ITALIA
il manifesto 27.11.16
Oggi in piazza a Roma c’è chi dice No alla riforma costituzionale di Renzi
Al
voto. Oggi in piazza a Roma i movimenti sociali (dai No Tav ai No
Triv), molte reti di movimento, associazioni, studenti per il "No" al
referendum costituzionale del 4 dicembre. Le ragioni del "No sociale" e
"costituente" contro la riforma Renzi-Boschi della Costituzione e il
colpo di stato delle banche e dei governi che ha introdotto un regime di
stato di eccezione in Europa e nel nostro paese. In serata concerto a
piazza del Popolo con, tra gli altri, 99 Posse, E’Zezi, Assalti
Frontali, Daniele Sepe
di Roberto Ciccarelli
ROMA
Dopo lo sciopero generale dei sindacati di base del 21 ottobre, e la
manifestazione del giorno successivo a Roma, i cortei degli studenti del
7 ottobre e del 17 novembre e la contestazione a Firenze durante la
“Leopolda del Sì”, oggi a Roma un nuovo corteo dei movimenti sociali per
il “No” al referendum costituzionale del 4 dicembre. Il corteo “C’è chi
dice no” partirà alle 14 da piazza della Repubblica fino a Piazza del
popolo. Al termine della manifestazione è previsto un concerto al quale
parteciperanno, tra gli altri i 99 Posse, E’Zezi, Assalti Frontali,
Daniele Sepe. Qui le adesioni al corteo.
Preparato anche da
un’assemblea nazionale che si è tenuta all’Università Sapienza di Roma,
il corteo vedrà in prima fila il Comitato romano per il “No” alla
riforma costituzionale, i movimenti ambientali e contro le grandi opere
(No tav, no grandi navi, trivelle zero, stop biocidio), gli studenti per
il “No”, i movimenti per il diritto all’abitare. La riforma
Renzi-Boschi è stata definita in un appello dei “territori per il No”
sottoscritto da un vasto cartello di associazioni e movimenti, come “un
attacco da parte di quello stesso Governo che, in spregio ai valori
della democrazia, ha sbeffeggiato con un #ciaone gli oltre 13 milioni di
persone che il 17 Aprile scorso hanno votato per un modello energetico
libero dal petrolio”. “La democrazia nel nostro Paese va riformata, sì.
Ma nel senso che va estesa e restituita alle collettività locali. Non
possiamo accettare una costituzionalizzazione della sospensione
democratica, né accogliere la becera logica sottesa a provvedimenti
dannosi come lo Sblocca Italia”.
I sottoscrittori dell’appello
annunciano “un No pacifico che è un Sì per una diversa e nuova
concezione democratica per il nostro Paese, per una autentica e più
moderna riforma dello Stato”. “Renzi fa finta che il NO sia
un’accozzaglia di vecchi parrucconi e riciclati della politica. Siamo
stati nei mercati, nelle scuole e nei centri impiego a fare campagna,
dietro questo No c’è tanto altro – spiega Lorenzo, 27 anni – Le 5
milioni di persone in soglia povertà, i senza casa, i risparmiatori
truffati, i giovani che scappano dall’Italia”. “Questa riforma del
titolo V serve solo ad accentrare il potere nelle mani del governo e
privare i territori di decisionalità. A cosa serve la clausola di
supremazia statale? Solo a costruire Inceneritori, grandi opere,
trivellazioni” sostiene Marta, 30 anni, del comitato No grandi navi di
Venezia.
Il “No sociale” e “costituente”
Il corteo è stato
presentato in una conferenza stampa e da una serie di editoriali sui
siti di movimento.Il giudizio sulla riforma Renzi-Boschi è articolato e
converge su un’unica valutazione: dimostra che “il presidio democratico,
la partecipazione, la qualità della politica siano inutili – si legge
in un editoriale del sito MilanoInMovimento – È un modo per dire che
basta qualcuno che sappia decidere in fretta, e può mettere in pratica
quello che decide, per risolvere tutti i problemi. È, di nuovo, la
teoria dell’uomo forte tanto radicata nell’immaginario di questo Paese
da esercitare ancora un fascino perverso”.
“La velocizzazione dei
tempi della politica è in realtà una costituzionalizzazione dello stato
di eccezione, della logica dell’emergenza costante per la quale è
necessario il più solerte decisionismo – si legge nell’analisi dei
movimenti “Agire nella crisi” – Se ci fosse poi alcun dubbio sulla
questione, il contenuto della decisione deve andare incontro agli
interessi della speculazione dei mercati, alla rendita ed al profitto,
con l’attuazione delle politiche di abbassamento del costo del lavoro e
con il finanziamento delle grandi opere e delle infrastrutture
strategiche”.
E’ emersa, la necessità di non farsi chiudere
all’angolo dalla propaganda renziana secondo la quale il sostenitori del
“Sì” sarebbero per il “nuovo”, mentre quelli del “No” i difensori dello
status quo. Il “Sì”, invece, è considerato la continuazione
dell’offensiva contro le costituzioni antifasciste, la seconda puntata
dopo l’inserimento del pareggio di bilancio nelle costituzioni degli
stati membri dell’Unione Europea (l’articolo 81 di quella italiana). Il 4
dicembre una vittoria del “Sì” chiuderà il perimetro delle istituzioni
che governano, di fatto, l’economia e la società dopo “il colpo di stato
delle banche e dei governi” (così lo definiva Luciano Gallino) iniziato
tra il 2010 e il 2011 a livello europeo.
La formula del “No
sociale” è stata usata in questi mesi per allargare l’opposizione alla
riforma di Renzi alle politiche del suo governo, a cominciare dal Jobs
Act e dalla Buona Scuola. La formula è stata declinata durante lo
sciopero generale dei sindacati di base e evoca una prospettiva dopo il 4
dicembre. A partire dalla vittoria del No, da tutti auspicata. Il
tentativo è fare riemergere una prospettiva di opposizione sociale
diffusa che oggi stenta a prendere forma, anche se esistono focolai di
resistenza. La manifestazione di oggi vorrebbe “rappresentare quel
movimento popolare emerso con la campagna, che più o meno
consapevolmente sta ponendo al centro dell’agenda politica i temi che
nessuna forza politica ha intenzione di toccare. Parliamo del tema del
lavoro, del diritto alla casa, della qualità dei servizi pubblici, del
rifiuto dell’austerità” si legge ad esempio in un editoriale sul sito
Clash City Workers .
Il sito InfoAut, ragiona sulle prospettive di
questo percorso: “La scommessa con cui guardiamo a questo autunno è
quella di riuscire a far scendere la contrapposizione referendaria dal
piano separato della politica a quello incarnato della partecipazione
per poi spostarlo di nuovo in alto verso il piano del conflitto – si
legge in un editoriale – Questo è il nostro NO sociale. Proprio per
questo, niente sarebbe più sbagliato che giocare una contrapposizione
tra un presuntamente posticcio NO politico e un ancora più presuntamente
genuino NO sociale […] Dobbiamo lavorare su questa tendenza passando al
setaccio delle nostre lotte questa composizione con l’obiettivo di
approfondire la polarizzazione all’interno dello stesso fronte del NO in
vista della vera partita che, forse, si aprirà dopo il 4 dicembre.
Questo processo passa anche dall’opinione. Esiste un uso antagonista
dell’opinione ? Sì, è l’opinione contro il potere, l’opinione del debole
contro il forte, quella della ragione contro l’arroganza. Se crediamo
sia importante riuscire a bloccare un passaggio di innovazione sistemica
giudicato fondamentale dalla nostra controparte (e lo crediamo),
bisogna essere coscienti che la prima tappa passa per le urne. Votare NO
fa male alle istituzioni. Questo ci basta e avanza”.
Le proteste
Negli
ultimi giorni molti attivisti hanno lamentato l’oscuramento mediatico
sulla manifestazione. Il silenzio ha spinto alcuni attivisti romani a
manifestare venerdì al Nazareno, la sede nazionale del Partito
Democratico a Roma. “Sembra che in Italia possa parlare solo chi ha il
PD dietro, allora andati davanti al Nazareno – hanno spiegato – La
polizia ci ha subito aggrediti, strappando lo striscione,
identificandoci e comunicando che saremo tutti denunciati. Ormai
l’abbiamo capito i cosiddetti democratici sono tutti i giorni in
televisione a parlare delle ragioni del sì, mentre quelle del No vengono
da tutti censurate”.
Un altro episodio va segnalato, sempre da
Roma. All’università Roma tre gli studenti di Link hanno denunciato il
divieto delle autorità accademiche di una conferenza sulle ragioni del
No tenuta dall’ex magistrato Ferdinando Imposimato. Un decreto rettorale
ha bloccato le iniziative studentesche per garantire il “silenzio
elettorale” nei 15 giorni precedenti il voto del 4 dicembre.
All’iniziativa, che si è tenuta su una scalinata,hanno partecipato un
centinaio di persone. “Un atto pacifico di disobbedienza civile” lo
hanno definito gli studenti.
La Stampa 27.11.16
Basta violenza sulle donne
“Duecentomila in piazza”
di Flavia Amabile
«Perché
sono venuto? Perché lo voleva mamma». E’ sincero, Giuseppe. Ed è
sincera anche sua mamma Elisabetta. «E’ vero. Se non pensiamo noi mamme a
educare i nostri figli, chi dovrebbe farlo? »
Erano migliaia le
madri che ieri hanno chiesto ai figli di accompagnarle alla
manifestazione contro la violenza. C’erano anche molti padri, tantissime
figlie femmine. E poi gli adolescenti, senza genitori perché a scendere
in piazza con mamma e papà si corre il rischio di essere presi in giro
per il resto dei propri giorni.
E’ andata così la giornata
organizzata dalla rete «Io Decido» insieme con la rete dei centri
antiviolenza e l’Udi, l’Unione donne italiane. Migliaia di persone (per
gli organizzatori prima 100mila, poi 200mila) a sfilare. Non si vedevano
strade così piene su una “questione di donne” dal debutto del movimento
“Se non ora quando”. Era il 2011, il presidente del Consiglio si
chiamava Silvio Berlusconi e bisognava sottolineare che le donne
italiane non erano quelle delle intercettazioni che iniziavano ad essere
pubblicate. E bisogna risalire al 2007 per trovare una piazza
altrettanto affollata per denunciare la violenza degli uomini contro le
donne nel nostro Paese. Un’altra Italia? Per nulla, a giudicare dagli
slogan, i canti, gli striscioni. C’è chi scrive: «Per le donne morte non
basta il lutto, pagherete caro, pagherete tutto». Oppure: «Siamo
femministe, siamo sempre quelle, siamo milioni di forza ribelle».
«La
verità è che siamo qui di nuovo perché dopo tanti anni che abbiamo
combattuto la violenza maschile ancora non si ferma», spiega Vittoria
Tola, responsabile dell’Udi, Unione Donne in Italia. Il motivo? «Le
politiche in questo Paese non sono adeguate» e, comunque, «non vogliamo
più perdere nessuna donna ma la violenza resta e si è trasformata nella
modernità». I soliti discorsi da vecchie femministe? Le mamme in piazza
la pensano allo stesso modo. «Quelli che sembravano dei diritti
acquisiti possono essere cancellati se non si ricomincia a lottare»,
spiega Silvia, che alla manifestazione ha portato la figlia Emanuela.
Il
principale imputato è la politica e proprio la politica è assente. In
ogni senso. Nessuno degli slogan o dei cori si rivolge contro chi ha
ruoli di potere ma nessuno di chi ha ruoli di potere ieri è sceso in
piazza. Non c’è la sindaca di Roma, Virginia Raggi. E non c’è la
ministra con la delega per le Pari Opportunità Maria Elena Boschi,
impegnatissima nell’ultima settimana di tour per il referendum. Appare
Livia Turco che da sempre segue le donne. Fece lo stesso anche nove anni
fa ma era ministra, la mandarono via. Stavolta la accolgono con baci e
abbracci ma non ha più ruoli decisionali. Ci sarebbe anche Roberta
Agostini, deputata del Pd, ma il resto della folla sono le donne dei
centri antiviolenza arrivate da tutt’Italia, i ragazzi dei centri
sociali,i collettivi, le associazioni legate ai diritti civili, e poi un
esercito di famiglie con i figli nei passeggini, sugli skateboard, a
piedi. In piazza perché lo voleva mamma. E anche il papà, per fortuna.
il manifesto 27.11.16
Emozioni di una giornata particolare
di Norma Rangeri
Non
una di meno di quanto era stato promesso nelle previsioni della
vigilia. Non una di meno di quante era necessario mobilitare per
trasformare un immensa manifestazione in un fatto politico.
In
un’Italia spaccata a metà tra il Si e il No, in un momento di scontro
violento sulla rottamazione della Costituzione, la capitale del paese si
trasforma nella città delle donne giunte a Roma da ogni angolo del
paese. Una forza che scavalca di slancio l’agenda politica per
riaffermare valori e tempi di una rivoluzione sociale che le donne non
hanno mai smesso di costruire. Quando vogliono e decidono che è arrivato
il momento, mostrano a tutti un’altra politica possibile, che unisce la
storia e l’oggi con la vita di tutte al centro dell’impegno quotidiano.
Emozionante,
eccitante, particolare. Centocinquantamila, per dare un’idea
approssimativa, forse di più perché è difficile contare un’onda dietro
l’altra senza soluzione di continuità, senza file ordinate, senza
distanza tra chi è avanti e chi segue, senza organizzazione se non
quella dettata dalla portata di un fiume che scorre tranquillo e
rumoroso tra gli argini delle strade, da piazza della Repubblica a
piazza S.Giovanni.
Un corteo immenso, di molte generazioni
affiancate, come una materna matrioska che nel suo grembo raccoglie e
nutre una marea di ragazze. Anche molti uomini camminavano e
partecipavano cogliendo l’occasione di essere presenti in una battaglia
che non potrebbe riguardarli più da vicino e più drammaticamente.
È
stata una bella giornata contro la violenza come non si vedeva dagli
anni 70, dalle battaglie contro l’aborto clandestino. Un popolo al
femminile, donne con i cartelli e le parole delle associazioni e dei
movimenti. E poi, attaccato alle prime centomila, come un altro corteo,
chiassoso e variopinto, una gran festa di ragazze e ragazzi, famiglie,
coppie anziane, lei fresca di parrucchiere e armata di cartello («la
libertà delle donne è la libertà di tutti»), e il marito dietro.
Vita,
amore, forza, contro la violenza e la morte che arriva con il
femminicidio. Voci e volti accoglienti, megafoni per raccontare una
cultura patriarcale che ancora schiaccia, opprime, uccide. In tante,
armate delle ragioni di sempre, espressione di una robusta soggettività,
popolare e plurale come la sinistra non è più in grado di essere da
molti anni.
Certo non era un corteo che esprimeva simpatia verso
il «grande leader» che ci sta portando a votare contro la Costituzione,
semplicemente lo ignorava, mentre richiamava il governo al suo dovere:
più soldi, più servizi sociali, più educazione di genere, leggi
migliori.
L’informazione, scritta e televisiva, guardava altrove e
non si è accorta di nulla. Povero Tg3 (ha relegato la notizia in
fondo), povero Mentana (niente, zero assoluto, censurata), tutti presi
dallo scontro Renzi-Grillo-Berlusconi. Giornali e televisioni del resto
più che della società sono diventati l’altra faccia del potere.
E
povero Grillo che, insieme alla sindaca Raggi, ieri sfilava sotto le
bandiere del No, in un piccolo raduno poco distante dalla grande piazza
S.Giovanni. A pensarci bene niente di straordinario, in fondo ai 5Stelle
più delle donne piacciono le urne.
La Stampa 27.11.16
“Accordo storico, con la Fiom abbiamo ritrovato l’unità sindacale”
Bentivogli (Fim): la nostra intesa un esempio per il Paese
intervista di P. Bar.
E’
vero che c’era la necessità di recuperare un terreno di affidabilità e
di rapporti anche personali ma quando stanotte Landini mi ha chiamato
Laura, col nome della moglie, ho capito che eravamo andati un poco
oltre. E a quel punto gli ho detto: “Maurizio, fermiamoci qui”». Il
segretario della Fim Marco Bentivogli reduce da 4 giorni di trattative
no stop adesso scherza, ma uno dei risultati importanti che ha portato a
casa è anche la ritrovata unità sindacale. «Quello dei metalmeccanici è
un contratto storico – spiega - un esempio per tutto il Paese. E’ stata
una vertenza durissima, che ci ha fatto toccare con mano l’autenticità
della crisi delle relazioni industriali e ci ha fatto comprendere da una
parte e dall’altra che non si può più vivere di proroghe e
accordicchi».
Come ne siete usciti?
«Con un accordo davvero
nuovo, che difende i due livelli contrattuali e modifica la struttura
del contratto. Non vogliamo insegnare niente a nessuno ma sono certo che
questa intesa segna un prima ed un dopo quantomeno per i
metalmeccanici: d’ora in poi sia contratti nazionali e contratti
aziendali si faranno in modo diverso».
E con la Fiom come è andata?
«Per
me questo è un altro risultato importante se si considera che dal punto
di vista dei rapporti tra metalmeccanici i due che se le davano di più
eravamo io e Landini e prima ancora Rinaldini e Farina. Come abbiamo
costruito le soluzioni? Facendo leva sul rapporto personale come
facevano i nostri predecessori di tanti tanti anni fa. La cosa più forte
credo sia stato ricostruire un terreno unitario, non andando
all’indietro come si fa spesso per costruire le piattaforme, ma
guardando avanti».
Sicuro di esserci riuscito?
«Certamente.
Alla fine i nostri sforzi hanno prodotto un accordo che non solo cambia
la struttura contrattuale ma introduce un nuovo meccanismo di calcolo
degli aumenti. E poi, con Metasalute, si costruisce il più grande fondo
sanitario integrativo di natura negoziale probabilmente d’Europa, si
rafforza la previdenza complementare e si punta su altri pezzi di
welfare innovativo. Ma soprattutto viene introdotto diritto soggettivo
alla formazione per tutti che ci consentirà veramente di preparare la
vigilia della quarta rivoluzione industriale. Lo ripeto: è davvero un
contratto storico».
Un esempio per tutto il Paese, soprattutto se si guarda alle risse della campagna referendaria…
«Di
fronte ad una vertenza così dura non serve autocertificare le proprie
capacità ma occorre dimostrare di saper fare delle cose anche con le
persone che sono più distanti da noi. E questo è quello che manca in
questo Paese, dove si esaltano solo i contrasti e le cose che dividono».
Corriere 27.11.16
Un contratto nazionale che sa di global
di Dario Di Vico
Al
tavolo dei grandi contratti di lavoro dei Paesi avanzati, come quello
dei metalmeccanici italiani chiuso ieri, accanto alle folte delegazioni
di imprenditori e sindacalisti siede ormai fisso un solitario convitato
di pietra: la globalizzazione. Un ospite di cui bisogna avere grande
timore perché se il risultato di quel tavolo alla fine è troppo
sbilanciato a favore del lavoro c’è il rischio concreto che le imprese
non riescano a sostenere più il ritmo della concorrenza internazionale e
vadano fuori mercato. Viceversa se l’impresa stravince il round del
negoziato e magari umilia il sindacato è facile che psicologicamente che
gli operai sconfitti si iscrivano nel novero dei perdenti della
globalizzazione e finiscano per diventare l’esercito elettorale di
riserva dei partiti populisti.
Non è facile navigare tra le nuove
Scilla e Cariddi, contrattare al tempo dell’economia globale e si spiega
anche così il tempo che c’è voluto per Federmeccanica e Fiom-Fim-Uilm
per raggiungere un’intesa equilibrata che facesse sue le ragioni di
aziende che ormai vivono nell’epoca del 4.0 e di lavoratori che hanno
bisogno di buoni salari e nuove forme di tutela.
Nuove perché si
sforzano di proiettare la condizione operaia nello scenario prossimo
venturo e quindi operano scelte che non è retorico definire
lungimiranti. Si comincia con lo spostare il baricentro della futura
contrattazione sul livello aziendale che rappresenta comunque il punto
di contatto più genuino tra mercato e lavoro, si prosegue ampliando le
esperienze del welfare aziendale fino a estendere l’assistenza sanitaria
gratuita a tutti i dipendenti e ai loro familiari e si chiude
riconoscendo a ciascun lavoratore — e non solo a una minoranza di operai
specializzati — il diritto alla formazione.
Personalmente credo
che la tendenza delle tute blu, i Cipputi di una volta, a differenziarsi
in tre diversi tronconi di classi operaia sia inarrestabile: avremo i
supertecnici delle smart factory capaci addirittura di fare interventi
di manutenzione in remoto, avremo — si spera in buon numero — gli operai
che saranno comunque adibiti a operazioni standardizzate e poi vedremo
crescere il proletariato dei servizi. Quello, tanto per capirci, di cui
fanno parte i facchini dell’e-commerce. Se questo è il trend si può dire
che l’accordo raggiunto tra Federmeccanica e Fiom-Fim-Uilm si sforza di
tenere quanto più gestibili le distanze tra la prima e la seconda
classe operaia, di farsi carico della crescita dell’intera comunità
della fabbrica, in attesa di un’iniziativa robusta che si occupi di
includere la terza (non lasciandola in balia dei Cobas).
Le parti
sociali in quest’occasione hanno dimostrato di saper rinnovare il
proprio mestiere, di miscelare rappresentanza e responsabilizzazione ma
hanno fatto solo il primo passo. Quello a maggiore esposizione
mediatica. Ora bisognerà però che imparino a gestire un contratto che
richiede discontinuità a loro stessi. Gli imprenditori sono stati
coraggiosi ad accettare la sfida della formazione per tutti perché
significa aprirsi alla mobilità sociale interna alla fabbrica e saperla
rapportare all’innovazione tecnologica, una quadratura del cerchio che
fa tremare i polsi. I sindacati hanno accettato di esplorare nuovi
territori della contrattazione intuendo che una rigenerazione del loro
ruolo possa partire da qui. Dalla fabbrica intelligente, dall’incremento
del capitale umano, dal misurarsi con i problemi che pone il mercato
globale.
È auspicabile che durante questo viaggio entrambi
comprendano a pieno cosa è veramente cambiato nelle relazioni
industriali: nell’epoca del Grande Convitato di pietra ciò che unisce la
comunità della fabbrica è molto più di ciò che la divide.
Il Sole 27.11.16
Discontinuità di metodo e contenuti
di Valerio Castronovo
qui
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-11-27/discontinuita-metodo-e-contenuti-103807.shtml?uuid=ADCuBk2B
La Stampa 27.11.16
Sì o No, subito la conta nel Pd
Renzi anticipa il congresso
Il segretario vuole convocare le primarie già a febbraio
di Carlo Bertini
A
otto giorni dalla sentenza delle urne, Matteo Renzi, ha deciso di
bruciare i tempi. Comunque vada, anche se perdesse di misura, subito
dopo il referendum, riunirà la Direzione del Pd per la convocazione del
congresso per febbraio-marzo. Una mossa con un doppio scopo, strategico e
tattico: provare a riconquistare il consenso popolare, con le primarie
per la candidatura a premier-segretario. Secondo, impedire alla
minoranza bersaniana di riorganizzarsi. Con una maggioranza ampia in
Direzione, Renzi potrebbe anche attivare una procedura accelerata, che
anticipi la scadenza naturale di fine 2017, per arrivare al congresso a
febbraio, magari anche solo con le primarie. «Così a botta calda sfiderà
il Paese, una sorta di rivincita e di riaffermazione della leadership
nel suo campo», spiegano i suoi. Un contropiede, giocando d’anticipo,
con un occhio a possibili elezioni politiche anticipate, per imporre a
Bersani e compagni di mettere subito le carte sul tavolo. «Insomma, loro
si tengono Speranza che Matteo non teme e la piattaforma congressuale
di separare segretario e premier, magari proponendo un ticket con Letta
al governo», questo dicono dalle parti del Nazareno.
Dieci piccoli indiani
Nel
fortino del leader non temono neanche un eventuale proliferare di
candidature sotto i gazebo. Anzi, averne molte può far gioco a Renzi
perché pescherebbero tutte nell’area della minoranza e verrebbero
giocate in alternativa a lui, dunque si pesterebbero i piedi tra loro.
Altra cosa sarebbe se ci fossero uomini che provenissero dalla sua area
politica, tipo Delrio o Richetti, una lotta fratricida che ad oggi però
non è immaginabile.
Non sarà una passeggiata
Fatto sta che
gli spifferi che invece soffiano dalle correnti alleate non sono per
nulla confortanti. Sotto anonimato, i compagni finora più allineati alla
maggioranza renziana prefigurano scenari foschi al congresso. «Non sarà
una passeggiata per Matteo, tutti ci andremo a contare con diverse
candidature, perché in vista delle elezioni ogni corrente ha bisogno di
sapere che peso potrà avere nelle liste elettorali. E allora lui dovrà
sudarsela contro sei o sette candidati». La previsione è che oltre a
Roberto Speranza ed Enrico Rossi, governatore della Toscana partito
molto in anticipo come anti-Renzi, si candidi anche il ministro Maurizio
Martina, leader della corrente «Sinistra è cambiamento» e magari
qualche altro outsider come il governatore pugliese Michele Emiliano,
altro nome di cui si parla. La vera novità capace di sparigliare i
giochi e impensierire il premier, specie se sconfitto alle urne, sarebbe
però una candidatura del ministro Andrea Orlando, leader con Matteo
Orfini della corrente dei «giovani turchi». Di lui si parla in tutti i
discorsi che ruotano sul tema di una riorganizzazione della sinistra. Il
sospetto dei renziani è che possa giocare questo ruolo aggregante
dentro il Pd con un peso maggiore di quanto possano fare gli altri
contendenti: se scendesse in campo Orlando è probabile che lo farebbe
avendo dalla sua i bersaniani, che potrebbero puntare su di lui per la
maggiore visibilità di cui già gode e perché sarebbe in quel caso il
contendente considerato più forte di una vasta area contro Renzi. Ma
l’accelerazione ha proprio questo scopo: obbligare tutti a decisioni
rapide, se non immediate.
Corriere 27.11.16
Le strade del Quirinale nel caso vincesse il No Il ruolo decisivo del Pd
L’irritazione per i sospetti preventivi di brogli
di Marzio Breda
Anche
per il Quirinale i toni incandescenti del dibattito pubblico rischiano
di rendere la sfida del 4 dicembre «aberrante», per stare alla
definizione data da Napolitano. Ma, posto che un certo grado
d’imbarbarimento sia scontato in una consultazione divisiva com’è sempre
un referendum, è un’altra la questione che davvero preoccupa, lassù, in
questi giorni: la minaccia preventiva di non riconoscere il risultato
delle urne. A lanciarla alcuni esponenti del fronte del No, con
l’annuncio di ricorsi pronti a scattare se il voto degli italiani
all’estero risulterà decisivo, ciò che potrebbe insinuare dubbi sulla
stessa legalità dell’appuntamento elettorale.
Una mossa che, dopo
le tante pressioni esercitate da vari fronti, aggiunge un elemento
destabilizzante (infatti veicola il sospetto di brogli, prospettiva poco
sopportabile da una democrazia) a uno scenario già sovraccarico di
emotività politica e incognite istituzionali. Ancora una settimana ed
entrerà in gioco il presidente della Repubblica, evocato da tutti con
una doppia aspettativa: 1) nel caso che una vittoria del No sfoci in una
crisi di governo, dovrà rimettere in equilibrio il sistema e farlo
ripartire o, se questo si rivelerà impossibile, decretare la fine della
legislatura; 2) anche se vincesse il Sì, dovrà ridare coesione e
serenità a un Paese lacerato, in modo che si torni a lavorare insieme
dopo una campagna elettorale lunghissima.
Qualche punto fermo. Per
come Sergio Mattarella si è fatto conoscere interpretando il ruolo, non
dobbiamo pensare che tutto sia sempre nelle sue mani e comunque al
momento non ci sono le condizioni perché si assuma la responsabilità che
si prese, ad esempio, Napolitano in certe stagioni complesse, con i
governi Monti e Letta. Insomma: un presidente agisce in quanto
interpreta qualcosa che emerge da un sistema politico-istituzionale. E
oggi una maggioranza c’è, e alla Camera è anzi assoluta per effetto del
premio sancito dalla legge che ha premiato il Pd. Mentre è assai arduo
immaginare che se ne possano costruire altre.
Di qui partirà la
sua analisi quando, nell’ipotesi che un Renzi sconfitto si presenti
davanti a lui dimissionario (non è costituzionalmente obbligato a farlo,
ma è stato lui stesso a legare la propria sorte politica al referendum,
indicandolo alla stregua di una fiducia), scatteranno le procedure
dell’articolo 88 della Carta. A quel punto è prevedibile che il capo
dello Stato lo rinvii alle Camere, e non solo per un atto di cortesia,
ma perché l’esperienza repubblicana, dopo l’approvazione delle leggi
maggioritarie, contempla appunto passaggi parlamentari, che servono a
chiarire sul da farsi e a orientare le fasi successive. Passaggio
successivo: le consultazioni. Su queste avrà un inevitabile peso il
problema della legge elettorale da riformare, visto che si dà per
scontata una bocciatura dell’Italicum da parte della Consulta, tra
gennaio e febbraio. Alle correzioni potrebbe provvedere Renzi stesso,
accantonando le sue recenti promesse («non voglio galleggiare») e
accettando un mandato bis che in molti gli chiedono già. Incarico con un
esecutivo finalizzato a tale missione, non un governo da classificare
nella chiave minimalista «di scopo», perché sappiamo che ogni governo è
politico e di pieni poteri. Sempre.
Alternative è arduo
ipotizzarne, anche se non sono da escludere. Basta considerare che,
quando si materializza una crisi, l’articolo 88 è una traccia «a tema
libero», che permette al presidente di agire andando oltre la scarna
regola procedurale. Ciò che, per capirci, fa azzardare pure un mandato
esplorativo (a Grasso?), qualora la situazione si impaludasse. È chiaro
che saranno cruciali tre elementi: lo scarto del voto, i calcoli
politici interni alla maggioranza, l’istinto di conservazione del
Parlamento. Sarà su queste variabili che si giocherà il futuro della
legislatura. E Mattarella dovrà avere la pazienza di percorrere tutte le
strade e far decantare tutte le tensioni se vorrà garantire la
stabilità alla vigilia della Finanziaria.
Il Sole 27.11.16
Il «combinato» Costituzione-sistema di voto
L’Italicum privilegia la governabilità, ma le proposte di modifica vanno verso una maggior rappresentatività
di Emilia Patta
Combinato
disposto. L’espressione è stata coniata dall’ex segretario del Pd Pier
luigi Bersani ed è il motivo principale per cui, nonostante il recente
accordo interno al Pd per modificare l’Italicum dopo il referendum, la
minoranza di Area riformista guidata dal giovane bersaniano Roberto
Speranza voterà No al referendum sulla riforma del Senato e del Titolo
V. Il combinato disposto è appunto quello tra una legge elettorale
maggioritaria come l’Italicum - che tramite il meccanismo del
ballottaggio nazionale tre le prime due liste, se nessuno raggiunge il
40% dei consensi, garantisce al partito vincente la maggioranza assoluta
alla Camera - e la riforma costituzionale che abolisce il Senato
elettivo trasformandolo in Senato delle Autonomie senza più il legame
del rapporto fiduciario con il governo. La preoccupazione dei contrari
al combinato disposto è che un solo partito controlli non solo il potere
esecutivo ma anche l’elezione degli organi di garanzia. Ossia,
principalmente, presidente della Repubblica e giudici della Corte
costituzionale.
In realtà durante l’iter parlamentare della
riforma costituzionale, proprio per evitare una eccessiva concentrazione
di poteri sull’Esecutivo, sono state introdotte alcune importanti
modifiche. Il punto di chiusura per l’elezione del Presidente della
Repubblica è infatti i tre quinti dei votanti delle due Camere in seduta
comune, quorum molto alto (anche se si specifica votanti e non
componenti) che presumibilmente obbligherà i partiti – se vince il Sì – a
trovare un compromesso su una figura di garanzia. Quanto ai giudici
della Consulta, il Senato delle Autonomie ha il potere di eleggerne due
su cinque al suo interno. Va poi tenuto conto che proprio per andare
incontro a queste preoccupazioni nel Pd è stato trovato un accordo sulle
modifiche all’Italicum da sottoporre al vaglio del Parlamento dopo il 4
dicembre: sì al sistema dei collegi per superare il meccanismo dei
capilista bloccati previsto dall’Italicum e sì alla «definizione di un
premio di governabilità (di lista o di coalizione) che consenta ai
cittadini, oltre alla scelta su chi li deve rappresentare, la chiara
indicazione su chi avrà la responsabilità di garantire il governo del
Paese attraverso il superamento del meccanismo di ballottaggio». Certo, è
un documento interno e non un atto parlamentare, come chiedeva la
minoranza bersaniana, ma difficilmente il premier e segretario del Pd
Matteo Renzi potrà sottrarvisi.
Al di là del destino della legge
elettorale va detto che Italicum e riforma costituzionale sono state
pensate insieme nell’ottica della governabilità: un modello di
democrazia decidente, sull’esempio di alcune grandi democrazie
occidentali come la Francia e la Gran Bretagna, che permetta a chi vince
le elezioni di governare cinque anni per poi sottoporsi di nuovo al
giudizio degli elettori. Il modello contrapposto tende invece ad un
sistema più rappresentativo, basato su un proporzionale più o meno
corretto, che implica l’accordo tra partiti in Parlamento dopo il voto
per la formazione del governo. Sono evidentemente modelli di democrazia
entrambi legittimi. La questione - tutta politica - sottintesa alla
posizione favorevole a un sistema più rappresentativo che decidente è
che il sistema politico italiano in pochi anni è cambiato: non c’è più
il bipolarismo con centrosinistra e centrodestra contrapposti, bensì un
sorta di tripolarismo. Tradotto: c’è in campo un forte movimento
anti-sistema ed anti-europeo come il Movimento 5 stelle che con un
meccanismo elettorale eccessivamente maggioritario “rischia” di
ritrovarsi nella stanza dei bottoni.
Al di là delle intenzioni
politiche, sono i fatti stessi che in caso di vittoria del No spingono
verso un sistema elettorale proporzionale. Il punto è che, al di là del
sistema elettorale, è l’esistenza stessa del bicameralismo paritario ad
aver determinato l’instabilità dei governi che conosciamo. La modalità
di elezione delle due Camere è infatti diversa, e diverso è anche il
bacino elettorale. Intanto, dalla riforma del Titolo V del 2001, la
nostra Costituzione prevede che la legge elettorale per il Senato debba
essere su base regionale mentre quella per la Camera è su base
nazionale. Inoltre per la Camera votano i cittadini al di sopra dei 18
anni, mentre per il Senato quelli al di sopra dei 25 anni. Si tratta di
quattro milioni di elettori che con il loro voto possono determinare due
risultati diversi nelle due Camere: come è già avvenuto nel ’94
(Berlusconi vittorioso al Senato ma non alla Camera), nel 2006 (Prodi
vittorioso alla Camera ma traballante al Senato) e in modo clamoroso nel
2013 quando il sistema si è impallato del tutto (Bersani che conquista
il premio di maggioranza con poco oltre il 25% alla Camera e nessun
vincitore in Senato, dove con il Porcellum il premio di maggioranza era
attribuito Regione per Regione).
Da allora la tendenza dei
giovanissimi a votare in modo differente dai loro padri si è accentuata,
tanto è vero che il M5S è il partito maggioritario nella fascia tra i
18 e i 25 anni. Ora, se a vincere sarà il No, l’attesa sentenza della
Corte costituzionale sull’Italicum (i primi 15 giorni di gennaio) non
potrà che prendere atto del quadro “sistemico” e presumibilmente
estenderà alla Camera il proporzionale Consultellum con soglie di
sbarramento esistente per il Senato a Costituzione vigente. Perché
qualsiasi legge elettorale con premio potrebbe produrre due maggioranze
diverse nelle due Camere. E la conseguenza politica del proporzionale è
la grande coalizione tra il Pd e i vari partiti del centrodestra. Anche
su questo, in fondo, si deciderà domenica prossima.
Corriere 27.11.16
«Statali, senza riforma aumenti più difficili»
Le
prime vittime della bocciatura della riforma della pubblica
amministrazione da parte della Consulta potrebbero essere gli aumenti ai
dipendenti
«Bisogna capire come posso impegnarmi, se prima non raggiungo l’intesa con tutte le Regioni», spiega il ministro Marianna Madia.
intervista di Enrico Marro
ROMA
Ministro, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità di
5 articoli della legge delega di riforma della pubblica amministrazione
del 2015, perché prevede che i relativi decreti attuativi siano emanati
con il semplice parere non vincolante delle Regioni anziché con
un’intesa formale con le stesse. Ma non lo sapevate che col Titolo V
della Costituzione, che prescrive la legislazione concorrente fra Stato e
Regioni su molte materie, era meglio fare l’intesa?
«Assolutamente
no – risponde il ministro della Funzione pubblica, Marianna Madia -.
Rispettiamo le sentenze, ma la Corte ne ha fatta una evolutiva, cioè ha
cambiato orientamento. Quando abbiamo scritto la delega la
giurisprudenza era un’altra: prevedeva il coinvolgimento delle Regioni a
valle. Non a monte, con l’obbligo di intesa con le Regioni prima del
varo dei decreti attuativi. Tanto più che l’intesa formale richiede
l’unanimità e quindi basta che una Regione non sia d’accordo e la
riforma non si può attuare».
Ma il governatore della Toscana,
Enrico Rossi (Pd), che pure è favorevole alla riforma, dice che le
Regioni vi avevano avvertito del rischio incostituzionalità. Perché non
ne avete tenuto conto?
«Dobbiamo essere chiari: quando è stata
scritta la delega non c’era alcun rischio di incostituzionalità. E
abbiamo avuto sempre pareri favorevoli dalla Conferenza Unificata dove
sono presenti le Regioni e nel varo dei decreti attuativi abbiamo
comunque tenuto conto delle osservazioni contenute negli stessi pareri».
C’è chi dice che ora si bloccherà anche il rinnovo dei contratti pubblici. È così?
«La
situazione si é complicata perché la sentenza arriva nel mezzo di una
trattativa con i sindacati. Ho convocato i segretari di Cgil, Cisl e Uil
per mercoledì al fine di verificare le condizioni per arrivare a un
accordo per sbloccare i contratti. È prevista una parte economica, gli
aumenti medi di circa 85 euro, e una parte normativa per modificare
alcuni istituti, come la valutazione o il salario accessorio. Abbiamo la
possibilità di inserire queste modifiche nel testo unico sul pubblico
impiego, la cui scadenza è fissata per febbraio. Ma ora, dopo la
sentenza, bisogna capire come posso impegnarmi sulla parte normativa, se
prima non raggiungo l’intesa con tutte le Regioni. E verificare, come
dire, se il governatore del Veneto Zaia è d’accordo. Perché se non lo
fosse, si bloccherebbe tutto»
Allora mercoledì niente incontro con Camusso, Furlan e Barbagallo?
«Li
sentirò al telefono e decideremo. A questo punto dobbiamo capire quanto
la sentenza incida sul complesso dell’eventuale intesa».
Non si possono dare gli 85 euro e fare poi la riforma normativa?
«Le due parti sono inevitabilmente connesse».
Che ne sarà della riforma della pubblica amministrazione, dopo la sentenza?
«Il
problema è limitato a 5 dei 18 decreti legislativi finora approvati.
Tre di questi sono già in vigore. Riguardano la riduzione delle
partecipate, la licenziabilità dei “furbetti del cartellino” e
l’istituzione di un elenco nazionale dei direttori sanitari: 200 persone
che gestiscono 113 miliardi di spesa ogni anno. Su questi tre decreti
andrò, come chiede la sentenza, nella conferenza Stato-Regioni per avere
un’intesa e poi, se Zaia non si metterà ancora di traverso, presenterò
decreti correttivi e le riforme andranno avanti. Gli altri due,
dirigenza e servizi pubblici locali, erano stati approvati giovedì in
consiglio dei ministri, ma dopo la sentenza, non li abbiamo mandati al
Quirinale e non vedranno la luce».
Mezza riforma nel cestino dopo due anni di lavoro.
«Assolutamente
no mezza riforma, ma erano certo decreti importanti. Prevedere più
concorrenza nei servizi pubblici locali, a cominciare dai trasporti, e
che dirigenti non meritevoli non restino al loro posto avrebbe portato
grandi vantaggi ai cittadini e alle stesse autonomie locali. Il
paradosso di questa vicenda è che, anche se sono tutti d’accordo su un
intervento - governo, Parlamento, 8mila comuni, il Consiglio di Stato,
19 Regioni su 20 - basta il no di una sola Regione per mandare a picco
tutto il lavoro fatto. Ma così non vincono le autonomie locali bensì il
potere di veto».
Ci sarà bisogno di modificare anche la legge delega?
«No. La sentenza dice che l’incostituzionalità si può sanare con l’intesa sui decreti».
Ministro,
la sentenza della Consulta è del 9 novembre, ma è stata resa nota
venerdì. Possibile che il governo non sapesse della bocciatura?
«Non sapevamo assolutamente nulla».
Come si sente dopo questa sconfitta?
«Ancora
più impegnata sulle ragioni del sì al referendum costituzionale.
Referendum che non solo modifica il Titolo V, eliminando la legislazione
concorrente tra Stato e Regioni e quindi questo tipo di contenziosi, ma
cambia anche il procedimento legislativo. Nel nuovo Senato, infatti, le
autonomie locali potranno intervenire sulle leggi di loro interesse ma
senza bloccare il potere decisionale della Camera».
Se vincesse il sì sarebbe meglio per la sua riforma o in ogni caso bisognerebbe ricominciare da capo?
«Anche
se su dirigenza e servizi pubblici locali bisognerebbe comunque
ricominciare da capo, non ci sarebbe più il rischio che una Regione
possa bloccare tutto».
Zaia, parla di «sentenza storica» che ha
sconfitto la pretesa che i direttori della Asl fossero scelti sulla base
di indicazioni nazionali.
«Innanzitutto il decreto legislativo di
cui parla Zaia ha ricevuto il parere favorevole della Conferenza
unificata e noi abbiamo recepito le osservazioni fatte. La riforma,
ripeto, prevede che i 200 direttori sanitari che sottolineo gestiscono
113 miliardi debbano avere requisiti di assoluta professionalità e siano
scelti dal presidente della Regione all’interno di un elenco nazionale
trasparente. Mi sembrano norme assolutamente ragionevoli».
Ministro, pensa di aver fatto qualche errore?
«No,
né tecnicamente né politicamente. Penso sia un valore incidere sulla
riduzione delle partecipate, sui criteri di nomina dei direttori
sanitari, sulle sanzioni per chi truffa lo Stato e continua a mantenere
il posto. Ma noi andiamo avanti con tranquillità e determinazione. Per
questo sarà importante che passi il referendum, anche per superare le
tante resistenze al cambiamento».
Se il 4 dicembre vincerà il no, che cosa accadrà?
«Che restiamo fermi e che, per esempio, una sola Regione potrà ancora bloccare l’innovazione di un Paese intero».
Il Fatto 27.11.16
Storie parallele
Shalabayeva e la Diaz, bugie senza mandanti
L’espulsione
della donna kazaka come le false molotov nella scuola del G8 2001:
pagano i superpoliziotti e i politici restano nell’ombra
di Valeria Pacelli e Ferruccio Sansa
qui
https://issuu.com/segnalazioni.box/docs/shalabayeva_17db0c7b369098
Corriere 27.11.16
L’eclissi dei Partiti cristiani
di Ernesto Galli della Loggia
Quasi
sempre, in politica, se c’è qualcuno che vince è soprattutto perché c’è
qualcuno che perde. È ciò che sta accadendo in molti Paesi europei: il
successo dei partiti cosiddetti populisti si deve in larga misura al
vuoto che essi si sono trovati davanti. Cioè alla crisi profonda delle
due principali culture politiche che dal 1945 sono state i bastioni dei
sistemi politici del Vecchio Continente: quella socialdemocratica e
quella cristiano-cattolica. I cui partiti, pure laddove riescono a
mantenere più o meno le posizioni, come in Germania o in Spagna,
appaiono incerti, con un insediamento sociale vacillante, senza capi di
valore: insomma senza più nulla da dire.
Come è stato possibile?
Per la cultura politica socialdemocratica la spiegazione è abbastanza
semplice. La presenza della classe operaia tradizionale e la conseguente
forza dei sindacati è ormai dovunque un ricordo; da tempo, poi, la
crisi fiscale dello Stato ha ridotto la disponibilità della spesa
pubblica su cui per decenni si è fondato lo scambio keynesiano consenso
politico contro Welfare; infine, il crescente rilievo nell’arena
pubblica di temi «immateriali» a sfondo etico ha finito per schiacciare
l’antica etica socialista su valori individualistico-libertari che
l’hanno per più versi snaturata.
Sta bene. Ma perché vacilla,
seppure non è già scomparsa, un po’ dovunque la cultura politica
cristiana? Perché — per restare in Italia — sono politicamente scomparsi
i cattolici, non si sente più parlare di alcun loro impegno in
politica?
Credo che la ragione prima vada cercata nella crisi
profonda che l’identità cristiano-cattolica ha conosciuto nel suo
rapporto con la storia, con la propria storia. Qui ha fatto sentire il
suo effetto una lunga serie di rivisitazioni del passato (dalle Crociate
alla conquista delle Americhe, al colonialismo, all’antisemitismo) —
negli ultimi decenni di vastissima diffusione mediatica e scolastica
fino a diventare un vero e proprio senso comune — volte a mettere sotto
accusa l’etnocentrismo sopraffattore, la peculiare distruttività e
disumanità che avrebbe caratterizzato il ruolo dell’Occidente
euro-americano nei secoli: al proprio interno e ancor di più al proprio
esterno. Tutto ciò ha proiettato un’ombra inquietante sulla dimensione
storica della civiltà cristiana, del farsi storico del Cristianesimo,
per tanta parte cuore e tratto decisivo della vicenda
europea-occidentale. D’altro canto la lunga serie di richieste di
«perdono» indirizzate ai più vari destinatari da Giovanni Paolo II in
occasione del Giubileo del 2000 — non riequilibrata dalla rivendicazione
di nessuno dei meriti che la civiltà cristiana può del tutto
legittimamente rivendicare (penso, per dirne usa sola, all’eguaglianza
uomo-donna) — è sembrata, non a torto, convalidare questa visione
colpevolizzante del ruolo della presenza cristiana nel mondo. Visione
colpevolizzante a cui bisogna dire che l’intellettualità cattolica,
ancora più di quella laico-liberale, non ha saputo opporre nulla,
pietrificata dal timore di non apparire sufficientemente in armonia con i
tempi e forse anche di dispiacere a chi più contava nella gerarchie
romane.
Già di per sé tradizionalmente negletta nella formazione
del clero e delegittimata nel modo che si è detto, la dimensione storica
ha perduto ogni capacità attrattiva, non è più apparsa il terreno
congruo per l’ estrinsecazione del «religioso». Il che nel sentire
comune di moltissimi cattolici si è inevitabilmente accompagnato non
solo a una ovvia, conseguente delegittimazione della politica, ma a
qualcosa di più. Alla perdita d’interesse per un orizzonte cristiano, se
posso dir così, capace di misurarsi davvero con l’intera complessità
del reale, e quindi per quell’intervento a tutto campo nel mondo che è
proprio della politica.
È così accaduto che proseguendo sulla
strada iniziata con le chiese protestanti europee, il
Cristianesimo-Cattolicesimo si sia ritirato dalla Grande Storia. Dalla
Storia che ragiona per grandi aggregati visti secondo le logiche e i
meccanismi del potere, sia pure guardandosi dall’identificarsi con esso.
Sempre più forti, invece, sono risuonate le straordinarie parole dell’
annuncio, «Il mio regno non è di questa Terra»: e piuttosto che l’azione
storico-politica ha occupato spazi sempre più grandi una religiosità, e
nel caso della Chiesa cattolica una pastorale, orientate
prevalentemente all’azione caritativa da un lato e al rinnovamento
etico-spirituale dall’altro.
A determinare l’abbandono della scena
storico-politica in senso proprio contribuiscono non poco, infine,
anche due grandi fenomeni culturali dell’epoca. Il primo di questi è la
secolarizzazione. Come non pensare infatti che a suo modo l’abbandono di
cui sopra sia per l’appunto l’effetto del comando perentorio rivolto
alla religione dallo spirito del tempo perché essa si ritiri dalla sfera
pubblica? Da quella sfera pubblica per eccellenza che è la politica?
Come non sospettare che così il Cristianesimo non faccia altro alla fine
che adeguarsi a ciò che si pretende da lui?
Il secondo fenomeno è
quello rappresentato dall’ideologia dei cosiddetti diritti umani, oggi
fatta entusiasticamente propria dall’intero universo
cristiano-cattolico, elevata a direttrice basilare per muoversi nel
mondo, ravvisandosi in essa (non del tutto a torto) e nelle relative
istituzioni una derivazione evidente della visione cristiana stessa.
Sicché quell’universo religioso vi si aggrappa dovunque e comunque, ne
fa la propria bandiera, il surrogato virtualmente buono a tutti gli usi e
perciò adoperatissimo al fine di coprire l’assenza di un qualche più
complesso impegno in politica. Sembrando ignorare, però, che nella
versione corrente quella bandiera è in realtà anche l’ambigua bandiera —
almeno ai cristiani dovrebbe apparire tale — pure del diritto al libero
aborto, o alla scelta del proprio sesso, o alla «genitorialità» per
tutti.
Repubblica 27.11.16
L'ideologia dei 5 Stelle e la deriva dell'Uomo qualunque
L'Uomo
qualunque non cambierà mai e c'è sempre stato. Non è il popolo sovrano
che vorremmo fosse la base consapevole della democrazia
di Eugenio Scalfari
qui
http://www.repubblica.it/politica/2016/11/27/news/titolo_non_esportato_da_hermes_-_id_articolo_5314654-152908834/?ref=HRER2-1
La Stampa 27.11.16
Nella clinica delle vite sospese tra carezze e speranze di risveglio
Roma, viaggio nell’unica struttura pubblica per chi è in stato vegetativo
6 degenti sono ospitati a Casa Iride. Alice è la più giovane: ha 21 anni. Le sue condizioni sono definite «di minima coscienza»
di Andrea Malaguti
C’è
un posto, nella periferia Roma, dove ci si prende cura delle vite
spezzate. Esistenze che stanno sospese tra il cielo e la terra, né di
qua né di là, incapaci di esserci e incapaci di andarsene, come
Alessandra, che ha poco più di 40 anni e faceva la barista. Nelle foto
che la sua mamma ha appeso al muro della stanza sul parco, sembra una
concorrente di miss Universo. E’ mora, luminosa e ha gli occhi che
dicono: guardami. Anche sua figlia era molto fiera di lei. Poi
Alessandra ha sbandato con la macchina sulla strada ghiacciata ed è
andata a sbattere contro un albero. Il suo corpo l’hanno tirato fuori
dalle lamiere, ma un pezzo di lei si è perso da qualche parte che
nessuno sa dove sia. Ecco. Le vite spezzate sono queste. Uomini e donne
ridotte allo stato vegetativo a causa di gravi lesioni cerebrali,
incastrate in un limbo irreale destinato a durare per un tempo infinito
che nessun medico è in grado di pronosticare. Eluana Englaro è stata la
più famosa di tutti. Poi è arrivato il silenzio. Come se il problema non
esistesse più. Invece esiste ancora. Ed è enorme.
Ogni quindici
secondi una persona subisce un trauma cranico. E ogni cinque minuti una
di queste persone muore o diventa invalida, trascinando nell’invalidità
tutta la famiglia. Come ci si prende cura delle vite spezzate? A Casa
Iride, struttura pubblica unica in Italia, una risposta ce l’hanno. Ci
si arriva guidando verso Cinecittà e poi girando in via di Torre
Spaccata.
La si riconosce perché è incastrata nel verde e perché
la struttura, in legno, sembra un quadro norvegese. Lì ci abitano due
uomini e quattro donne prigionieri nell’acquario della loro mente, ma di
fianco hanno i padri, le madri, i fratelli e le sorelle. «Casa Iride
non è un ospedale, ma il posto dove queste persone abitano davvero.
Hanno i loro spazi singoli, ma anche spazi condivisi, come la cucina o
la palestra. I loro cari possono entrare e uscire quando vogliono,
continuando a vivere un’esistenza accettabile. Siamo una grande
famiglia».
L’avvocato Francesco Napolitano, Claudio Taliento e la
neurologa e psichiatra Maria Rachele Zylberman dell’Associazione
Risveglio, si sono inventati questa formula che non esisteva poco meno
di dieci anni fa. La Città Metropolitana di Roma ha messo a disposizione
l’immobile, la Asl garantisce la parte infermieristico assistenziale e
l’associazione Risveglio quella organizzativa. Ci sono infermieri,
logopedisti, fisiatri, psicoterapeuti. E se uno degli inquilini ha un
problema specifico - un’infezione, per esempio - viene portato
all’ospedale, curato, e riportato a casa. Le famiglie non sono più
prigioniere e le spese si dimezzano. Patrick, che ha quasi 30 anni ed è
arrivato qui quando ne aveva 29, è rimasto incastrato nel limbo per
colpa di un incidente in motorino mentre stava andando a giocare a
pallone. C’è suo zio che si prende cura di lui, mentre Daniela è
arrivata due settimane fa. Ha due figli e un marito che le sta di fianco
da mattina a sera. Una famiglia classica straziata da un incidente
d’auto. Raffaella invece ha avuto un’ipossia. Anche lei era molto bella.
Ed è entrato nell’acquario della sua testa durante un intervento di
chirurgia estetica. Una anestesia sbagliata.Gianfranco, che faceva il
vigile invece è rimasto prigioniero di un versamento cerebrale. Suo
fratello non lo molla un momento. Qual è il loro futuro? Difficile
dirlo. Non reagisco agli stimoli vocali e neppure a quelli acustici. O
almeno così sembra.
Ma gli scienziati americani dicono che: «the
absence of evidence is not the evidence of absence». L’assenza
dell’evidenza non è l’evidenza dell’assenza. E’ un labirinto complicato
come nessun altro. «I circuiti del dolore sono attivi. Ma non è detto
che queste persone ne abbiano coscienza», spiega la professoressa
Zylberman. Ci provano ogni giorno ad aiutarli un po’. Ma nessuno sa fino
a che punto serva. «E’ nostro dovere garantire loro assistenza e
attenzione», dice l’avvocato Napolitano.
Per Alice, che con i suoi
21 anni a Casa Iride è la più giovane, qualche speranza di
miglioramento c’è. Il suo non è uno stato vegetativo, ma uno stato di
minima coscienza. No ha avuto un incidente. Le hanno fatto male. A
botte. Una persona che doveva volerle bene, La sua mamma la imbocca
fissandola con curiosità, come se volesse orientarsi nella folla di
ombre che intasano la testa della figlia. Alice abbozza un sorriso.
Forse. E la segue con lo sguardo. Ha piccole reazioni.
Il papà le
accarezza la testa. Dice: «la mia bambina», con una tenerezza che spacca
il cuore. Sei ospiti, una sola esperienza in Italia (che funziona
meravigliosamente). Non è un po’ poco? «Lo è. E noi spingiamo perché il
modello di Casa Iride si allarghi. La buona notizia è che la Asl ci ha
appena comunicato l’intenzione di esportare questa esperienza anche in
altri distretti», dice Napolitano. «Le famiglie che passano da noi si
sentono più leggere. Aiutarle è un dovere. Mia moglie è rimasta per sei
anni in stato vegetativo. E a me e a mio figlio il mondo è crollato
addosso. Poi è stato un tumore a chiudere la sua vita, portandosi via
anche un pezzo di me. Eppure ogni volta che una persona spicca il volo
personalmente dico: forse è meglio così, lei e la sua famiglia hanno
sopportato un peso enorme. Ecco, noi cerchiamo di farci carico di parte
di quel peso», dice Claudio Taliento.
E’ mezzogiorno. La cucina è
piena. E c’è davvero un’aria casalinga. La mamma di Alice si rimette a
imboccare la figlia, continuando con questa forma di accudimento che si
spinge fino alle soglie del mistero.
Corriere 27.11.16
Il record negativo dei giovani in famiglia
di Danilo Taino
C’è
un singolo numero che può indicare quanto un Paese abbia bisogno di
riforme strutturali? Come sempre, la perfezione non esiste. C’è però un
indicatore che riassume la complessità dell’economia, della situazione
sociale, della dinamicità, della mobilità, forse persino delle speranze
di un Paese. È la quota di adulti tra i 18 e i 34 anni che vivono con i
propri genitori. In Italia siamo allo stratosferico livello del 67,3% (
2015 ). Due su tre. Una tendenza ogni anno in crescita dal 61,1% del
2008 . La crisi economica e la disoccupazione hanno certamente
contribuito a innalzare il numero di giovani che rimangono in famiglia
perché non hanno la possibilità di fare altrimenti. Il problema è che la
quota italiana è strutturalmente alta, la più alta tra le economie e
gli Stati dell’Europa in qualche modo efficienti: è al livello di quella
dei Paesi più arretrati del Vecchio Continente.
Secondo Eurostat,
nella Ue, rimangono a vivere in casa più di noi solo i 18-34 enni di
Croazia ( 70,1% ) e Slovacchia ( 69,6) . Subito dopo di noi, su quote
elevate, Malta ( 66,1 ), Grecia ( 63,8 ), Portogallo ( 62,9 ), Polonia (
60,9 ), Slovenia ( 60,8 ), Romania ( 59,2 ), Ungheria ( 58,5 ), Spagna (
58 ) e Bulgaria ( 56,2 ). I Paesi con economie e sistemi sociali più
efficienti riescono a «liberare» un maggior numero di giovani prima.
Restano meno in famiglia in Danimarca ( 19,7% ), e poi in Finlandia (
20,1 ) e Svezia ( 22,2 ): come sempre in testa in questo genere di
classifiche sulla dinamicità economica e sociale. Ma le cose sono ben
diverse rispetto all’Italia anche nel Regno Unito ( 34,3% ), in Francia (
34,5 ), in Olanda ( 36 ), in Germania ( 43,1 ) e in Belgio ( 44,3 ). Si
può naturalmente discutere sul perché in Italia una quota così alta di
giovani rimanga a vivere con i genitori: la cultura, l’idea della
famiglia certamente hanno un peso. Ma più di ogni altra cosa contano il
livello della disoccupazione, le aspettative per il futuro, la
difficoltà di accudire gli anziani, il mercato del lavoro che ha una
scarsa mobilità anche territoriale, la scarsa propensione a prendere
rischi in una società in cui la scala dell’emancipazione sociale
funziona poco. Da notare però che in tutti i Paesi della Ue le donne
rimangono in casa molto meno dei maschi: in Italia siamo al 62% contro
il 73 . Segno forse che la lotta per l’emancipazione (dai vincoli
strutturali) ha una leadership femminile.