lunedì 14 novembre 2016

Pagina 99 12.11.2016
Se così le donne hanno salvato l’Algeria
di Michela Murgia

Khalida Toumi | Per oltre dieci anni è stata Ministra della Cultura.
Un’autorità nel suo Paese in tema di condizione femminile e diritti umani. E anche un simbolo della lotta contro l’islamizzazione radicale della società. La scrittrice Michela Murgia è andata a incontrarla

ALGERI . La casa di Khalida Toumi è dignitosa, modesta e in un quartiere senza pretese: non è così che mi aspettavo l’abitazione di una donna che è stata ministro della cultura per dodici anni nello Stato più grande del continente africano.
Gli alti funzionari hanno dimore di ben altro fasto, ma lei per sé ha scelto diversamente. La ragazzina fulva che ci accoglie è sua nipote, ma a presiedere il rituale dell’ospitalità appare subito lei: cinquantotto anni portati con vigore, leggings neri e modi sbrigativi. Mi squadra con gli occhi di chi è abituata a capire in fretta di chi si
può fidare. «La tua faccia», dice fissandomi, «sembra che tutto il Mediterraneo si sia dato appuntamento lì».Lo stesso non si può dire di lei: rossa di capelli e chiarissima di pelle, Khalida Toumi non corrisponde in nulla allo stereotipo che ho della donna algerina, ma non è strano: nella sua regione d’origine, la Cabilia – la più popolosa regione berberofona del Paese – i capelli e gli occhi chiari sono frequenti. D’altronde l’Algeria, come tutti i paesi mediterranei, è stata nel corso della storia un luogo di mescolanze etniche successive che si riflettono nei tratti somatici diversificati della sua gente. Ne intuisco anche il caratteraccio, intuisco. Mentre Khalida mette in tavola l’onnipresente tè alla menta, il caffè in una piccola moka italiana e qualche ramo di datteri, le spiego che sono lì perché ad Algeri me l’hanno indicata come un’autorità in tema di cultura del suo Paese e condizione femminile. Il sorriso che fa a quelle parole sembra più amaro che compiaciuto, segno che quella fama deve averla pagata cara. Si accende una sigaretta – gesto ancora considerato riprovevole per una donna in pubblico in Algeria nonostante l’altissimo numero di fumatori (e fumatrici) – e comincia a parlare. «Questo è un Paese di patriarcato, te ne sarai resa conto, un patriarcato in salsa algerina, cioè complesso quanto la nostra società e presente in tutte le sue declinazioni: islamico, berbero, mediterraneo, arabo, africano. Abbiamo l’imbarazzo della scelta!». Ride e il suo viso brilla di complicità, ma dura un istante: quando riprende il discorso è di nuovo una creatura politica. «La questione del patriarcato è fondamentale per comprendere il problema del terrorismo. Quello che sta accadendo oggi a Parigi, a Istanbul, a Bruxelles, a Nizza e anche quello che è accaduto l’11 settembre, qui in Algeria era già accaduto prima e peggio, per i dieci anni in cui siamo stati lasciati completamente soli davanti all’orrore. Alle cinque del pomeriggio c’era già il coprifuoco, le strade erano deserte, poteva succedere qualunque cosa, ovunque. Le bombe messe tra la gente, le persone sgozzate, i bambini trucidati, le donne stuprate: morirono 200 mila persone ed è cominciato tutto qui. Eravamo completamente soli». Ribadire la solitudine internazionale dell’Algeria nel decennio nero degli anni ’90 le sta particolarmente a cuore e sottintende che se la comunità internazionale si fosse interessata del dramma del terrorismo algerino e delle sue ragioni, probabilmente adesso capiremmo molte più cose del nostro. Le motivazioni dell’orrore di quegli anni per lei sono evidenti: il suo Paese fu oggetto di un tentativo di teocratizzazione armata. «Chi agisce in modo terroristico ha sempre obiettivo politico e il loro era l’islamizzazione radicale della società algerina. Per questo mirarono alle donne, perché qui se controlli le donne controlli tutti. Le algerine hanno lottato con un coraggio inaudito contro questa minaccia e se oggi l’Algeria non è un Paese fondamentalista è merito loro, del loro sacrificio, della loro forza». Eppure le donne velate che ho incontrato a decine per le strade con i bambini per mano in nulla somigliano alla signora infiammabile che ho davanti. «Non farti ingannare dalle apparenze. Le donne qui avevano tutto da perdere a sottomettersi ai dettami dei terroristi islamisti, il primo dei quali è stato impedire la scolarizzazione. Hanno attaccato asili, licei, università. Nessuno poteva studiare. Se mandate i bambini a scuola li uccidiamo, dicevano. Ma per noi la possibilità di andare a scuola è fondamentale per il riscatto sociale e poiché la scuola dei bambini è una cosa seguita dalle madri, hanno dovuto decidere: o accettavano la paura e tenevano i figli a casa, privandoli di ogni possibilità, oppure accettavano il rischio e li portavano a scuola a costo della vita. Hanno preferito il rischio. Li hanno portati a scuola». Cosa è accaduto? «È stato terribile: i terroristi hanno sgozzato bambini, insegnanti, persino rettori nei loro stessi uffici. Hanno cercato in ogni modo di farsi obbedire, ma non ci sono riusciti mai del tutto». E poi? «E poi i divieti di manifestazione e di assembramento. Volevano impedire alla gente di scendere in piazza e di riunirsi, perché sapevano che l’isolamento è importante per nutrire la paura. Le donne però sono scese in piazza comunque, sfidandoli. Si legavano sul petto dei finti bersagli, scendevano in strada e gridavano: “sparateci, uccideteci tutte”». Mi rendo conto che continua a dire le donne come se fossero un’entità astratta. In quelle piazze lei c’era? «Certo che c’ero!». Dal modo in cui lo dice vorrei rimangiarmi la domanda. Una donna come quella non si intesta una battaglia collettiva. Certo che c’era. C’erano tutte. O no? «No. Le donne degli islamisti ci sputavano per strada. Ci minacciavano e strappavano i capelli a quelle che li tenevano scoperti, ma insultavano anche quelle che tra noi portavano il velo. Sembra una sindrome di Stoccolma che alcune donne volessero la teocrazia che negava la loro libertà, ma non bisogna pensare che le donne siano angeli e scelgano sempre la cosa giusta. Le donne sono persone, possono scegliere anche di opprimere. Ce n’è di certo molte anche tra i terroristi attuali». Alcune cose che Khalida Toumi mi racconta sembrano appartenere a una consapevolezza di popolo che altrove forse non esiste. Se i terroristi facessero in una qualunque città europea quello che hanno fatto in Algeria, dubito che le madri rischierebbero i figli per opporvisi. Da dove è venuto alle donne algerine quel coraggio eroico? «È difficile spiegartelo, perché voi non siete mai oggetto di una colonizzazione di popolamento, cioè di un’appropriazione permanente dei vostri luoghi da parte di persone di un’altra nazione, che ci vanno a vivere e vi espropriano dei diritti. A noi il coraggio viene dalla nostra storia. Quelle donne erano le figlie di quelle che quarant’anni prima avevano fatto la guerra per l’indipendenza. Avevamo riconquistato la libertà da meno di una generazione. Anche la scuola era una riconquista. Quando nel 1830 sono venuti qui i francesi, gli algerini avevano il loro stesso tasso di scolarizzazione. Quando se ne sono andati centotrent’anni dopo, il tasso di analfabetismo in Algeria era quasi totale (85% degli uomini, praticamente il 100% per le donne) perché l’istruzione era pensata e organizzata per i coloni e non per gli indigeni. Se non ci fossimo opposte saremmo tornate indietro di un secolo, ma oppresse anche teocraticamente. Poi certo che avevamo paura di morire, chi non ne ha? Ma se gli islamisti si fossero affermati saremmo morte lo stesso, perché loro ci vogliono morte. Zitte, sparite, velate, invisibili, ininfluenti, sottomesse. Se ci fosse da scegliere tra la vita e la morte, chiunque sano di mente sceglierebbe la vita, ma noi avevano da scegliere solo tra due morti: o quella per la vergogna di non aver difeso il Paese, o la morte onorata nel tentativo di difenderlo. Una morte ignobile o una morte nobile. La vita nella vergogna io non l’avrei potuta sopportare. Per noi la vergogna è una cosa molto grave. Come avrei potuto guardare negli occhi le mie amiche ex combattenti della guerra di liberazione? Loro avevano deciso di offrire la loro vita per liberare l’Algeria dal colonialismo e ritrovare la sovranità e la dignità. Senza quella libertà dovuta al sacrificio di centinaia di migliaia di algerine e di algerini io non avrei potuto studiare, fare politica, lavorare oltre dieci anni come ministra, e con me tantissime altre donne». Mi indica un disegno stilizzato appeso al muro che raffigura una giovane donna. È Zohra Drif, eroina della battaglia di Algeri (immortalata nell’omonimo film di Gillo Pontecorvo del 1965) e della guerra di indipendenza che ha liberato l’Algeria dall’ultimo tenace residuo del dominio coloniale francese. Lei e Khalida sono molto legate. «Se avessero prevalso i teocrati, la prospettiva per gli uomini era brutta, ma non invivibile. Gli uomini tra loro un accordo lo trovano sempre. In uno Stato teocratico islamista avrebbero comunque avuto un po’ di potere: quello su di noi. Siamo noi che avevamo tutto da perdere: ecco perché eravamo il bersaglio principale». Il vostro contributo a quella lotta è stato riconosciuto? «Sì. Non in fretta e non quanto avremmo voluto, ma se questo Paese oggi ha qualche legge più favorevole ai diritti delle donne lo deve al sacrificio delle donne durante gli anni del terrorismo. Nel mio gabinetto erano quasi tutte donne, sai? Abbiamo dato forza a tutti e questo ha reso più forti anche noi. Ora, per quanto sembri assurdo, la situazione è più difficile». Non è assurdo e non le chiedo di spiegarmi un perché che è evidente. In Algeria c’è una democrazia apparente retta da un’oligarchia che si è formata all’ombra della rendita petrolifera. Il presidente Bouteflika è vecchio e malato, eppure si annuncia per lui l’ipotesi di un quinto mandato. I tassi di disoccupazione sono alti quanto la corruzione e ora che i proventi del petrolio, in caduta libera dal 2014, non bastano più a garantire lo stato sociale di un’economia così fragile, la pace sociale vacilla e le tensioni e l’angoscia per il futuro aumenta. Se succedesse qualcosa, la storia del medio Oriente insegna che le forze internazionali si muoverebbero solo per mantenere la stabilità del territorio in cui hanno gli interessi economici, non importa chi o come la garantirebbe, e questo significa che, se le donne dell’età di Khalida corrono il rischio di vedere un’altra guerra prima di chiudere gli occhi, potrebbero trovarsi di nuovo sole a fronteggiare i gruppi di Daesh attivi in tutti gli stati confinanti con l’Algeria. La sapienza di una donna come lei allora sarebbe preziosa. Al servizio di chi o cosa l’ha messa, ora che non è più ministra? Prima di rispondermi si accende lentamente un’altra sigaretta, poi se l’aspira sorniona. «Di mia madre, che è anziana e per gli anziani in questo Paese non c’è alcun supporto. Faccio la badante, la garde-maman».
Sembra così vero che fingo di crederle. Ma forse non mente e sono io che, davanti al futuro incerto che si prepara per tutte, ho un tremendo bisogno di credere che le donne come lei ci saranno e sapranno cosa fare.
Chi è
1958 | Nasce il 13 marzo ad Aïn Bessem, Algeria.
Si laureerà in matematica all’École normale
supérieure di Algeri
1980 | Entra nell’Organisation socialiste des
travailleurs (Ost), formazione clandestina dove
porta avanti la causa dei diritti delle donne anche
sul lavoro
1985 | Da una costola dell’Ost crea l’Associazione
per l’uguaglianza dei diritti di uomini e donne
davanti alla legge (Apel)
1989 | L’Apel ottiene riconoscimento legale ma,
a seguito dei contrasti con la presidente Louisa
Hanoune, l’anno dopo Khalida ne esce
1990 | Aderisce al Rassemblement pour la culture
et la démocratie (Rcd) di Saïd Saadi e ne diventa
vicepresidente
1992 | Un colpo di Stato militare getta il Paese nel
caos, Khalida si schiera contro l’islamizzazione
aderendo al Comitato nazionale per la
salvaguardia dell’Algeria
1993 | Il Fis (Front islamique du salut), gruppo
fondamentalista islamico, emette una fatwa
contro di lei: Khalida è costretta a sostituire il suo
cognome, Messaoudi, con l’alias Toumi
1997 | Dopo anni di repressioni si svolgono nuove
elezioni, Toumi è eletta con il Rcd, partito da cui
uscirà nel 2001
2002| Diventa ministra della Comunicazione e
della Cultura; guiderà il dicastero (che dal 2004 si
chiama solo della Cultura) per 12 anni, fino al 2014