giovedì 10 novembre 2016

Repubblica 10.11.16
Fai bei sogni
La vita di Mastandrea si perde attorno alla Grande Bugia
Il film di Bellocchio non decolla per una certa mancanza di misura e per alcuni passaggi ricchi di potenzialità ma non sviluppati

MASSIMO Gramellini è uno dei giornalisti italiani di maggior notorietà della sua generazione (classe ’60). Torinese, entrato nel mondo dell’informazione attraverso le sue passioni sportive per poi, alla Stampa, passare alla politica negli anni 90 di Tangentopoli e della Bosnia. Vicedirettore della testata, titolare di una fortunata rubrica in prima pagina, infine romanziere.
Fai bei sogni (Longanesi) diventa fenomeno editoriale nel 2012. È la confessione autobiografica del dolore per la perdita della mamma a soli nove anni e di quanto questo dolore abbia pesato sulla sua vita.
Marco Bellocchio (come ha dichiarato lo stesso regista), ha trovato nel libro qualcosa che lo ha toccato. La figura materna, l’incombere di tragedie familiari, sono motivi che Marco porta con sé, nella sua opera, fin dal suo fulminante Pugni in tasca del 1965, aspro e dissacrante, bandiera di ribellione. E, nonostante una sensibilità molto diversa, ha ritenuto di poter tradurre il libro in un proprio film, adattandolo a sé. Valorizzando il sentimento di rabbia che Massimo porta con sé.
Il potente prossimo alla caduta di Mani pulite gli tiene una lezione, ascoltata rapito, sul fatto che le persone felici non combinano niente e che per combinare qualcosa occorre una riserva di odio. Il prete (un meraviglioso Roberto Herlitzka) tenta di svegliare Massimo adolescente dalla bugia (il ragazzo mente ai coetanei nascondendo la morte della madre. Ma la Bugia è il fondamento di una relazione con la figura materna, e le modalità della sua morte, che accompagna Massimo fin oltre i quarant’anni) scuotendolo dalla tentazione vittimistica e spiegandogli che si diventa grandi nonostante le avversità, i dolori, le ingiustizie subite.
Ma il film non prende mai il volo. Lascia l’impressione che il movimento non sia stato da Gramellini verso Bellocchio ma l’inverso. Sono rare le zampate riconoscibili del suo stile. Lo è la crudele apparizione di Piera Degli Esposti madre anaffettiva e inflessibile di un tale che si è messo a nudo in una lettera al giornale in cui confessa di odiarla, cui Massimo risponde raccontando la propria esperienza e guadagnandosi, in mezzo al commosso plauso generale, il disprezzo del vecchio collaboratore (Giulio Brogi, altra zampata) che lo accusa di essersi venduto l’anima alla carriera. Spie, se non prove, sono una certa mancanza di misura (anche nella durata del film) e il fatto che alcuni passaggi ricchi di potenzialità emozionanti non riescano a decollare. Per esempio il ricorrente rifugio di Massimo nelle fantasticherie che hanno a protagonista Belfagor, personaggio di una celeberrima serie televisiva degli anni 60. Per esempio quel secondo twist che Massimo adulto, dopo l’incontro con la donna della sua vita Elisa, si getta a ballare sfrenatamente evocando il primo twist spensieratamente ballato da bambino con la mamma. Il fatto è che quella di Gramellini è la testimonianza autobiografica di un uomo comune. Senza offesa: nel senso che non è la trasfigurazione di un artista.
Quella che Marco Bellocchio, con tutti i ben superiori titoli che possiede, appesantito dal punto di partenza che ha scelto, è riuscito a realizzare solo parzialmente nella scelta di un interprete (Valerio Mastandrea) lontano da ogni tentazione mimetica.
Regia di Marco Bellocchio Con Valerio Mastandrea, Bérénice Bejo Guido Caprino, Fabrizio Gifuni, Miriam Leone