MONDO
Il Sole 27.11.16
Il futuro dell’Europa nelle mani di Angela
di Alberto Quadrio Curzio
In
un’Europa traballante si vanno delineando scenari che caratterizzeranno
i prossimi 5 anni non appena Germania e Francia avranno superato il
test elettorale. Anche gli eventi italiani, sul crinale del referendum e
delle elezioni (che arriveranno al più tardi nel 2018), conteranno
molto. La riflessione oggi può essere solo per congetture da aggiornare
con il divenire degli eventi. Intanto molto significativa è la decisione
della cancelliera Merkel di ricandidarsi mentre, quasi in
contemporanea, il ministro delle Finanze Schäuble attacca la Commissione
Ue. Abbiamo accostato i due fatti, apparentemente distanti, perché
denotano le diverse visioni di due leader del Paese guida dell’Europa.
Per questo il quarto mandato della Merkel sarà segnato anche dal
ministro delle Finanze che la affiancherà perché, se sarà Schäuble,
difficilmente la Germania rilancerà la crescita dell’eurozona come
chiede la Commissione europea.
Il motore tedesco. Quella
Commissione che nelle valutazioni autunnali e nel parere sul documento
programmatico di bilancio tedesco segnala che la crescita tedesca
proseguirà con un solida situazione occupazionale (la disoccupazione è
intorno al 4,5%),con un robusto andamento dei consumi, delle
esportazioni e con un boom degli investimenti in costruzioni che
spingeranno ulteriormente la crescita e gli investimenti in macchinari. T
ra il 2015 e il 2018 si calcola che il surplus di parte corrente con
l’estero arrivi ai massimi storici (tra l’8 e il 9% del Pil) e che il
bilancio pubblico prosegua in surplus (tra lo 0,8 e lo 0,5% del Pil)
mentre il debito pubblico scenderà dal 71 al 63%. La Commissione rileva
però che i surplus sono eccessivi perché le soglie da rispettare in base
agli accordi europei sono un massimo del 6% del Pil per il surplus
sull’estero e il pareggio di bilancio pubblico. Per la Commissione la
Germania dovrebbe perciò spingere gli investimenti pubblici in
infrastrutture, istruzione, ricerca e innovazione (come più volte
raccomandato in passato anche dall’Fmi) anche perché in tal modo si
darebbe un contributo importante alla crescita delle eurozona. La Uem
soffre infatti ancora l’eredità della crisi anche se il reddito reale ha
superato i livelli precrisi ed anche se vi è una buona creazione di
posti di lavoro. Eppure l’occupazione e la disoccupazione (oggi vicina
al 10%)non sono ancora ritornate ai livelli di 10 anni fa. Quanto alla
media dell’euro-aggregato dei bilanci pubblici vi è un deficit modesto e
un debito sul Pil intorno al 90% mentre il surplus di parte corrente è
buono, intorno al 3,5%. La crescita rimane però debole e per questo si
chiede da molte parti alla Germania di aumentare gli investimenti per
generare effetti moltiplicativi sulla Uem.
Rigorismo e crescita.
Di fronte a questa richiesta ,che appariva più un buffetto che uno
schiaffo della Commissione, Schäuble ha reagito duramente al Bundestag,
che lo ha applaudito. Ha difeso la legge di bilancio tedesca esaltando
la capacità di esportare della Germania e accusando la Commissione
europea di non controllare bene i Paesi che debordano dai limiti del
deficit e del debito. L’attacco punta probabilmente a bloccare anche la
recente impostazione della Commissione per una politica espansiva con
più investimenti pari allo 0,5% del Pil dell’eurozona nel 2017 che
dovrebbe essere fatto dai Paesi in surplus. Le esortazioni e le proposte
della Commissione per la crescita hanno avuto un importante correlato
politico nel Parlamento europeo dove i Popolari si sono allineati (pur
con dei notevoli distinguo) al rigorismo del loro capogruppo bavarese
mentre i Socialisti sono favorevoli a una politica di crescita che
porterebbe ad un miglior risultato anche in termini di finanza pubblica.
Importante è che il presidente del Parlamento Schulz sia procrescita.
Per questo ci auguriamo che dopo le elezioni tedesche che lo vedranno
tra i protagonisti diventi ministro delle Finanze in un prossimo governo
Merkel. La tensione riguarda due visioni dell’eurozona che non verranno
conciliate con la prossima riunione dell’eurogruppo. Purtroppo
bisognerà aspettare ancora (forse) fino a elezioni concluse in vari
Paesi europei. Speriamo che non sia troppo tardi per riprendete il
rafforzamento della Uem.
Pragmatismo e ideali. Per questo dobbiamo
apprezzare molto, come europei, Angela Merkel che ci ha dato una
certezza con la sua ricandidatura. Nelle ricostruzioni “storiche” si
dice che Schäuble è da sempre un grande europeista mentre la Merkel lo è
diventata facendo esperienza come cancelliere. Può essere, ma adesso è
lei che ha una visione politica ampia mentre il primo si sta chiudendo
in una specie di localismo economico germanico. Noi crediamo che Merkel
si sia ricandidata per ragioni politico-ideali nella consapevolezza che
l’Europa e la Germania sono a rischio per i populismi crescenti,
l’immigrazione, le tensioni internazionali ma anche per la fragile
crescita dell’insieme che crea risentimenti antitedeschi. Il
cancelliere,dopo aver detto che non presume di risolvere da sola questi
problemi e che in politica bisogna bilanciare gli interessi e accettare
dei compromessi finalizzati a progressi graduali, ha aggiunto «cerco
sempre di farlo sulla base dei nostri valori: la democrazia, la libertà,
il rispetto per la legge e per la dignità di ogni essere umano,
indipendentemente dalle sue origini, dal colore della pelle, da
religione, genere, orientamento sessuale o posizione politica».
Non
possiamo sottoporre a verifica questa affermazione né possiamo
rivisitare quali errori abbia commesso nei quasi 12 anni di
cancellierato (che lei ha onorato con serietà e dignità) e di crescente
influenza nel governo dell’Europa. Alcuni elementi ci bastano però per
dire che Merkel ha contribuito ad evitare il disfacimento dell’eurozona
nella crisi sia condizionando i “falchi” alla Schäuble e dando il
sostegno a Mario Draghi sia decidendo, sia evitando di farsi
condizionare da una parte importante dell’opinione pubblica tedesca
nell’accoglienza ai migranti. Speriamo dunque che Merkel, se sarà
confermata cancelliere, consegua “almeno” due risultati: gli eurobond
ovvero titoli di debito pubblico europei; un apparato di difesa comune.
Perchè,se vuole passare alla storia come Kohl,non basta eguagliarlo per
la durata di cancellierato.
il manifesto 27.11.16
Francia
Destra: ballottaggio tra conservazione e reazione
Francia/primarie
centrodestra . Juppé e Fillon si contendono la candidatura per le
presidenziali di primavera. Entrambi liberisti, divergono solo
sull'intensità della purga sociale. Differenze chiare invece sulla
visione della società, "multiculturale" per Juppé, con "radici
cristiane" per Fillon. I dubbi degli elettori di sinistra
di Anna Maria Merlo
PARIGI
La destra francese sceglie oggi, al ballottaggio delle primarie, chi
sarà il candidato della conservazione alle presidenziali della prossima
primavera e che avrà buone possibilità di conquistare l’Eliseo. Due
politici in attività dagli anni ’80 si contendono la nomina: Alain Juppé
(nato nel ’45) e François Fillon (’54), entrambi ex primi ministri. Il
primo turno è stato un successo di partecipazione, con più di 4 milioni
di votanti (che hanno versato 2 euro e firmato una dichiarazione di
adesione ai «valori repubblicani» della destra). La sinistra,
impantanata nelle proprie divisioni e ammaccata dall’impotenza della
presidenza Hollande, sta a guardare.
Gli elettori di sinistra sono
in preda al dubbio: andare a votare, facendo qualche compromesso con
l’etica firmando l’adesione ai «valori» del campo opposto, per favorire
la destra meno bacchettona e meno punitiva di Alain Juppé, oppure stare a
guardare la probabile vittoria di Fillon, arrivato ampiamente in testa
al primo turno (44% contro 26%), con la speranza che così si apra uno
spazio più ampio per il candidato della social-democrazia (ancora senza
nome).
Juppé è Fillon non hanno programmi molto distanti in
economia. Entrambi liberisti, differiscono per intensità nella
somministrazione della purga sociale: tagli al pubblico impiego (meno
500mila per Fillon, meno 200-300mila per Juppé), fine delle 35 ore (per
portare a 48 ore l’orario legale per Fillon e 39 per Juppé), austerità
generalizzata per i più modesti e meno tasse per i ricchi (via la
patrimoniale), età della pensione a 65 anni, fine della sanità gratuita
per i più poveri (Fillon propone una dose di privatizzazione per tutti).
Fillon vuole copiare Thatcher 35 anni dopo, Juppé è più moderato, per
non traumatizzare una società «fragile».
Juppé
La vera
differenza sta invece sulla visione della società. Nella settimana tra
il primo e il secondo turno, c’è stata la polemica sull’aborto, con seri
timori di restrizioni (almeno sui finanziamenti) se dovesse vincere
Fillon, che è «personalmente» contrario e, dice, non vuole «banalizzare»
l’interruzione volontaria di gravidanza. Differenze anche sulla legge
Taubira che ha legalizzato il matrimonio omosessuale: Juppé non la
toccherà mentre Fillon vuole ostacolare le adozioni e ha persino evocato
la possibilità di far uscire la Francia dalla Corte europea dei diritti
dell’uomo perché ha condannato Parigi per non aver registrato dei
bambini di coppie francesi nati all’estero con la Gpa (gestazione per
altri). Juppé constata che la Francia è una «società multiculturale»,
Fillon insiste sulle «radici cristiane» ed è stato definito dal suo
avversario come «retrogrado», «nostalgico dell’ordine antico». Da queste
prese di posizione derivano differenze nei confronti dell’islam.
La
fachosphère, le reti sociali di estrema destra, hanno sostenuto a fondo
Fillon, battezzando il rivale «Alì Juppé» (perché a Bordeaux, dove è
sindaco, ha rapporti distesi con i musulmani). Fillon, del resto, vuole
rimettere al loro posto gli immigrati: «quando si arriva a casa d’altri
non si dettano le regole», in altri termini lo scontro tra i due
contendenti è tra «assimilazione» e «integrazione». Fillon ha anche
evocato l’idea di rivedere i manuali scolatici di storia, per tornare
alla «narrazione nazionale» di un tempo (vuole mettere anche i grembiuli
agli allievi).
Nel dibattito delle primarie della destra, alcuni
temi sono stati sorprendentemente assenti: primo tra tutti, l’Europa.
Juppé e Fillon hanno parlato molto più di Putin che di Bruxelles.
Difatti, Fillon vuole avvicinarsi alla Russia (e a Bachar in Siria) per
«realismo», Juppé lo accusa di «compiacenza» con il Cremlino.
Per
Fillon hanno partecipato in forze al primo turno i cattolici
tradizionalisti. Juppé ha un handicap non da poco: è stato condannato
nel 2004 a 14 mesi con la condizionale e a un anno di ineligibilità per
false assunzioni al comune di Parigi, quando Chirac era sindaco.
Corriere 27.11.16
Usa, si ricontano i voti nel Wisconsin Hillary e il miraggio della Casa Bianca
Sospetti di hackeraggio anche in altri due Stati. Ma Obama: il risultato non si discute
di Giuseppe Sarcina
NEW
YORK Si ricontano i voti. La Commissione elettorale del Wisconsin ha
deciso di accogliere il ricorso presentato dalla candidata dei Verdi,
Jill Stein, non senza aver prima incassato i 5 milioni di dollari
necessari per coprire le spese. In questo Stato del Nord industriale,
Donald Trump ha vinto di misura, e a sorpresa, l’8 novembre,
raccogliendo 1.409.467 preferenze contro 1.382.210 di Hillary Clinton.
Stein ha ottenuto solo 31.006 consensi e l’altro candidato che ha
firmato la petizione, Rocky Roque De La Fuente, del partito riformista,
ancora meno: 1.514.
I due, però, sollevano una questione di
regolarità generale, chiedendo la revisione anche in Michigan e in
Pennsylvania. La tesi del duo Stein-De La Fuente è che ci siano state
manipolazioni interne o intrusioni di hacker nei computer degli uffici
elettorali. Prove? Nulla di stringente, per ora. Solo analisi elaborate
da esperti e accademici, tra i quali J. Alex Halderman, dell’Università
del Michigan. Con un sospetto cardine: nei distretti in cui si è
proceduto alla vecchia maniera, urne e schede di carta, l’esito è stato
più favorevole a Clinton rispetto ai collegi in cui si è adottato il
voto elettronico. Ieri mattina, però, un comunicato della Casa Bianca ha
stroncato l’iniziativa: «I risultati del voto dell’8 novembre
riflettono accuratamente la volontà del popolo americano».
Il
meccanismo prevede la ripartizione di 538 grandi elettori Stato per
Stato, sulla base della somma dei deputati e senatori espressi da ogni
singolo territorio. Diventa presidente chi raggiunge la soglia di 270
rappresentanti. Trump ne ha totalizzati 290; Clinton 232. Mancano i 16
grandi elettori del Michigan, dove però «The Donald» è già dato
vincente. Il Wisconsin esprime 10 seggi. Da solo, non basterebbe a
ribaltare il risultato finale. Ma se il riconteggio fosse accettato
anche in Michigan (16 grandi elettori) e in Pennsylvania (20),
tornerebbe in gioco un pacchetto decisivo di 46 rappresentanti. A quel
punto, se in tutti e tre gli Stati il verdetto finale a favore di Trump
fosse capovolto, Hillary si ritroverebbe nello Studio Ovale con 278
rappresentanti. Ma prima che intervenisse lo staff di Obama, Marc Elias,
consigliere generale della campagna di Hillary, aveva precisato: «Non
ci risultano indizi di hackeraggio». Tuttavia Elias annuncia che gli
esperti della sua squadra parteciperanno al nuovo scrutinio in Wisconsin
ed eventualmente in Michigan e in Pennsylvania. Le regole consentono a
tutte le parti in causa di assistere al ricalcolo e impongono a chi
presenta ricorso di pagare le spese. Stein ha raccolto i fondi per
cominciare dal Wisconsin e, sembra di capire, lo staff di Hillary
assisterà, ma senza versare un dollaro. Non resta molto tempo. Il 19
dicembre 2016 si riuniranno i 538 delegati per ratificare la nomina di
Trump.
Il Sole Domenica 27.11.16
Albert Bandura
Strategie demoralizzanti
La linea dominante della campagna di Trump è stata la deumanizzazione
di Gilberto Corbellini
La
linea dominante della campagna di Trump è stata la deumanizzazione, le
cui radici stanno nella tendenza al disimpegno etico studiato dallo
psicologo premiato da Obama
Perché le persone si comportano male,
cioè uccidono, torturano, rubano, molestano bambini, corrompono,
inquinano? Per Platone e la tradizione dell’etica razionalista, dipende
da fatto che non sanno cosa è il bene o non conoscono la legge. Ma
un’ipotesi alternativa è che pur conoscendo la differenza fra bene e
male, le persone facciano del male in quanto per qualche motivo
fuorviati da meccanismi psicologici di autogiustificazione: sanno di
aver violato norme etiche nelle quali si riconoscono, ma in qualche modo
si sono immunizzati contro gli effetti deterrenti di riprovazioni o
sanzioni.
Il più citato psicologo vivente, e il terzo più citato
in assoluto dopo Freud e Piaget, cioè Albert Bandura, difende la seconda
ipotesi. Negli anni Ottanta ha creato il concetto di «disimpegno
morale» per spiegare la logica psicologica dietro a queste
contraddizioni, che consiste nel giustificare il comportamento immorale,
eludendo le autovalutazioni e i sentimenti negativi (es. senso di
colpa) che derivano dall’aver deviato da valori etici condivisi. Queste
bugie servono, per esempio, a inventare una «giusta causa» che renda
quel che si è fatto meno riprovevole. Questi processi cognitivi
neutralizzano gli spiacevoli effetti dei sentimenti socio-emozionali,
come simpatia, colpa o vergogna, che orientano verso scelte moralmente
apprezzate.
Premiato il 19 maggio scorso da Obama con la
prestigiosa National Medal of Science, alla veneranda età di novant’anni
Bandura ha dedicato una monografia alla sua teoria, applicandola ai
grandi temi sociali eticamente controversi (soprattutto in Nord
America), come il possesso di armi, il terrorismo, l’uso della tortura,
l’inquinamento ambientale, la corruzione, la pedo-pornografia. Il libro è
molto chiaro e abbraccia un’impressionante vastità di ricerche
empiriche.
Il disimpegno morale si manifesta attraverso una serie
di meccanismi (otto) che intervengono nei quattro ambiti che definiscono
una situazione moralmente rilevante: il comportamento, l’agire, gli
effetti e la vittima. L’ambito comportamentale riguarda i processi messi
in atto per trasformare un comportamento dannoso o immorale, in uno
accettabile, attraverso la giustificazione morale («Dio vuole che io
uccida queste infedeli», «queste persone si sono arricchite a danno di
tutti e meritano che qualcuno gliela faccia pagare», etc.),
l’etichettatura eufemistica, come quando i morti civili sono chiamati un
«danno collaterale» o i bombardamenti sono definiti «chirurgici», e il
paragone vantaggioso che fa apparire un azione «non così malvagia» se
paragonata a un’altra peggiore, come accade paragonando l’uso della
violenza a contesti dove a posteriori è stata giudicata legittima (es.
una lotta politica violenta comparata alla Rivoluzione Americana).
A
livello dell’agire morale, operano i meccanismi di spostamento o
nascondimento della responsabilità, che consentono alle persone di
giustificare il loro comportamento mostrando che si tratta
dell’esecuzione di ordini superiori (es. uso della tortura negli
interrogatori), e di diffusione della responsabilità per una condotta
deteriore, ad esempio minimizzando il proprio ruolo nel maltrattare
detenuti in un campo di prigionia e incolpando il gruppo per l’azione
immorale. Per quanto riguarda gli effetti, il disimpegno morale si
manifesta attraverso la distorsione o minimizzazione delle conseguenze, e
qui Bandura se la prende pesantemente con la Chiesa Cattolica, che ha
tollerato e nascosto così a lungo gli abusi sessuali ai danni di minori.
In
merito alla vittima, i meccanismi descritti da Bandura sono la ben nota
deumanizzazione, che consiste nel considerare le vittime oggetti,
esseri inferiori o parassiti da eliminare (come i nazisti con gli ebrei o
gli integralisti religiosi con gli infedeli) e nell’attribuire la colpa
alla vittima o alle circostanze. In occasione dell’annuale convention
dell’American Psychological Association, tenutasi a Denver agli inizi
dell’agosto scorso e ancora in un’intervista di due settimane fa,
Bandura ha detto che la deumanizzazione è stato il «meccanismo
dominante» usato da Donald Trump nella sua campagna presidenziale.
Il
disimpegno morale è stato descritto in diversi contesti trasgressivi
rispetto a comportamenti prosociali, ed è predittivo di aggressività e
violenza nella tarda adolescenza, o di bullismo. Sembra che favorisca
anche il consumo di video violenti e i comportamenti trasgressivi
(furto, menzogna, aggressione, distruttività, assenteismo e abuso di
alcol e droga). Si è visto che le condizioni di sviluppo infantili e il
contesto adolescenziale influenzano il grado di disimpegno morale.
L’approccio
cognitivista di Bandura dà grande peso ai modelli e alle dinamiche
funzionali autoregolative del comportamento, ed è abbastanza
impermeabile alle idee e spiegazioni degli stessi fenomeni emerse
nell’ambito degli approcci evoluzionistici. Nel libro si discute di
autoinganno senza spendere una parola sulle ricerche che partono da
Robert Trivers, e non sono mai citati i lavori di Jonathan Haidt. Là
dove si discutono idee evoluzioniste, sembra che il tempo si sia fermato
a Steven Jay Gould. L’attenzione per la neuroetica è quasi un
riempitivo scolastico-compilativo.
Non è insensato pensare che il
disimpegno morale fosse una strategia vantaggiosa per i nostri antenati
vissuti per centinaia di migliaia di anni in contesti sociali molto più
violenti e strumentali, per cui era funzionale razionalizzare in qualche
modo comportamenti antisociali, che chi non è sociopatico vive come
emotivamente disagevoli, e spesso attiva in funzione sia aggressiva sia
di difesa. Questi meccanismi continuano a funzionare, benché molto sia
cambiato, perché la nostra genetica è fondamentalmente la stessa. E,
probabilmente, il disimpegno morale non funziona solo nel senso in cui
lo applica Bandura, per il quale i valori buoni sono per definizione
quelli liberal e le deviazioni da questi richiedono qualche
giustificazione. In realtà, sono state le contingenze storiche a
consentire lo sviluppo di società dove certi valori sono apprezzati, a
scapito di altri, ed è socialmente vantaggioso praticarli. Peraltro, chi
è favorevole alla pena di morte, al possesso di armi o a usare la
tortura per evitare stragi terroristiche, non pensa di star facendo
qualcosa di immorale.
Cinque studi pubblicati due anni fa dallo
psicologo delle decisioni Scott J. Reynolds per capire il «ruolo della
conoscenza nell’immoralità quotidiana»”, cioè «quanto conta sapere cosa è
giusto», mostrano che la conoscenza morale influenza significativamente
le scelte nelle situazioni quotidiane, più dei processi che
caratterizzano il disimpegno morale. Sul piano teorico e tenendo conto
delle misure effettuate, sembra che la tendenza al disimpegno morale
«dipenda da scarse capacità di ragionamento morale e/o da
razionalizzazioni post hoc e autoprotettive del comportamento».
Albert Bandura, Moral Disengagement. How People Do Harm and Live With Themselves , Macmillan, New York, pagg. 544, $ 46,75
La Stampa 27.11.16
La violenza sulle donne normalizzata nella società islamica
di Karima Moual
La
violenza sulle donne, nella società islamica, si respira prima ancora
di essere sperimentata. Un ricordo che si scopre in un colloquio a due
che ho voluto affrontare con Rabii El Gamrani, giovane marocchino che
vive in Italia.
«Sono cresciuto in una casa di donne,
“Dar El Bnat”. Sono sesto di una famiglia di 7 figli. Mio fratello più
grande se n’è andato troppo presto di casa, lasciandomi l’unico maschio
fra 5 sorelle. Ma le donne di casa mia non si riducevano a quelle 5
sorelle. Oltre la madre c’erano la nonna, le zie, le cugine, le zie
della madre, le zie del padre. E così sono cresciuto in una casa di
donne. Sommerso fra le bende sanguinolenti, che le mie sorelle usavano
per contrastare il ciclo, mi è capitato di odiare quel fratello che è
partito troppo presto lasciandomi disarmato ad affrontare il sangue
delle mie sorelle. Mi è capitato di avere molta nostalgia di lui, di
fantasticare su di lui. Ma dov’era?».
Ricordati che «sei l’uomo.
Nta Rajel. Nta Rajel». Questa frase l’avrà sentita ripetere nei momenti
più diversi a suo fratello - il maschio della famiglia - già dall’età di
4 anni.
Dove sono nato e cresciuto, a Casablanca, già da bambini
si gioca per strada, e ti confronti allora subito con la violenza del
mondo, senza mediazione alcuna, o poca. Nel mio quartiere ero l’unico
ragazzino che aveva un fratello senza averlo, perché non c’era. Avrei
dovuto sviluppare un carattere forte, versatile, se volevo evitare i
soprusi degli altri ragazzini del quartiere. Io non avevo un fratello
grande che mi poteva difendere o vendicarmi, perciò potevo essere un
bersaglio facile di abusi, da parte di quel mondo aggressivo e
stratificato che sono i quartieri periferici di Casablanca. Credo di
essere riuscito ad evitare il peggio, anche se di abusi ne ho subiti, e
il mio corpo ne porta ancora qualche traccia. Ho evitato il peggio
grazie alla componente femminile della mia famiglia.
Che sia una sorella o una zia. La propria donna o la propria madre, non importa.
Il
Rajel, in una società patriarcale con forti inclinazioni misogine,
oltre ad essere educato come essere superiore, ha il dovere di praticare
il controllo sul corpo e sulla libertà di movimento della donna,
altrimenti che uomo è?
Quelle volte in cui sono stato vittima di
qualche bullo, le mie sorelle mi hanno sempre difeso con una tale
spavalderia che solo una sensibilità femminile poteva avere. Non si
perdevano in imprecazioni volgari, come facevano i maschi. Erano di
poche parole e decise. Appena venivano a sapere di qualcuno che mi aveva
fatto del male, la loro vendetta era assicurata, prima o poi avrebbero
saldato i conti. Mia sorella Souad non mancava di fantasia. Sono
cresciuto in casa di donne. Ricordo alcuni litigi con qualche sorella,
ma era roba da poco, avevo compreso che non ci poteva essere partita.
Avevo capito - per necessità di sopravvivenza o per amore spassionato
verso quelle donne che mi proteggevano dal mondo e mi coprivano di
tenerezza e amore.
Si era ribellata perché non ne aveva diritto.
Una ragazza di 18 anni, pur se residente in Nord Italia, perfettamente
integrata e prossima all’università, non aveva diritto ad innamorarsi e
meritava dunque la faccia sull’asfalto per ricordarsi che non aveva la
libertà di muoversi se non all’interno di limitati binari costruiti
secondo la logica della repressione femminile. Un labirinto di regole.
Un costruire il Haram (peccato) nella donna, e un Halal (lecito) per
l’uomo in una cornice di ipocrisia, con il risultato di dar vita a
uomini malati, violenti e paradossalmente fragili.
Ho capito cosa
significa per una ragazza avere un fratello maggiore, quando
adolescente, sono stato beccato con la mia fidanzatina dell’epoca da suo
fratello. Parliamo di un amore adolescenziale. Eravamo poco distanti
dalla scuola, lei con il suo grembiule bianco ed io con lo zaino in
spalla, appoggiati ad un albero, forse le tenevo la mano. Il fratello
spuntò da non si sa dove accompagnato da altri suoi amici. Non ebbi
nemmeno il tempo di accorgermene, che la sua furia si abbatté sulla
sorella e su di me. Nel menarmi si associarono anche i suoi amici. La
mia umiliazione e la sua sono durate tantissimo. Forse da quel giorno
non siamo più stati in grado di guardarci negli occhi, anche se
studiavamo nella stessa classe; da quel giorno ci siamo evitati. Quello
che ci era accaduto era un fatto normale. Come si può crescere da uomini
e donne con questa violenza normalizzata e legittimata da un’intera
società?
Corriere 27.11.16
L’aborto in discussione Da Mosca a Washington
risponde Sergio Romano
Perché
il Patriarca Kirill ha preso le distanze dalla Lettera apostolica di
papa Bergoglio sulla pratica abortiva? Anche se cristianamente
ineccepibile, secondo me, Francesco può apparire, a torto o a ragione,
troppo «in linea» con un concetto di «libertà» modernista, in tempi che
richiedono
«prudenza».
Francesco Italo Russo
Caro Russo,
Non
credo che vi sia stata una «presa di distanza». Le dichiarazioni
sull’aborto del Pontefice romano e di Kirill, patriarca della Chiesa
russa, affrontano problemi diversi. Francesco ha considerevolmente
facilitato la procedura del perdono alla fine di un giubileo sulla
misericordia, ma non ha modificato la linea della Chiesa Romana. Kirill,
sin dallo scorso settembre, ha firmato un appello per il ripristino di
una sanzione penale contro l’aborto che fu abolita con una delle prima
leggi promulgate da Lenin nel 1920. Oggi, in Russia, il numero degli
aborti, in uno Stato abitato da circa 150 milioni di persone, oscilla
ogni anno fra 700.000 e un milione. Vi è un partito «anti-aborto»,
composto anche da coloro che sono preoccupati dal declino demografico
del Paese; e vi è una corrente della pubblica opinione che si oppone al
ripristino di una sanzione zarista, certamente invisa a una parte della
popolazione femminile.
Vladimir Putin, per il momento, sembra
avere scelto una via di mezzo. È un ortodosso devoto, ostenta
pubblicamente la sua religiosità visitando chiese e conventi con serietà
e compunzione, è legato a Kirill da una vecchia amicizia (si dice
maliziosamente che abbiano stretto buoni rapporti quando erano entrambi
agenti del Kgb). In un articolo di Giulio Meotti sul Foglio del 30
settembre, leggo che Putin, nel 2003, ha imposto «le prime restrizioni
alla legge che regola gli aborti dai tempi di Stalin, eliminando il
diritto ad abortire nel secondo trimestre per motivi di “vulnerabilità
sociale”. Ha dato un bonus alle donne che danno alla luce due figli e
nel 2012 ha introdotto un periodo di attesa obbligatorio, chiamato
“settimana di silenzio”, prima che una donna possa abortire. È stata
vietata la pubblicità delle cliniche dell’aborto nei luoghi pubblici ed è
stato proposto che le donne che vogliono abortire abbiano prima una
ecografia, rendendo così obbligatoria la visione dell’embrione e del
battito cardiaco»: una drammatica esperienza, se venisse approvata, che
dovrebbe indurle a cambiare idea.
Se questa è la situazione in
Russia, quella degli Stati Uniti, per le sorti dell’aborto, non è
migliore. Come ha ricordato Vladimiro Zagrebelsky su La Stampa del 23
novembre, il presidente eletto Donald Trump vorrebbe nominare alla Corte
Suprema, per completarne l’organico, un giudice contrario alla
legalizzazione dell’aborto. L’America potrebbe tornare così al 1972,
quando, nel caso «Roe contro Ward», fu deciso che il divieto dell’aborto
era incostituzionale. Ecco un altro punto su cui Putin e Trump
potrebbero intendersi.
Repubblica 27.11.16
Dove porterà la guerra degli Sciiti
Sempre più milizie iraniane e libanesi muoiono in Siria Un conflitto nel conflitto che aumenterà le ostilità
di Renzo Guolo
MENTRE
all’orizzonte si addensano le nubi sospinte dal minaccioso vento della
vittoria di Trump, a Teheran e nella Beirut degli Hezbollah (“Partito di
Dio”) libanesi, entrambi di fede musulmana sciita, si fanno i conti con
le rilevanti perdite subite nel conflitto siriano. Secondo la
Fondazione dei Martiri di Hezbollah, che ha il compito istituzionale di
dare sostegno finanziario alle famiglie dei caduti, sono più di mille i
soldati iraniani periti in battaglia. Numero che squarcia il velo su una
verità sin qui occultata riguardo ai combattenti sciiti uccisi nella
guerra in Siria: il bilancio ufficiale era, infatti, di quattrocento
morti. Metà dei quali nelle fila dei “volontari” stranieri: afghani di
etnia hazara, insieme agli sciiti pachistani. Componenti di quella sorta
di internazionale la cui costituzione ha un duplice fine: quello, molto
pragmatico, di limitare le perdite iraniane, e quello, politico e
religioso, di mostrare come anche l’universo sciita, spesso opposto a
quello sunnita, possa assumere una dimensione panislamista combattente
quando i suoi valori siano minacciati.
Ufficialmente, infatti,
l’intervento iraniano in Siria è motivato dalla necessità di proteggere i
luoghi santi, come la moschea di Sayyida Zeinab nei pressi di Damasco e
altri mausolei cari ai “seguaci di Alì”, più che i propri interessi
nazionali. Funzione sovrapponibile nel momento in cui l’Iran agisce come
potenza confessionale protettrice. Perdite consistenti che accomunano
anche Hezbollah, l’altra forza sciita che ha messo gli “scarponi sul
terreno” per evitare la caduta del regime dell’alawita (una “setta”
sciita) Assad e il trionfo degli jihadisti radicali sunniti. Sono circa
1600 i membri del “Partito di Dio” uccisi. Un bilancio aggravato dal
numero di feriti, superiore a 5000.
Questa macabra contabilità
solleva una serie di problemi politici in campo sciita. Innanzitutto a
Teheran, dove l’annunciato disimpegno terrestre del Cremlino carica
ulteriormente sull’Iran il peso militare del conflitto. In un quadro
geopolitico che potrebbe presto mutare per l’avvento dei falchi nelle
posizioni chiave della nuova amministrazione americana, le diverse
fazioni di sistema sono divise, più che sulla necessità dell’intervento,
sulle prospettive per il dopo. Ovviamente il ruolo giocato nel
conflitto siriano dai Pasdaran, rafforza il peso dei “militari” negli
equilibri interni. Difficile, dopo tanto sangue versato, compreso quello
di decine di alti ufficiali, che i Guardiani della Rivoluzione
rinuncino a far pesare la loro influenza sulle scelte future.
Quanto
al libanese Hezbollah, la partecipazione al conflitto muta il suo
ruolo, all’interno e all’esterno del Paese dei Cedri. L’aver preso le
armi contro forze arabe sunnite, dopo essere stato in passato il
campione della “resistenza a Israele” e aver riscosso, per questo,
simpatie anche in campo sunnita, lo caratterizza decisamente come forza
confessionale sciita legata a una potenza esterna come l’Iran. Ruolo che
ne riduce i margini di manovra in un magmatico contenitore
multiconfessionale come il Libano. Anche se, il movimento guidato da
Nasrallah ha un evidente interesse nel salvaguardare il regime di Assad:
impedire che la Siria sia guidata da forze sunnite ostili capaci di
spezzare quell’arco sciita che va da Teheran a Beirut passando, appunto,
per Damasco.
Una guerra, quella in Siria, che ha costi rilevanti
per le milizie dallo stendardo giallo. Costi economici, dal momento che
sostenere un’armata in quel paese, e anche le famiglie dei suoi caduti, è
assai gravoso. Costi politici, poiché l’impegno in Siria non è gradito
da tutta la popolazione sciita: non a caso le recenti proteste contro la
difficile situazione economica e sociale hanno assunto caratteri
transcomunitario. Oneri che, prevedibilmente, la formazione del suo
leader Nasrallah vorrà ammortizzare rivendicando un ruolo rilevante sia
nelle decisioni riguardanti il futuro della Siria, sia gli equilibri
libanesi. Come sempre, la guerra muta gli scenari precedenti. Nel
conflitto Hezbollah ha assunto un profilo più marcatamente militare, di
forza capace di combattere su un fronte vasto e destinato a pesare nella
regione. Allo stesso tempo, la sua vocazione islamonazionalista si
oscura a favore di quella confessionale. Profili entrambi destinati a
far aumentare le ostilità nei suoi confronti.
Il Sole Domenica 27.11.16
Lettera dal kurdistan iracheno
La vita spezzata di Erbil
Da
un lato l’apparenza di una città che continua ad andare avanti ma si
interroga sul futuro, dall’altro i campi profughi: è la guerra
di Maurizio Ambrosini
Il
giorno prima di partire per Erbil (Kurdistan iracheno, Nord dell’Iraq),
un amico mi ha domandato se ci andavo con un volo militare. Parecchi
altri nei giorni precedenti mi avevano chiesto se c’erano collegamenti
aerei regolari e quali avventurose rotte avrei seguito. Nessun volo
militare, e nessuno strano attraversamento dei cieli. A Erbil si arriva
ogni giorno con voli di linea, passando per Vienna, Istanbul, Stoccolma o
altri aeroporti europei di transito. È vero che il volo era semivuoto, e
all’arrivo scopriamo che buona parte dei passeggeri, quasi tutti
uomini, erano attesi da militari in divisa. L’aeroporto è moderno e
all’apparenza più grande di Linate, anche se non proprio animatissimo.
Forse non si può pretendere di più, a 80 chilometri da Mosul, dal fronte
della battaglia più annunciata, più attesa e forse più importante degli
ultimi anni, da quando si è materializzata la minaccia dell’Isis in
Medio Oriente e in Europa. Viaggiando verso il centro della capitale del
Kurdistan iracheno, una città da 1,5 milioni di abitanti ma molto più
estesa di Milano, si incontrano parecchi palazzi in costruzione, con
tanto di gru, ma all’apparenza abbandonati. Dopo un decennio di
tumultuoso sviluppo, tra la caduta di Saddam Hussein e la nascita
dell’Isis, gli eventi bellici, il crollo del prezzo del petrolio e i
dissidi con lo Stato centrale hanno messo in ginocchio l’economia del
Kurdistan iracheno. Sfilano parecchi alberghi piuttosto pretenziosi, ma
non abbiamo l’impressione che siano gremiti di ospiti. Erbil voleva
diventare la nuova Dubai, per il 2014 era stata designata capitale del
turismo arabo, e sperava di attirare sulle sue montagne un flusso
turistico proveniente dalle torride pianure irachene e magari anche da
più lontano. Poi all’improvviso lo scenario è cambiato: l’Isis al
culmine della sua offensiva è arrivato a 10 chilometri dalla città ed è
stato respinto a fatica.
Ma è venerdì, giorno di festa. A smentire
l’idea di una malinconica città di retrovia, schiacciata sotto l’incubo
di attentati e ritorsioni, provvede la visita a un centro commerciale. È
pieno di gente, soprattutto famiglie con i bambini che passano qui il
pomeriggio festivo. Si fanno i selfie sulle scale d’ingresso.
All’entrata ci attendono guardie armate, il metal detector e una blanda
perquisizione. Ma è l’unico segno di una guerra in corso, insieme a una
bussola per la raccolta di offerte per i peshmerga piazzata alle casse.
All’interno si trova di tutto, compresi i negozi di grandi marche
dell’elettronica come Samsung o del lusso come Mont Blanc. Al
supermercato (Carrefour), insieme a montagne di merce di ogni tipo, con
un sussulto di orgoglio nazional-popolare ecco la Nutella e il caffè
Lavazza, il grana padano e il provolone. Un po’ cari, è vero, ma
probabilmente sono arrivati via terra attraversando la Turchia.
I
prezzi in generale non sono bassi, la rendita petrolifera ha alimentato
un esteso impiego pubblico e diffuso bene o male un certo benessere.
L’apparente impressione di ordine è rafforzata dal fatto che gli
sfollati in cerca di elemosina per le strade sono stati scacciati con le
maniere spicce, e la povertà delle aree rurali è tenuta a bada dal
divieto di entrare in città senza permesso di residenza. Le strade sono
molto trafficate, con un parco auto recente e di gamma medio-alta. Oltre
a strade e centri commerciali, sono affollati pure i ristoranti. Una
visione che stride con l’immagine di una città in guerra. Mi chiedo se
gli allegri convitati non abbiano figli, fratelli o amici al fronte, o
feriti in ospedale, anche perché qui si racconta che le perdite siano
assai più alte di quelle ufficialmente ammesse. Ma chi conosce il luogo
mi risponde che la vita reclama i suoi diritti. La gente non sa che cosa
le riserva il futuro, cerca di vivere il presente con tutto ciò che può
offrire. Chi ha trent’anni e arriva da Baghdad ha già dovuto sopportare
sette guerre, qui poco meno, ma in questa fase la città finora è stata
relativamente sicura. Andare a fare acquisti, uscire la sera, cenare al
ristorante, esprimono un grande desiderio di serenità e di pace. Se si
vuole, sono una terapia antidepressiva.
L’altra Erbil è assai meno
visibile, e di fatto è insediata in gran parte fuori città. Per
raggiungere i campi profughi di Debaga occorre più di un’ora in auto,
accompagnati e muniti di permessi. Qui i profughi sono persone che nel
gergo del soccorso umanitario sono definite Ido (Internal Displaced
People), ossia sfollati interni, in fuga dall’Isis o da altre minacce:
neppure le milizie sciite da queste parti godono di buona stampa.
Attorno a quello che era un piccolo villaggio si sono ammassate circa
24mila persone, accolte in quattro campi di varia qualità (le ultime
stime delle persone in fuga da Mosul parlano di 60mila profughi in varie
direzioni). Circa la metà sono minori: ci accolgono stuoli di bambini,
seguiti da Terre des Hommes Italia con attività di animazione, sostegno
alle situazioni di fragilità, lotta contro il lavoro minorile e i
matrimoni precoci.
Gli sfollati sono stati riuniti qui, lontano da
Erbil e impediti di raggiungerla, con l’obiettivo di indurli a tornare a
casa. All’inizio Onu e Ong internazionali non volevano farsene carico,
per non avallare questa politica. Poi i rifugiati sono rimasti
precariamente accampati, la Mezzaluna Rossa degli Emirati ha installato
delle casette e si è imposto il fatto compiuto. Ora il flusso è
continuo, in entrata e in uscita: vediamo gente in coda per essere
accolta e pullman che riportano a casa chi è stato talmente prostrato
dall’esperienza della vita da profugo da accettare di tornare indietro.
Non sanno che le loro case probabilmente sono state distrutte o minate.
Nei casi migliori, si troveranno a vivere in mezzo al nulla, senza un
tessuto civile ed economico in grado di sostenerli.
Si capisce poi
a colpo d’occhio che anche tra i profughi ci sono gerarchie,
trattamenti diversi, persone dimenticate e cortocircuiti burocratici.
Diversa è la condizione di chi ha potuto raggiungere Erbil e magari
cercare un lavoro, e chi invece è rimasto bloccato in luoghi come
questo. Diversa è la condizione dell’emergenza, che dovrebbe durare tre
settimane, con un bagno ogni 40 persone, ricovero in tende o in
strutture collettive, dalla condizione “regolare” che almeno sulla carta
prevede un bagno ogni 20 persone e forse una casetta. Nei fatti poi
l’emergenza può durare molto più a lungo, e la fase successiva vedere
ancora l’accoglienza sotto una tenda. Quanto alla casette, inizialmente
unifamiliari e dotate di servizi, ora accolgono tre o quattro famiglie
ciascuna. E le famiglie qui hanno in media quattro figli ognuna.
In
lontananza il cielo è scuro. Non è il vento del deserto, ma il petrolio
che l’Isis brucia per frenare l’avanzata dell’eterogenea coalizione che
dovrebbe scacciarlo da Mosul. Forse quello che abbiamo visto è appena
l’inizio di una catastrofe umanitaria annunciata.