monoteismo
Avvenire 06.11.16
Vincenzo Rosito
Ma la storia è davvero a una svolta epocale?
Scorgiamo ovunque fini e inizi. Filosofi e storici si interrogano su rotture e continuità.
L'uomo spera sempre di vivere di persona un crinale decisivo della storia
Una
delle questioni che maggiormente inquieta e affascina l’uomo
contemporaneo non è conoscere approfonditamente le peculiarità del tempo
in cui vive, ma stare al passo con le fratture del tempo. «Vivere in
un’epoca di cambiamento e di passaggio» è diventata la prospettiva
privilegiata da cui valutare l’instabilità del tempo presente. Corriamo
così il rischio di scorgere ovunque svolte epocali: la cosa ci affascina
e probabilmente asseconda il singolare piacere che l’uomo avverte
situandosi sui crinali della storia. Siamo tentati di esercitare un
profetismo minuto e ossessivo ogni qual volta denunciamo l’insorgere di
un’epoca diversa dalla precedente. La storia umana è resa simile a un
corpo disteso e inerte sotto lo sguardo analitico di un uomo che si
lascia affascinare più dalle giunture spezzate, che dalla splendida
continuità fisica. «Se prestiamo attenzione alle metafore con le quali
viene descritta l’odierna situazione epocale, troviamo continuamente
concetti quali “fine” o “crisi”, ma anche un largo uso del prefisso
“post” – valori post-metafisici, società post-industriale, post-moderno –
per indicare il nuovo che deve contraddistinguere il presente e il
futuro. Anche qui incontriamo la stessa remora concettuale nei confronti
del futuro: la coscienza diffusa è quella di una fine dell’epoca
attuale, di una transizione ad una nuova situazione che, però, non si sa
descrivere in modo positivo». In queste parole del sociologo tedesco
Franz-Xaver Kaufmann è possibile scorgere un tratto distintivo della
comune disposizione nei riguardi della storia e delle sue età. Ogni
rottura epocale rischia di essere vissuta in termini esclusivamente
rimediali e negativi: abbiamo la percezione di sconfinare più o meno
drasticamente in un’epoca diversa dalla precedente solo in funzione di
ciò che ci lasciamo alle spalle e non in virtù degli “stati nascenti”
annunciati dai vagiti di una nuova epoca. Si ha l’impressione che la
storia umana venga sfogliata con una velocità crescente e che uno strano
piacere accompagni la mano delle generazioni nel voltare sempre più
spesso pagina, salvo accorgersi che il volume resta lo stesso e che,
nonostante il proliferare di diagnosi storiche di rottura, le pagine
delle varie epoche rimangono incardinate nel medesimo asse. Pubblicando
nel 1949 il saggio Origine e senso della storia, Karl Jaspers parla per
la prima volta dell’esistenza di una “Età assiale” (Achsenzeit) ovvero
di uno stabile riferimento storico-culturale nel quale le epoche
storiche successive hanno continuato a muoversi e succedersi. Per Età
assiale deve intendersi un arco temporale che va dall’800 al 200 a.C. In
questo periodo, all’interno del continente euroasiatico, hanno preso
vita tradizioni religiose e filosofiche di assoluta rilevanza storica.
Da quel momento in poi le varie epoche umane ruoterebbero attorno a un
perno comune e stabile. Nel corso del periodo assiale e in maniera
indipendente si sono succeduti straordinari eventi e figure: in Cina
vive Confucio, in India Buddha, in Iran si propagano le dottrine di
Zarathustra, mentre in Palestina, nel contesto del profetismo ebraico,
si muovono le figure di Elia, Isaia e Geremia. Non meno rilevante è la
nascita della filosofia in seno alla cultura classica greca. Parlare
oggigiorno di Età assiale significa addentrarsi nel fecondo dibattito
che sta interessando ormai da diversi decenni ambiti scientifici e
culturali diversi. Dalla diffusione dell’opera di Jaspers, da poco
riedita in Italia (Origine e senso della storia, Mimesis 2015), fino
alla pubblicazione del più recente saggio di Jan Assmann (Il disagio dei
monoteismi. Sentieri teorici e autobiografici; Morcelliana, pagine 112,
euro 11,00), la discussione sulla rottura assiale sembra arricchirsi di
nuovi contributi critici. L’aspetto più interessante dell’intero
dibattito risiede nel fatto che ciascuno dei suoi esponenti ha
evidenziato una dimensione prioritaria dell’assialità. Alcuni studiosi
considerano infatti l’età assiale prima di tutto una svolta radicale
nell’autocomprensione delle religioni. Per la prima volta il sacro
verrebbe connesso con l’idea della salvezza individuale e personale. La
rottura che si consuma è pressoché radicale: dalle cosiddette religioni
mitiche, fortemente improntate da una certa indistinzione tra il divino e
il mondano, si passa alle nuove religioni di salvezza in cui le due
sfere si separano generando una vera e propria “elevazione verticale”.
La regalità sacrale, in modo particolare quella dell’Antico Egitto, si
sgretola lentamente poiché il mondo umano-divino non è più percepibile
come realtà unica e coesa. Un ulteriore elemento di cambiamento è la
connessione logica tra la sfera del divino e quella della verità. Nella
religiosità assiale compare per la prima volta l’idea secondo cui la
dimensione del sacro è anche la dimensione più autenticamente vera e
reale. Svanisce dunque l’immagine del re divino che presiede e regge le
cose mondo, mentre si fanno progressivamente largo figure di
intermediari tra il piano della contingenza umana e quello della verità
divina. Sono personaggi che il filosofo statunitense Robert Bellah
racchiude nell’immagine dei rinuncianti: nuovi soggetti che, in virtù di
una rivelazione divina o di una qualche forma di ascesi personale,
pretendono di essere capaci di cogliere l’essenza del trascendente e di
portarla a tutti gli altri uomini. Il rinunciante è sovente anche un
denunciante ovvero qualcuno che, come sempre più spesso accade, viene
emarginato ed estromesso; destini che in qualche modo accomunano i
pensatori vanganti cinesi, gli asceti indiani, i profeti d’Israele o i
primi filosofi greci. Su un altro versante si collocano coloro che
interpretano l’Età assiale in funzione di un radicale mutamento logico e
filosofico, prima ancora che religioso e culturale. È questa la
posizione occupata dal sociologo tedesco Hans Joas il quale rinviene nel
periodo assiale prima di tutto la svolta di un pensiero che si fa
ri-flessivo. In questo senso l’assialità designa l’alveo della
razionalità umana intesa come capacità di ritornare sul dato
dell’esperienza e come facoltà di avvalorare o giustificare la validità
dei propri principi e contenuti. La razionalità riflessiva è dunque il
tratto dirimente della scena assiale in cui, secondo Joas, siamo ancora
immersi. Tale contesto sembra essere tutt’ora intimamente contrassegnato
da «una tensione amplificata in modo inaudito tra l’ideale e la
realtà». Proprio perché intimamente animate dalla spinta alla
riflessività, le civiltà post-assiali sono in grado di conciliare un
altissimo grado di frammentarietà con la continuità logica e strutturale
che le sorregge. I continui processi di secolarizzazione e
de-secolarizzazione che hanno accompagnato l’evoluzione della civiltà
occidentale possono in qualche modo essere ricomposti, sebbene non
deterministicamente, all’interno di un generale orizzonte riflessivo non
ancora pienamente dispiegato. La storia è ancora disseminata di
potenziali germogli.