionali si muoverebbero solo per mantenere la stabilità del
territorio in cui hanno gli interessi economici, non importa chi o
come la garantirebbe, e questo significa che, se le donne dell’età
di Khalida corrono il rischio di vedere un’altra guerra prima di
chiudere gli occhi, potrebbero trovarsi di nuovo sole a fronteggiare
i gruppi di Daesh attivi in tutti gli stati confinanti con l’Algeria.
La sapienza di una donna come lei allora sarebbe preziosa. Al
servizio di chi o cosa l’ha messa, ora che non è più ministra?
Prima di rispondermi si accende lentamente un’altra sigaretta, poi
se l’aspira sorniona. «Di mia madre, che è anziana e per gli
anziani in questo Paese non c’è alcun supporto. Faccio la badante,
la garde-maman».
Sembra
così vero che fingo di crederle. Ma forse non mente e sono io che,
davanti al futuro incerto che si prepara per tutte, ho un tremendo
bisogno di credere che le donne come lei ci saranno e sapranno cosa
fare.
Chi
è
•1958
| Nasce il 13 marzo ad Aïn Bessem, Algeria.
Si
laureerà in matematica all’École normale
supérieure
di Algeri
•1980
| Entra nell’Organisation socialiste des
travailleurs
(Ost), formazione clandestina dove
porta
avanti la causa dei diritti delle donne anche
sul
lavoro
•1985
| Da una costola dell’Ost crea l’Associazione
per
l’uguaglianza dei diritti di uomini e donne
davanti
alla legge (Apel)
•1989
| L’Apel ottiene riconoscimento legale ma,
a
seguito dei contrasti con la presidente Louisa
Hanoune,
l’anno dopo Khalida ne esce
•1990
| Aderisce al Rassemblement pour la culture
et
la démocratie (Rcd) di Saïd Saadi e ne diventa
vicepresidente
•1992
| Un colpo di Stato militare getta il Paese nel
caos,
Khalida si schiera contro l’islamizzazione
aderendo
al Comitato nazionale per la
salvaguardia
dell’Algeria
•1993
| Il Fis (Front islamique du salut), gruppo
fondamentalista
islamico, emette una fatwa
contro
di lei: Khalida è costretta a sostituire il suo
cognome,
Messaoudi, con l’alias Toumi
•1997
| Dopo anni di repressioni si svolgono nuove
elezioni,
Toumi è eletta con il Rcd, partito da cui
uscirà
nel 2001
•2002|
Diventa ministra della Comunicazione e
della
Cultura; guiderà il dicastero (che dal 2004 si
chiama
solo della Cultura) per 12 anni, fino al 2014