PROVOCAZIONI
democrazia
in crisi
il
voto è necessario?
Politica
| L’olandese Van Reybrouck e l’americano Brennan mettono
in
discussione il suffragio universale, proponendo nuovi modelli di
voto. Per non far morire un sistema che sembra in agonia
di
Leonardo Martinelli
C’erano
tempi in cui si scendeva in piazza per esigere la democrazia in Cile
(più tardi quella anti-apartheid in Sudafrica). C’erano tempi in
cui, dopo lo sgretolarsi dell’impero sovietico, prevaleva la
fiduciosa sensazione che un modello (il nostro, il solito) si sarebbe
imposto (era ora) a tutto il globo o quasi. Proprio nel 1989 il
politologo americano Francis Fukuyama, nel saggio La fine della
storia e l’ultimo uomo, si diceva sicuro che avremmo assistito «al
punto finale dell’evoluzione ideologica dell’umanità e
all’universalizzazione della democrazia liberale come forma finale
del governo umano». C’erano tempi (questi recentissimi) in cui le
manifestazioni dei giovani, da Damasco a Tunisi passando per Il
Cairo, trasmettevano la certezza che ormai, pure lì, nel mondo
arabo, quell’insana passione occidentale, che è eleggere
liberamente un Parlamento e/o un capo di Stato, avrebbe attecchito.
Inesorabilmente. Non è andata così. O almeno: non esattamente come
si era immaginato, anche alla luce del trionfo di Donald Trump.
L’istituzione, a dire il vero, non è mai stata tanto ben
rappresentata a livello mondiale (si contano 117 democrazie elettive,
di cui 90 considerate “effettive”, su un totale di 195 Paesi), ma
mai si era vissuta, da decenni, una tale sfiducia nei suoi confronti.
Perfino Fukuyama, in un articolo pubblicato sul New York Times un
anno fa, ammetteva che «la grande vittoria del liberalismo
occidentale sembra meno evidente e i suoi valori appaiono minacciati
direttamente all’interno delle società occidentali ». È che la
“gente” non va più a votare o se lo fa è sempre più per un
voto di protesta. Non si iscrive più a partiti politici, né a
sindacati. Scende in piazza, quello al limite sì, ma contro tutto e
niente. Questo sistema, la democrazia, non la rappresenta più. Non
sorprende che proprio negli ultimi tempi siano state fatte proposte
shock in merito, che forse, dopo la vittoria di Trump, faranno meno
paura e saranno più prese sul serio. Da una parte quella del belga
David Van Reybrouck, poeta, scrittore e giornalista (lo stesso del
magistrale libro- reportage Congo), ma anche archeologo di
formazione. Secondo lui (in Contro le elezioni, pubblicato in Italia
da Feltrinelli l’anno scorso) bisogna rinunciare al voto e
sorteggiare le cariche pubbliche, come facevano i greci antichi (c’è
qui molto del modello di Aristotele, che diceva: «uno dei tratti
distintivi della libertà è essere, a turno, governati e governanti
»). Da pochi giorni, invece, è uscito per Princeton University
Press l’ultimo libro del filosofo politico statunitense Jason
Brennan, Against democracy. Lui pretende l’epistocrazia, un sistema
nel quale vota solo chi ha il livello di preparazione sufficiente (o
per questi soggetti il voto vale di più rispetto a quello degli
altri). Insomma, il potere politico deve essere ripartito sulla base
della conoscenza (c’è qui molto del modello di Platone del governo
dei migliori). Il parere dei francesi Prima di scendere nei dettagli,
però, ecco un’inchiesta, anche questa di pochi giorni fa. È stata
realizzata in Francia, a lungo punto di riferimento per i fans della
democrazia di tutto il mondo, quasi un mito. Non stiamo parlando
degli Stati Uniti, ma della Francia! Ebbene, anche qui si terranno
fra pochi mesi le presidenziali. E l’istituto Ipsos-Sopra Steria ha
effettuato un sondaggio sul tema: “I francesi, la democrazia e le
sue alternative”. Secondo il 57% degli intervistati «la democrazia
funziona male» e per il 77% «sempre peggio» (14 punti percentuali
in più rispetto allo stesso sondaggio del 2014). Un terzo dei
francesi ritiene che «altri sistemi potrebbero essere buoni quanto
la democrazia». Uno su 5 vorrebbe «un sistema autocratico », un
leader unico senza contrappunto parlamentare. È evidente che urge un
dibattito. Van Reybrouck non ha perso tempo. Nel suo testo scrive:
«Quest’ossessione per le elezioni sembra curiosa: è da quasi
tremila anni che sperimentiamo la democrazia e solo da duecento che
lo facciamo esclusivamente per mezzo delle elezioni» che «non sono
uno strumento democratico». Lui ritorna all’antica Atene, dove le
cariche pubbliche (la maggior parte, non tutte) non erano elettive.
Si sorteggiava chi doveva amministrare e questo non poteva
rifiutarsi. Accedere alla gestione della città era «un modo per
arricchire il cittadino e fargli comprendere la complessità della
cosa». L’esempio dell’Irlanda Van Reybrouck fornisce anche
qualche esempio attuale. Quello che ha avuto più successo riguarda
l’Irlanda, dove nel 2013, per individuare le modifiche da apportare
alla Costituzione, è stata messa su un’assemblea composta da 100
membri, 66 dei quali tirati a sorte. E con la possibilità per tutti
i cittadini di partecipare al dibattito via Internet. È lì che è
nata, tra le altre, la novità del matrimonio gay, poi convalidata da
un referendum popolare. In precedenza, fra il 2004 e il 2010, due
Stati del Canada, la Columbia Britannica e l’Ontario, oltre
all’Olanda, avevano tentato un esperimento simile per varare delle
riforme elettorali, ma senza successo (le novità proposte non sono
poi passate). Comunque, ricorda l’autore, nei tre casi «il
reclutamento si svolgeva in tre tappe: 1) un campione casuale di
cittadini era sorteggiato dalle liste elettorali: essi ricevevano un
invito per posta; 2) seguiva un processo di autoselezione: chiunque
fosse interessato, assisteva a una riunione informativa e poteva
presentarsi come candidato per la fase successiva; 3) a partire da
questi candidati si sorteggiavano i membri dell’équipe definitiva,
tenendo conto di una ripartizione equilibrata su età, sesso e altri
criteri». Avevano poi a disposizione tempo ed esperti per esaminare
la questione. Come sottolineato di recente in un’intervista da Van
Reybrouck, se lo stesso procedimento fosse stato applicato con la
Brexit, «si sarebbero potute tirare a sorte mille persone, che per
sei mesi avrebbero dovuto riflettere sull’avvenire delle relazioni
fra il Regno Unito e l’Unione europea. Credo che alla fine si
sarebbe ottenuto un risultato più ragionevole ». Si può
prospettare un sistema «birappresentativo », che mescoli
consultazioni a sorteggio. Anche se, viste le ultime dichiarazioni,
lo scrittore è sempre più favorevole a un’applicazione a 360
gradi del suo metodo, la «democrazia senza elezioni». Dopo la
vittoria di Trump, forse, ancora di più. Il governo dei dotti
Veniamo ora a Brennan e alla sua «democrazia dei dotti».
L’epistocrazia non è una forma qualsiasi di tecnocrazia alla
cinese (certi politologi asiatici ne esaltano l’efficienza rispetto
al modello occidentale). No, qui siamo in presenza di tutti gli
elementi sacrosanti della democrazia, compresi partiti, parlamenti ed
elezioni. Gli elettori, però, non sono tutti uguali: il peso del
loro voto dipende dal livello di conoscenza della politica. Si può
trattare di uno aggiuntivo per alcuni o anche dell’esclusione di
altri, che non abbiano i requisiti. Come giudicarli? Nel suo Against
democracy prospetta diverse possibilità: conferire, appunto, il
supervoto a chi ha un determinato titolo di studio. O sottoporre gli
elettori a un esame di idoneità. Esiste anche la possibilità che
questi superelettori costituiscano un consiglio ristretto, che possa
imporre il veto a certe decisioni del potere politico. Brennan avanza
qualche ipotesi rispetto a chi sarebbe favorito dall’epistocrazia:
negli Usa, il livello di conoscenza in campo politico è più elevato
ovviamente tra chi ha titolo di studio e reddito superiori. E in
genere appartiene ai simpatizzanti dei Repubblicani più che di altri
partiti. Il livello scende tra i neri e le donne. Tutto questo,
diciamolo, diventa un po’ inquietante. Prima di Brennan, molto
prima di lui, John Stuart Mill, in Considerazioni sul governo
rappresentativo (1861), già proponeva un voto extra per i più
colti. In quel testo sosteneva il suffragio universale. Ma, appunto,
temperato dal «voto plurimo ». Che doveva sconfiggere il dispotismo
della maggioranza. Pure così, forse, si sarebbe evitata la Brexit. E
forse anche la valanga Trump.