domenica 27 novembre 2016

MONDO

Il Sole 27.11.16
Il futuro dell’Europa nelle mani di Angela
di Alberto Quadrio Curzio

In un’Europa traballante si vanno delineando scenari che caratterizzeranno i prossimi 5 anni non appena Germania e Francia avranno superato il test elettorale. Anche gli eventi italiani, sul crinale del referendum e delle elezioni (che arriveranno al più tardi nel 2018), conteranno molto. La riflessione oggi può essere solo per congetture da aggiornare con il divenire degli eventi. Intanto molto significativa è la decisione della cancelliera Merkel di ricandidarsi mentre, quasi in contemporanea, il ministro delle Finanze Schäuble attacca la Commissione Ue. Abbiamo accostato i due fatti, apparentemente distanti, perché denotano le diverse visioni di due leader del Paese guida dell’Europa. Per questo il quarto mandato della Merkel sarà segnato anche dal ministro delle Finanze che la affiancherà perché, se sarà Schäuble, difficilmente la Germania rilancerà la crescita dell’eurozona come chiede la Commissione europea.
Il motore tedesco. Quella Commissione che nelle valutazioni autunnali e nel parere sul documento programmatico di bilancio tedesco segnala che la crescita tedesca proseguirà con un solida situazione occupazionale (la disoccupazione è intorno al 4,5%),con un robusto andamento dei consumi, delle esportazioni e con un boom degli investimenti in costruzioni che spingeranno ulteriormente la crescita e gli investimenti in macchinari. T ra il 2015 e il 2018 si calcola che il surplus di parte corrente con l’estero arrivi ai massimi storici (tra l’8 e il 9% del Pil) e che il bilancio pubblico prosegua in surplus (tra lo 0,8 e lo 0,5% del Pil) mentre il debito pubblico scenderà dal 71 al 63%. La Commissione rileva però che i surplus sono eccessivi perché le soglie da rispettare in base agli accordi europei sono un massimo del 6% del Pil per il surplus sull’estero e il pareggio di bilancio pubblico. Per la Commissione la Germania dovrebbe perciò spingere gli investimenti pubblici in infrastrutture, istruzione, ricerca e innovazione (come più volte raccomandato in passato anche dall’Fmi) anche perché in tal modo si darebbe un contributo importante alla crescita delle eurozona. La Uem soffre infatti ancora l’eredità della crisi anche se il reddito reale ha superato i livelli precrisi ed anche se vi è una buona creazione di posti di lavoro. Eppure l’occupazione e la disoccupazione (oggi vicina al 10%)non sono ancora ritornate ai livelli di 10 anni fa. Quanto alla media dell’euro-aggregato dei bilanci pubblici vi è un deficit modesto e un debito sul Pil intorno al 90% mentre il surplus di parte corrente è buono, intorno al 3,5%. La crescita rimane però debole e per questo si chiede da molte parti alla Germania di aumentare gli investimenti per generare effetti moltiplicativi sulla Uem.
Rigorismo e crescita. Di fronte a questa richiesta ,che appariva più un buffetto che uno schiaffo della Commissione, Schäuble ha reagito duramente al Bundestag, che lo ha applaudito. Ha difeso la legge di bilancio tedesca esaltando la capacità di esportare della Germania e accusando la Commissione europea di non controllare bene i Paesi che debordano dai limiti del deficit e del debito. L’attacco punta probabilmente a bloccare anche la recente impostazione della Commissione per una politica espansiva con più investimenti pari allo 0,5% del Pil dell’eurozona nel 2017 che dovrebbe essere fatto dai Paesi in surplus. Le esortazioni e le proposte della Commissione per la crescita hanno avuto un importante correlato politico nel Parlamento europeo dove i Popolari si sono allineati (pur con dei notevoli distinguo) al rigorismo del loro capogruppo bavarese mentre i Socialisti sono favorevoli a una politica di crescita che porterebbe ad un miglior risultato anche in termini di finanza pubblica. Importante è che il presidente del Parlamento Schulz sia procrescita. Per questo ci auguriamo che dopo le elezioni tedesche che lo vedranno tra i protagonisti diventi ministro delle Finanze in un prossimo governo Merkel. La tensione riguarda due visioni dell’eurozona che non verranno conciliate con la prossima riunione dell’eurogruppo. Purtroppo bisognerà aspettare ancora (forse) fino a elezioni concluse in vari Paesi europei. Speriamo che non sia troppo tardi per riprendete il rafforzamento della Uem.
Pragmatismo e ideali. Per questo dobbiamo apprezzare molto, come europei, Angela Merkel che ci ha dato una certezza con la sua ricandidatura. Nelle ricostruzioni “storiche” si dice che Schäuble è da sempre un grande europeista mentre la Merkel lo è diventata facendo esperienza come cancelliere. Può essere, ma adesso è lei che ha una visione politica ampia mentre il primo si sta chiudendo in una specie di localismo economico germanico. Noi crediamo che Merkel si sia ricandidata per ragioni politico-ideali nella consapevolezza che l’Europa e la Germania sono a rischio per i populismi crescenti, l’immigrazione, le tensioni internazionali ma anche per la fragile crescita dell’insieme che crea risentimenti antitedeschi. Il cancelliere,dopo aver detto che non presume di risolvere da sola questi problemi e che in politica bisogna bilanciare gli interessi e accettare dei compromessi finalizzati a progressi graduali, ha aggiunto «cerco sempre di farlo sulla base dei nostri valori: la democrazia, la libertà, il rispetto per la legge e per la dignità di ogni essere umano, indipendentemente dalle sue origini, dal colore della pelle, da religione, genere, orientamento sessuale o posizione politica».
Non possiamo sottoporre a verifica questa affermazione né possiamo rivisitare quali errori abbia commesso nei quasi 12 anni di cancellierato (che lei ha onorato con serietà e dignità) e di crescente influenza nel governo dell’Europa. Alcuni elementi ci bastano però per dire che Merkel ha contribuito ad evitare il disfacimento dell’eurozona nella crisi sia condizionando i “falchi” alla Schäuble e dando il sostegno a Mario Draghi sia decidendo, sia evitando di farsi condizionare da una parte importante dell’opinione pubblica tedesca nell’accoglienza ai migranti. Speriamo dunque che Merkel, se sarà confermata cancelliere, consegua “almeno” due risultati: gli eurobond ovvero titoli di debito pubblico europei; un apparato di difesa comune. Perchè,se vuole passare alla storia come Kohl,non basta eguagliarlo per la durata di cancellierato.

il manifesto 27.11.16
Francia
Destra: ballottaggio tra conservazione e reazione
Francia/primarie centrodestra . Juppé e Fillon si contendono la candidatura per le presidenziali di primavera. Entrambi liberisti, divergono solo sull'intensità della purga sociale. Differenze chiare invece sulla visione della società, "multiculturale" per Juppé, con "radici cristiane" per Fillon. I dubbi degli elettori di sinistra
di Anna Maria Merlo

PARIGI La destra francese sceglie oggi, al ballottaggio delle primarie, chi sarà il candidato della conservazione alle presidenziali della prossima primavera e che avrà buone possibilità di conquistare l’Eliseo. Due politici in attività dagli anni ’80 si contendono la nomina: Alain Juppé (nato nel ’45) e François Fillon (’54), entrambi ex primi ministri. Il primo turno è stato un successo di partecipazione, con più di 4 milioni di votanti (che hanno versato 2 euro e firmato una dichiarazione di adesione ai «valori repubblicani» della destra). La sinistra, impantanata nelle proprie divisioni e ammaccata dall’impotenza della presidenza Hollande, sta a guardare.
Gli elettori di sinistra sono in preda al dubbio: andare a votare, facendo qualche compromesso con l’etica firmando l’adesione ai «valori» del campo opposto, per favorire la destra meno bacchettona e meno punitiva di Alain Juppé, oppure stare a guardare la probabile vittoria di Fillon, arrivato ampiamente in testa al primo turno (44% contro 26%), con la speranza che così si apra uno spazio più ampio per il candidato della social-democrazia (ancora senza nome).
Juppé è Fillon non hanno programmi molto distanti in economia. Entrambi liberisti, differiscono per intensità nella somministrazione della purga sociale: tagli al pubblico impiego (meno 500mila per Fillon, meno 200-300mila per Juppé), fine delle 35 ore (per portare a 48 ore l’orario legale per Fillon e 39 per Juppé), austerità generalizzata per i più modesti e meno tasse per i ricchi (via la patrimoniale), età della pensione a 65 anni, fine della sanità gratuita per i più poveri (Fillon propone una dose di privatizzazione per tutti). Fillon vuole copiare Thatcher 35 anni dopo, Juppé è più moderato, per non traumatizzare una società «fragile».
Juppé
La vera differenza sta invece sulla visione della società. Nella settimana tra il primo e il secondo turno, c’è stata la polemica sull’aborto, con seri timori di restrizioni (almeno sui finanziamenti) se dovesse vincere Fillon, che è «personalmente» contrario e, dice, non vuole «banalizzare» l’interruzione volontaria di gravidanza. Differenze anche sulla legge Taubira che ha legalizzato il matrimonio omosessuale: Juppé non la toccherà mentre Fillon vuole ostacolare le adozioni e ha persino evocato la possibilità di far uscire la Francia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo perché ha condannato Parigi per non aver registrato dei bambini di coppie francesi nati all’estero con la Gpa (gestazione per altri). Juppé constata che la Francia è una «società multiculturale», Fillon insiste sulle «radici cristiane» ed è stato definito dal suo avversario come «retrogrado», «nostalgico dell’ordine antico». Da queste prese di posizione derivano differenze nei confronti dell’islam.
La fachosphère, le reti sociali di estrema destra, hanno sostenuto a fondo Fillon, battezzando il rivale «Alì Juppé» (perché a Bordeaux, dove è sindaco, ha rapporti distesi con i musulmani). Fillon, del resto, vuole rimettere al loro posto gli immigrati: «quando si arriva a casa d’altri non si dettano le regole», in altri termini lo scontro tra i due contendenti è tra «assimilazione» e «integrazione». Fillon ha anche evocato l’idea di rivedere i manuali scolatici di storia, per tornare alla «narrazione nazionale» di un tempo (vuole mettere anche i grembiuli agli allievi).
Nel dibattito delle primarie della destra, alcuni temi sono stati sorprendentemente assenti: primo tra tutti, l’Europa. Juppé e Fillon hanno parlato molto più di Putin che di Bruxelles. Difatti, Fillon vuole avvicinarsi alla Russia (e a Bachar in Siria) per «realismo», Juppé lo accusa di «compiacenza» con il Cremlino.
Per Fillon hanno partecipato in forze al primo turno i cattolici tradizionalisti. Juppé ha un handicap non da poco: è stato condannato nel 2004 a 14 mesi con la condizionale e a un anno di ineligibilità per false assunzioni al comune di Parigi, quando Chirac era sindaco.

Corriere 27.11.16
Usa, si ricontano i voti nel Wisconsin Hillary e il miraggio della Casa Bianca
Sospetti di hackeraggio anche in altri due Stati. Ma Obama: il risultato non si discute
di Giuseppe Sarcina

NEW YORK Si ricontano i voti. La Commissione elettorale del Wisconsin ha deciso di accogliere il ricorso presentato dalla candidata dei Verdi, Jill Stein, non senza aver prima incassato i 5 milioni di dollari necessari per coprire le spese. In questo Stato del Nord industriale, Donald Trump ha vinto di misura, e a sorpresa, l’8 novembre, raccogliendo 1.409.467 preferenze contro 1.382.210 di Hillary Clinton. Stein ha ottenuto solo 31.006 consensi e l’altro candidato che ha firmato la petizione, Rocky Roque De La Fuente, del partito riformista, ancora meno: 1.514.
I due, però, sollevano una questione di regolarità generale, chiedendo la revisione anche in Michigan e in Pennsylvania. La tesi del duo Stein-De La Fuente è che ci siano state manipolazioni interne o intrusioni di hacker nei computer degli uffici elettorali. Prove? Nulla di stringente, per ora. Solo analisi elaborate da esperti e accademici, tra i quali J. Alex Halderman, dell’Università del Michigan. Con un sospetto cardine: nei distretti in cui si è proceduto alla vecchia maniera, urne e schede di carta, l’esito è stato più favorevole a Clinton rispetto ai collegi in cui si è adottato il voto elettronico. Ieri mattina, però, un comunicato della Casa Bianca ha stroncato l’iniziativa: «I risultati del voto dell’8 novembre riflettono accuratamente la volontà del popolo americano».
Il meccanismo prevede la ripartizione di 538 grandi elettori Stato per Stato, sulla base della somma dei deputati e senatori espressi da ogni singolo territorio. Diventa presidente chi raggiunge la soglia di 270 rappresentanti. Trump ne ha totalizzati 290; Clinton 232. Mancano i 16 grandi elettori del Michigan, dove però «The Donald» è già dato vincente. Il Wisconsin esprime 10 seggi. Da solo, non basterebbe a ribaltare il risultato finale. Ma se il riconteggio fosse accettato anche in Michigan (16 grandi elettori) e in Pennsylvania (20), tornerebbe in gioco un pacchetto decisivo di 46 rappresentanti. A quel punto, se in tutti e tre gli Stati il verdetto finale a favore di Trump fosse capovolto, Hillary si ritroverebbe nello Studio Ovale con 278 rappresentanti. Ma prima che intervenisse lo staff di Obama, Marc Elias, consigliere generale della campagna di Hillary, aveva precisato: «Non ci risultano indizi di hackeraggio». Tuttavia Elias annuncia che gli esperti della sua squadra parteciperanno al nuovo scrutinio in Wisconsin ed eventualmente in Michigan e in Pennsylvania. Le regole consentono a tutte le parti in causa di assistere al ricalcolo e impongono a chi presenta ricorso di pagare le spese. Stein ha raccolto i fondi per cominciare dal Wisconsin e, sembra di capire, lo staff di Hillary assisterà, ma senza versare un dollaro. Non resta molto tempo. Il 19 dicembre 2016 si riuniranno i 538 delegati per ratificare la nomina di Trump.

Il Sole Domenica 27.11.16
Albert Bandura
Strategie demoralizzanti
La linea dominante della campagna di Trump è stata la deumanizzazione
di Gilberto Corbellini

La linea dominante della campagna di Trump è stata la deumanizzazione, le cui radici stanno nella tendenza al disimpegno etico studiato dallo psicologo premiato da Obama
Perché le persone si comportano male, cioè uccidono, torturano, rubano, molestano bambini, corrompono, inquinano? Per Platone e la tradizione dell’etica razionalista, dipende da fatto che non sanno cosa è il bene o non conoscono la legge. Ma un’ipotesi alternativa è che pur conoscendo la differenza fra bene e male, le persone facciano del male in quanto per qualche motivo fuorviati da meccanismi psicologici di autogiustificazione: sanno di aver violato norme etiche nelle quali si riconoscono, ma in qualche modo si sono immunizzati contro gli effetti deterrenti di riprovazioni o sanzioni.
Il più citato psicologo vivente, e il terzo più citato in assoluto dopo Freud e Piaget, cioè Albert Bandura, difende la seconda ipotesi. Negli anni Ottanta ha creato il concetto di «disimpegno morale» per spiegare la logica psicologica dietro a queste contraddizioni, che consiste nel giustificare il comportamento immorale, eludendo le autovalutazioni e i sentimenti negativi (es. senso di colpa) che derivano dall’aver deviato da valori etici condivisi. Queste bugie servono, per esempio, a inventare una «giusta causa» che renda quel che si è fatto meno riprovevole. Questi processi cognitivi neutralizzano gli spiacevoli effetti dei sentimenti socio-emozionali, come simpatia, colpa o vergogna, che orientano verso scelte moralmente apprezzate.
Premiato il 19 maggio scorso da Obama con la prestigiosa National Medal of Science, alla veneranda età di novant’anni Bandura ha dedicato una monografia alla sua teoria, applicandola ai grandi temi sociali eticamente controversi (soprattutto in Nord America), come il possesso di armi, il terrorismo, l’uso della tortura, l’inquinamento ambientale, la corruzione, la pedo-pornografia. Il libro è molto chiaro e abbraccia un’impressionante vastità di ricerche empiriche.
Il disimpegno morale si manifesta attraverso una serie di meccanismi (otto) che intervengono nei quattro ambiti che definiscono una situazione moralmente rilevante: il comportamento, l’agire, gli effetti e la vittima. L’ambito comportamentale riguarda i processi messi in atto per trasformare un comportamento dannoso o immorale, in uno accettabile, attraverso la giustificazione morale («Dio vuole che io uccida queste infedeli», «queste persone si sono arricchite a danno di tutti e meritano che qualcuno gliela faccia pagare», etc.), l’etichettatura eufemistica, come quando i morti civili sono chiamati un «danno collaterale» o i bombardamenti sono definiti «chirurgici», e il paragone vantaggioso che fa apparire un azione «non così malvagia» se paragonata a un’altra peggiore, come accade paragonando l’uso della violenza a contesti dove a posteriori è stata giudicata legittima (es. una lotta politica violenta comparata alla Rivoluzione Americana).
A livello dell’agire morale, operano i meccanismi di spostamento o nascondimento della responsabilità, che consentono alle persone di giustificare il loro comportamento mostrando che si tratta dell’esecuzione di ordini superiori (es. uso della tortura negli interrogatori), e di diffusione della responsabilità per una condotta deteriore, ad esempio minimizzando il proprio ruolo nel maltrattare detenuti in un campo di prigionia e incolpando il gruppo per l’azione immorale. Per quanto riguarda gli effetti, il disimpegno morale si manifesta attraverso la distorsione o minimizzazione delle conseguenze, e qui Bandura se la prende pesantemente con la Chiesa Cattolica, che ha tollerato e nascosto così a lungo gli abusi sessuali ai danni di minori.
In merito alla vittima, i meccanismi descritti da Bandura sono la ben nota deumanizzazione, che consiste nel considerare le vittime oggetti, esseri inferiori o parassiti da eliminare (come i nazisti con gli ebrei o gli integralisti religiosi con gli infedeli) e nell’attribuire la colpa alla vittima o alle circostanze. In occasione dell’annuale convention dell’American Psychological Association, tenutasi a Denver agli inizi dell’agosto scorso e ancora in un’intervista di due settimane fa, Bandura ha detto che la deumanizzazione è stato il «meccanismo dominante» usato da Donald Trump nella sua campagna presidenziale.
Il disimpegno morale è stato descritto in diversi contesti trasgressivi rispetto a comportamenti prosociali, ed è predittivo di aggressività e violenza nella tarda adolescenza, o di bullismo. Sembra che favorisca anche il consumo di video violenti e i comportamenti trasgressivi (furto, menzogna, aggressione, distruttività, assenteismo e abuso di alcol e droga). Si è visto che le condizioni di sviluppo infantili e il contesto adolescenziale influenzano il grado di disimpegno morale.
L’approccio cognitivista di Bandura dà grande peso ai modelli e alle dinamiche funzionali autoregolative del comportamento, ed è abbastanza impermeabile alle idee e spiegazioni degli stessi fenomeni emerse nell’ambito degli approcci evoluzionistici. Nel libro si discute di autoinganno senza spendere una parola sulle ricerche che partono da Robert Trivers, e non sono mai citati i lavori di Jonathan Haidt. Là dove si discutono idee evoluzioniste, sembra che il tempo si sia fermato a Steven Jay Gould. L’attenzione per la neuroetica è quasi un riempitivo scolastico-compilativo.
Non è insensato pensare che il disimpegno morale fosse una strategia vantaggiosa per i nostri antenati vissuti per centinaia di migliaia di anni in contesti sociali molto più violenti e strumentali, per cui era funzionale razionalizzare in qualche modo comportamenti antisociali, che chi non è sociopatico vive come emotivamente disagevoli, e spesso attiva in funzione sia aggressiva sia di difesa. Questi meccanismi continuano a funzionare, benché molto sia cambiato, perché la nostra genetica è fondamentalmente la stessa. E, probabilmente, il disimpegno morale non funziona solo nel senso in cui lo applica Bandura, per il quale i valori buoni sono per definizione quelli liberal e le deviazioni da questi richiedono qualche giustificazione. In realtà, sono state le contingenze storiche a consentire lo sviluppo di società dove certi valori sono apprezzati, a scapito di altri, ed è socialmente vantaggioso praticarli. Peraltro, chi è favorevole alla pena di morte, al possesso di armi o a usare la tortura per evitare stragi terroristiche, non pensa di star facendo qualcosa di immorale.
Cinque studi pubblicati due anni fa dallo psicologo delle decisioni Scott J. Reynolds per capire il «ruolo della conoscenza nell’immoralità quotidiana»”, cioè «quanto conta sapere cosa è giusto», mostrano che la conoscenza morale influenza significativamente le scelte nelle situazioni quotidiane, più dei processi che caratterizzano il disimpegno morale. Sul piano teorico e tenendo conto delle misure effettuate, sembra che la tendenza al disimpegno morale «dipenda da scarse capacità di ragionamento morale e/o da razionalizzazioni post hoc e autoprotettive del comportamento».
Albert Bandura, Moral Disengagement. How People Do Harm and Live With Themselves , Macmillan, New York, pagg. 544, $ 46,75

La Stampa 27.11.16
La violenza sulle donne normalizzata nella società islamica
di Karima Moual

La violenza sulle donne, nella società islamica, si respira prima ancora di essere sperimentata. Un ricordo che si scopre in un colloquio a due che ho voluto affrontare con Rabii El Gamrani, giovane marocchino che vive in Italia.

«Sono cresciuto in una casa di donne, “Dar El Bnat”. Sono sesto di una famiglia di 7 figli. Mio fratello più grande se n’è andato troppo presto di casa, lasciandomi l’unico maschio fra 5 sorelle. Ma le donne di casa mia non si riducevano a quelle 5 sorelle. Oltre la madre c’erano la nonna, le zie, le cugine, le zie della madre, le zie del padre. E così sono cresciuto in una casa di donne. Sommerso fra le bende sanguinolenti, che le mie sorelle usavano per contrastare il ciclo, mi è capitato di odiare quel fratello che è partito troppo presto lasciandomi disarmato ad affrontare il sangue delle mie sorelle. Mi è capitato di avere molta nostalgia di lui, di fantasticare su di lui. Ma dov’era?».
Ricordati che «sei l’uomo. Nta Rajel. Nta Rajel». Questa frase l’avrà sentita ripetere nei momenti più diversi a suo fratello - il maschio della famiglia - già dall’età di 4 anni.
Dove sono nato e cresciuto, a Casablanca, già da bambini si gioca per strada, e ti confronti allora subito con la violenza del mondo, senza mediazione alcuna, o poca. Nel mio quartiere ero l’unico ragazzino che aveva un fratello senza averlo, perché non c’era. Avrei dovuto sviluppare un carattere forte, versatile, se volevo evitare i soprusi degli altri ragazzini del quartiere. Io non avevo un fratello grande che mi poteva difendere o vendicarmi, perciò potevo essere un bersaglio facile di abusi, da parte di quel mondo aggressivo e stratificato che sono i quartieri periferici di Casablanca. Credo di essere riuscito ad evitare il peggio, anche se di abusi ne ho subiti, e il mio corpo ne porta ancora qualche traccia. Ho evitato il peggio grazie alla componente femminile della mia famiglia.
Che sia una sorella o una zia. La propria donna o la propria madre, non importa.
Il Rajel, in una società patriarcale con forti inclinazioni misogine, oltre ad essere educato come essere superiore, ha il dovere di praticare il controllo sul corpo e sulla libertà di movimento della donna, altrimenti che uomo è?
Quelle volte in cui sono stato vittima di qualche bullo, le mie sorelle mi hanno sempre difeso con una tale spavalderia che solo una sensibilità femminile poteva avere. Non si perdevano in imprecazioni volgari, come facevano i maschi. Erano di poche parole e decise. Appena venivano a sapere di qualcuno che mi aveva fatto del male, la loro vendetta era assicurata, prima o poi avrebbero saldato i conti. Mia sorella Souad non mancava di fantasia. Sono cresciuto in casa di donne. Ricordo alcuni litigi con qualche sorella, ma era roba da poco, avevo compreso che non ci poteva essere partita. Avevo capito - per necessità di sopravvivenza o per amore spassionato verso quelle donne che mi proteggevano dal mondo e mi coprivano di tenerezza e amore.
Si era ribellata perché non ne aveva diritto. Una ragazza di 18 anni, pur se residente in Nord Italia, perfettamente integrata e prossima all’università, non aveva diritto ad innamorarsi e meritava dunque la faccia sull’asfalto per ricordarsi che non aveva la libertà di muoversi se non all’interno di limitati binari costruiti secondo la logica della repressione femminile. Un labirinto di regole. Un costruire il Haram (peccato) nella donna, e un Halal (lecito) per l’uomo in una cornice di ipocrisia, con il risultato di dar vita a uomini malati, violenti e paradossalmente fragili.
Ho capito cosa significa per una ragazza avere un fratello maggiore, quando adolescente, sono stato beccato con la mia fidanzatina dell’epoca da suo fratello. Parliamo di un amore adolescenziale. Eravamo poco distanti dalla scuola, lei con il suo grembiule bianco ed io con lo zaino in spalla, appoggiati ad un albero, forse le tenevo la mano. Il fratello spuntò da non si sa dove accompagnato da altri suoi amici. Non ebbi nemmeno il tempo di accorgermene, che la sua furia si abbatté sulla sorella e su di me. Nel menarmi si associarono anche i suoi amici. La mia umiliazione e la sua sono durate tantissimo. Forse da quel giorno non siamo più stati in grado di guardarci negli occhi, anche se studiavamo nella stessa classe; da quel giorno ci siamo evitati. Quello che ci era accaduto era un fatto normale. Come si può crescere da uomini e donne con questa violenza normalizzata e legittimata da un’intera società?

Corriere 27.11.16
L’aborto in discussione Da Mosca a Washington
risponde Sergio Romano

Perché il Patriarca Kirill ha preso le distanze dalla Lettera apostolica di papa Bergoglio sulla pratica abortiva? Anche se cristianamente ineccepibile, secondo me, Francesco può apparire, a torto o a ragione, troppo «in linea» con un concetto di «libertà» modernista, in tempi che richiedono
«prudenza».
Francesco Italo Russo

Caro Russo,
Non credo che vi sia stata una «presa di distanza». Le dichiarazioni sull’aborto del Pontefice romano e di Kirill, patriarca della Chiesa russa, affrontano problemi diversi. Francesco ha considerevolmente facilitato la procedura del perdono alla fine di un giubileo sulla misericordia, ma non ha modificato la linea della Chiesa Romana. Kirill, sin dallo scorso settembre, ha firmato un appello per il ripristino di una sanzione penale contro l’aborto che fu abolita con una delle prima leggi promulgate da Lenin nel 1920. Oggi, in Russia, il numero degli aborti, in uno Stato abitato da circa 150 milioni di persone, oscilla ogni anno fra 700.000 e un milione. Vi è un partito «anti-aborto», composto anche da coloro che sono preoccupati dal declino demografico del Paese; e vi è una corrente della pubblica opinione che si oppone al ripristino di una sanzione zarista, certamente invisa a una parte della popolazione femminile.
Vladimir Putin, per il momento, sembra avere scelto una via di mezzo. È un ortodosso devoto, ostenta pubblicamente la sua religiosità visitando chiese e conventi con serietà e compunzione, è legato a Kirill da una vecchia amicizia (si dice maliziosamente che abbiano stretto buoni rapporti quando erano entrambi agenti del Kgb). In un articolo di Giulio Meotti sul Foglio del 30 settembre, leggo che Putin, nel 2003, ha imposto «le prime restrizioni alla legge che regola gli aborti dai tempi di Stalin, eliminando il diritto ad abortire nel secondo trimestre per motivi di “vulnerabilità sociale”. Ha dato un bonus alle donne che danno alla luce due figli e nel 2012 ha introdotto un periodo di attesa obbligatorio, chiamato “settimana di silenzio”, prima che una donna possa abortire. È stata vietata la pubblicità delle cliniche dell’aborto nei luoghi pubblici ed è stato proposto che le donne che vogliono abortire abbiano prima una ecografia, rendendo così obbligatoria la visione dell’embrione e del battito cardiaco»: una drammatica esperienza, se venisse approvata, che dovrebbe indurle a cambiare idea.
Se questa è la situazione in Russia, quella degli Stati Uniti, per le sorti dell’aborto, non è migliore. Come ha ricordato Vladimiro Zagrebelsky su La Stampa del 23 novembre, il presidente eletto Donald Trump vorrebbe nominare alla Corte Suprema, per completarne l’organico, un giudice contrario alla legalizzazione dell’aborto. L’America potrebbe tornare così al 1972, quando, nel caso «Roe contro Ward», fu deciso che il divieto dell’aborto era incostituzionale. Ecco un altro punto su cui Putin e Trump potrebbero intendersi.

Repubblica 27.11.16
Dove porterà la guerra degli Sciiti
Sempre più milizie iraniane e libanesi muoiono in Siria Un conflitto nel conflitto che aumenterà le ostilità
di Renzo Guolo
MENTRE all’orizzonte si addensano le nubi sospinte dal minaccioso vento della vittoria di Trump, a Teheran e nella Beirut degli Hezbollah (“Partito di Dio”) libanesi, entrambi di fede musulmana sciita, si fanno i conti con le rilevanti perdite subite nel conflitto siriano. Secondo la Fondazione dei Martiri di Hezbollah, che ha il compito istituzionale di dare sostegno finanziario alle famiglie dei caduti, sono più di mille i soldati iraniani periti in battaglia. Numero che squarcia il velo su una verità sin qui occultata riguardo ai combattenti sciiti uccisi nella guerra in Siria: il bilancio ufficiale era, infatti, di quattrocento morti. Metà dei quali nelle fila dei “volontari” stranieri: afghani di etnia hazara, insieme agli sciiti pachistani. Componenti di quella sorta di internazionale la cui costituzione ha un duplice fine: quello, molto pragmatico, di limitare le perdite iraniane, e quello, politico e religioso, di mostrare come anche l’universo sciita, spesso opposto a quello sunnita, possa assumere una dimensione panislamista combattente quando i suoi valori siano minacciati.
Ufficialmente, infatti, l’intervento iraniano in Siria è motivato dalla necessità di proteggere i luoghi santi, come la moschea di Sayyida Zeinab nei pressi di Damasco e altri mausolei cari ai “seguaci di Alì”, più che i propri interessi nazionali. Funzione sovrapponibile nel momento in cui l’Iran agisce come potenza confessionale protettrice. Perdite consistenti che accomunano anche Hezbollah, l’altra forza sciita che ha messo gli “scarponi sul terreno” per evitare la caduta del regime dell’alawita (una “setta” sciita) Assad e il trionfo degli jihadisti radicali sunniti. Sono circa 1600 i membri del “Partito di Dio” uccisi. Un bilancio aggravato dal numero di feriti, superiore a 5000.
Questa macabra contabilità solleva una serie di problemi politici in campo sciita. Innanzitutto a Teheran, dove l’annunciato disimpegno terrestre del Cremlino carica ulteriormente sull’Iran il peso militare del conflitto. In un quadro geopolitico che potrebbe presto mutare per l’avvento dei falchi nelle posizioni chiave della nuova amministrazione americana, le diverse fazioni di sistema sono divise, più che sulla necessità dell’intervento, sulle prospettive per il dopo. Ovviamente il ruolo giocato nel conflitto siriano dai Pasdaran, rafforza il peso dei “militari” negli equilibri interni. Difficile, dopo tanto sangue versato, compreso quello di decine di alti ufficiali, che i Guardiani della Rivoluzione rinuncino a far pesare la loro influenza sulle scelte future.
Quanto al libanese Hezbollah, la partecipazione al conflitto muta il suo ruolo, all’interno e all’esterno del Paese dei Cedri. L’aver preso le armi contro forze arabe sunnite, dopo essere stato in passato il campione della “resistenza a Israele” e aver riscosso, per questo, simpatie anche in campo sunnita, lo caratterizza decisamente come forza confessionale sciita legata a una potenza esterna come l’Iran. Ruolo che ne riduce i margini di manovra in un magmatico contenitore multiconfessionale come il Libano. Anche se, il movimento guidato da Nasrallah ha un evidente interesse nel salvaguardare il regime di Assad: impedire che la Siria sia guidata da forze sunnite ostili capaci di spezzare quell’arco sciita che va da Teheran a Beirut passando, appunto, per Damasco.
Una guerra, quella in Siria, che ha costi rilevanti per le milizie dallo stendardo giallo. Costi economici, dal momento che sostenere un’armata in quel paese, e anche le famiglie dei suoi caduti, è assai gravoso. Costi politici, poiché l’impegno in Siria non è gradito da tutta la popolazione sciita: non a caso le recenti proteste contro la difficile situazione economica e sociale hanno assunto caratteri transcomunitario. Oneri che, prevedibilmente, la formazione del suo leader Nasrallah vorrà ammortizzare rivendicando un ruolo rilevante sia nelle decisioni riguardanti il futuro della Siria, sia gli equilibri libanesi. Come sempre, la guerra muta gli scenari precedenti. Nel conflitto Hezbollah ha assunto un profilo più marcatamente militare, di forza capace di combattere su un fronte vasto e destinato a pesare nella regione. Allo stesso tempo, la sua vocazione islamonazionalista si oscura a favore di quella confessionale. Profili entrambi destinati a far aumentare le ostilità nei suoi confronti.

Il Sole Domenica 27.11.16
Lettera dal kurdistan iracheno
La vita spezzata di Erbil
Da un lato l’apparenza di una città che continua ad andare avanti ma si interroga sul futuro, dall’altro i campi profughi: è la guerra
di Maurizio Ambrosini

Il giorno prima di partire per Erbil (Kurdistan iracheno, Nord dell’Iraq), un amico mi ha domandato se ci andavo con un volo militare. Parecchi altri nei giorni precedenti mi avevano chiesto se c’erano collegamenti aerei regolari e quali avventurose rotte avrei seguito. Nessun volo militare, e nessuno strano attraversamento dei cieli. A Erbil si arriva ogni giorno con voli di linea, passando per Vienna, Istanbul, Stoccolma o altri aeroporti europei di transito. È vero che il volo era semivuoto, e all’arrivo scopriamo che buona parte dei passeggeri, quasi tutti uomini, erano attesi da militari in divisa. L’aeroporto è moderno e all’apparenza più grande di Linate, anche se non proprio animatissimo. Forse non si può pretendere di più, a 80 chilometri da Mosul, dal fronte della battaglia più annunciata, più attesa e forse più importante degli ultimi anni, da quando si è materializzata la minaccia dell’Isis in Medio Oriente e in Europa. Viaggiando verso il centro della capitale del Kurdistan iracheno, una città da 1,5 milioni di abitanti ma molto più estesa di Milano, si incontrano parecchi palazzi in costruzione, con tanto di gru, ma all’apparenza abbandonati. Dopo un decennio di tumultuoso sviluppo, tra la caduta di Saddam Hussein e la nascita dell’Isis, gli eventi bellici, il crollo del prezzo del petrolio e i dissidi con lo Stato centrale hanno messo in ginocchio l’economia del Kurdistan iracheno. Sfilano parecchi alberghi piuttosto pretenziosi, ma non abbiamo l’impressione che siano gremiti di ospiti. Erbil voleva diventare la nuova Dubai, per il 2014 era stata designata capitale del turismo arabo, e sperava di attirare sulle sue montagne un flusso turistico proveniente dalle torride pianure irachene e magari anche da più lontano. Poi all’improvviso lo scenario è cambiato: l’Isis al culmine della sua offensiva è arrivato a 10 chilometri dalla città ed è stato respinto a fatica.
Ma è venerdì, giorno di festa. A smentire l’idea di una malinconica città di retrovia, schiacciata sotto l’incubo di attentati e ritorsioni, provvede la visita a un centro commerciale. È pieno di gente, soprattutto famiglie con i bambini che passano qui il pomeriggio festivo. Si fanno i selfie sulle scale d’ingresso. All’entrata ci attendono guardie armate, il metal detector e una blanda perquisizione. Ma è l’unico segno di una guerra in corso, insieme a una bussola per la raccolta di offerte per i peshmerga piazzata alle casse. All’interno si trova di tutto, compresi i negozi di grandi marche dell’elettronica come Samsung o del lusso come Mont Blanc. Al supermercato (Carrefour), insieme a montagne di merce di ogni tipo, con un sussulto di orgoglio nazional-popolare ecco la Nutella e il caffè Lavazza, il grana padano e il provolone. Un po’ cari, è vero, ma probabilmente sono arrivati via terra attraversando la Turchia.
I prezzi in generale non sono bassi, la rendita petrolifera ha alimentato un esteso impiego pubblico e diffuso bene o male un certo benessere. L’apparente impressione di ordine è rafforzata dal fatto che gli sfollati in cerca di elemosina per le strade sono stati scacciati con le maniere spicce, e la povertà delle aree rurali è tenuta a bada dal divieto di entrare in città senza permesso di residenza. Le strade sono molto trafficate, con un parco auto recente e di gamma medio-alta. Oltre a strade e centri commerciali, sono affollati pure i ristoranti. Una visione che stride con l’immagine di una città in guerra. Mi chiedo se gli allegri convitati non abbiano figli, fratelli o amici al fronte, o feriti in ospedale, anche perché qui si racconta che le perdite siano assai più alte di quelle ufficialmente ammesse. Ma chi conosce il luogo mi risponde che la vita reclama i suoi diritti. La gente non sa che cosa le riserva il futuro, cerca di vivere il presente con tutto ciò che può offrire. Chi ha trent’anni e arriva da Baghdad ha già dovuto sopportare sette guerre, qui poco meno, ma in questa fase la città finora è stata relativamente sicura. Andare a fare acquisti, uscire la sera, cenare al ristorante, esprimono un grande desiderio di serenità e di pace. Se si vuole, sono una terapia antidepressiva.
L’altra Erbil è assai meno visibile, e di fatto è insediata in gran parte fuori città. Per raggiungere i campi profughi di Debaga occorre più di un’ora in auto, accompagnati e muniti di permessi. Qui i profughi sono persone che nel gergo del soccorso umanitario sono definite Ido (Internal Displaced People), ossia sfollati interni, in fuga dall’Isis o da altre minacce: neppure le milizie sciite da queste parti godono di buona stampa. Attorno a quello che era un piccolo villaggio si sono ammassate circa 24mila persone, accolte in quattro campi di varia qualità (le ultime stime delle persone in fuga da Mosul parlano di 60mila profughi in varie direzioni). Circa la metà sono minori: ci accolgono stuoli di bambini, seguiti da Terre des Hommes Italia con attività di animazione, sostegno alle situazioni di fragilità, lotta contro il lavoro minorile e i matrimoni precoci.
Gli sfollati sono stati riuniti qui, lontano da Erbil e impediti di raggiungerla, con l’obiettivo di indurli a tornare a casa. All’inizio Onu e Ong internazionali non volevano farsene carico, per non avallare questa politica. Poi i rifugiati sono rimasti precariamente accampati, la Mezzaluna Rossa degli Emirati ha installato delle casette e si è imposto il fatto compiuto. Ora il flusso è continuo, in entrata e in uscita: vediamo gente in coda per essere accolta e pullman che riportano a casa chi è stato talmente prostrato dall’esperienza della vita da profugo da accettare di tornare indietro. Non sanno che le loro case probabilmente sono state distrutte o minate. Nei casi migliori, si troveranno a vivere in mezzo al nulla, senza un tessuto civile ed economico in grado di sostenerli.
Si capisce poi a colpo d’occhio che anche tra i profughi ci sono gerarchie, trattamenti diversi, persone dimenticate e cortocircuiti burocratici. Diversa è la condizione di chi ha potuto raggiungere Erbil e magari cercare un lavoro, e chi invece è rimasto bloccato in luoghi come questo. Diversa è la condizione dell’emergenza, che dovrebbe durare tre settimane, con un bagno ogni 40 persone, ricovero in tende o in strutture collettive, dalla condizione “regolare” che almeno sulla carta prevede un bagno ogni 20 persone e forse una casetta. Nei fatti poi l’emergenza può durare molto più a lungo, e la fase successiva vedere ancora l’accoglienza sotto una tenda. Quanto alla casette, inizialmente unifamiliari e dotate di servizi, ora accolgono tre o quattro famiglie ciascuna. E le famiglie qui hanno in media quattro figli ognuna.
In lontananza il cielo è scuro. Non è il vento del deserto, ma il petrolio che l’Isis brucia per frenare l’avanzata dell’eterogenea coalizione che dovrebbe scacciarlo da Mosul. Forse quello che abbiamo visto è appena l’inizio di una catastrofe umanitaria annunciata.