L’ambizione
totalitaria dei nostri sovrani digitali
Ideologie
| Per Zuckerberg, Schmidt e i grandi della Silicon Valley il
Parlamento è inutile.
Il
potere appartiene al popolo, dicono. A patto però che lo eserciti
sulle loro piattaforme
di
Paolo Bottazini
La
democrazia è un’allucinazione, secondo Walter Lippmann. O almeno,
lo è l’ideologia che pretende di riconoscere nell’uomo un
impulso alla conoscenza di tutte le premesse di una decisione, senza
l’assenso pregiudiziale alle istruzioni di un leader. L’unica
volta in cui questa condizione si è realizzata è l’America dei
pionieri, con i suoi villaggi di agricoltori e cercatori d’oro nel
primo Ottocento. I presidenti Thomas Jefferson e Andrew Jackson ne
hanno accudito l’autonomia, in modo che qualunque cosa potesse
influenzare la vita dei contadini-coloni si trovasse nel raggio della
loro percezione sensoriale. Eppure i guru della democrazia diretta
ignorano le obiezioni di Lippmann. L’ideologia che ha accompagnato
lo sviluppo di Internet, ha interpretato le comunità di utenti
collegati in rete come i cenobi dei Paesi contadini nell’epoca
eroica della colonizzazione. Le bacheche elettroniche, i primi forum,
sono apparsi come un ambiente in cui replicare la socialità del
villaggio su un’estensione geografica ampia quanto un continente, o
come l’intera superficie del globo. Alla fine degli anni Ottanta,
Howard Rheingold ha redatto il saggio-manifesto di questa concezione:
La comunità virtuale. Colonizzare la frontiera elettronica, uscito
nel 1991. La retorica è quella della conversione e della profezia,
mentre la dissertazione è un affresco dell’esperienza sulle
bacheche di The WELL, il sistema di forum più longevo del mondo:
risale al 1985, e – tra le altre – ha accolto le prime
conversazioni tra i futuri creatori dell’Electronic Frontier
Foundation. La formula dell’ecumenismo di The WELL è
l’annullamento di ogni mediazione: gli utenti della piattaforma non
attingono a fonti di informazione esterne, lasciano emergere ogni
conoscenza dalla discussione, depositano negli archivi delle
conversazioni un sapere cui attingere per ogni aspetto della vita
quotidiana. Solo il confronto tra gli iscritti può ispirare
decisioni giuste: gli esperti che appartengono al mondo esterno, i
professionisti della raccolta delle informazioni, l’intero mondo
scientifico oltre il confine del forum, non possono arrogarsi alcuna
autorità. Sono le elezioni presidenziali USA del 1992 a chiarire la
portata politica di questa concezione. Il magnate Ross Perot si
presenta come indipendente, contro Bill Clinton e George Bush: a
giugno è in testa nei sondaggi, mentre alle elezioni di novembre
conquista quasi 20 milioni di voti (il 19% del suffragio popolare).
Il risultato è dovuto al successo di due proposte: la riduzione
delle tasse, e il passaggio ad una democrazia diretta. Perot ritiene
che la Costituzione americana debba essere riscritta, perché gli
estensori settecenteschi non conoscevano ancora Internet. Si deve
superare la struttura rappresentativa delle istituzioni di governo,
visto che oggi i cittadini possono essere convocati in ogni momento
ad esprimere la loro posizione su qualunque tema. Basta un clic su un
form di interrogazione online. Requisiti di sistema: l’impulso
all’onniscienza, la preparazione su ogni argomento – e una certa
propensione all’autoritarismo, con scelte per acclamazione. Gli
americani continuano a provare nostalgia per l’isolamento e l’epica
dei loro villaggi contadini. Ma la rivoluzione industriale, la
mercificazione del lavoro, la circolazione universale dei beni, la
finanza, la guerra, hanno reso dipendente ogni individuo, e ogni
collettività, da eventi che precipitano fuori dalla portata della
percezione personale. L’informazione è il business più redditizio
nell’epoca della knowledge economy, perché la mediazione di
esperti, di dati affidabili, di testimoni remoti e di interpreti
specialistici, è necessaria per qualunque decisione. Può sembrare
paradossale allora che gli imprenditori alla guida dei giganti della
Silicon Valley siano oggi gli alfieri della democrazia diretta. Eric
Schmidt, ex CEO di Google e presidente di Alphabet, descrive il
parlamento americano come «un’opprimente macchina protettiva in
cui le leggi vengono scritte dai lobbisti», mentre Mark Zuckerberg,
fondatore di Facebook, dichiara che ormai grazie a Internet «la
gente dovrebbe essere in grado di avere voce in capitolo, senza avere
una grande struttura di milioni di persone organizzate e milioni di
dollari raccolti per sostenere una causa particolare». Le
istituzioni democratiche sono strutture costose votate
all’inefficienza, quando non addirittura alla truffa e alla rapina.
Bisogna quindi affidarsi alle tecnologie digitali, perché chi le
progetta non tesse gli intrighi nei palazzi del potere, ma appartiene
alla classe «degli scienziati» (è ancora Schmidt che parla), che
cercano «di creare uno specchio virtuale e sempre aggiornato del
mondo» (lo incalza Marissa Meyer, CEO di Yahoo!). Internet è il
riflesso neutrale della società, in cui diventa «possibile la
connessione e condivisione delle proprie idee in modo semplice, per
le persone con diversi background». Lo pensa Zuckerberg, riferendosi
alla sua piattaforma, in cui un miliardo e mezzo di persone
conversano su qualunque cosa, senza conoscerne quasi nessuna,
ascoltando l’eco dei propri giudizi nelle parole degli amici cui
somigliano di più. Invece di «diminuire i conflitti nel mondo a
breve e lungo termine», la frequentazione dei social media ha
radicalizzato i contrasti politici, come ha evidenziato l’indagine
del 2014 condotta dal Pew Research su 10 mila adulti americani.
Vedere il mondo come ciascuno vorrebbe che fosse, anziché
avvicinarne la realtà con senso critico, non favorisce di sicuro la
democrazia. Ma agevola i software di Google, di Facebook, e dei loro
simili a misurare ogni atomo del nostro desiderio e del nostro
istinto, e a rivendere queste informazioni per offerte commerciali
personalizzate. Offrire l’illusione di essere il capo del villaggio
globale amplifica il controllo di chi registra ogni cosa, e gonfia il
suo fatturato più di tutto l’oro del Klondike: non lo avrebbe
immaginato nemmeno Zio Paperone, figuriamoci Thomas Jefferson.