domenica 27 novembre 2016

PRIMO PIANO 
il manifesto 27.11.16
Quel leader barbuto incontrato per la prima volta in tipografia
Una rivoluzione può essere anche allegra. Solo chi conosce la miseria dell’America centrale capisce il mito di Cuba
di Luciana Castellina

La prima volta che mi sono imbattuta in Fidel è stata mentre ero in una tipografia sulla Tiburtina dove stampavamo il settimanale della FGCI «Nuova Generazione». Stavo impaginando quando, su una delle riviste che avevo sul tavolo perché rubavamo le loro foto (mi pare fosse Newsweek), scorsi l’immagine di un barbuto in un bosco, armato di fucile. Nella didascalia si diceva che si trattava di tal Fidel Castro. Incuriosita, lessi anche l’articolo di accompagnamento. Sicché alla fine invece che solo due righe scrissi due cartelle: riferivo che si trattava di una guerriglia, che mangiavano erba e carne di serpente, e tutto il resto.
Era parecchio prima che conquistassero Cuba. Diventammo subito dei fan. Ancora di più quando per la prima volta incontrammo una delegazione dell’organizzazione giovanile a Mosca, in occasione – era il ’60 – di un grande raduno internazionale per la pace: quelli arrivati dall’isola caraibica anziché sfilare cantavano e ballavano. Scoprimmo così che una rivoluzione poteva essere allegra e non tetra come quella sovietica.
Per molti anni non ebbi occasione di andarci: prima per ragioni casuali, poi per il freddo che intervenne nei rapporti fra il manifesto e il regime castrista, dopo la svolta filo sovietica dei primi anni ’70 che aveva posto fine alla bella stagione rivoluzionaria che aveva reso l’Havana punto di riferimento di tutte le lotte di liberazione del mondo. Ce l’aveva raccontata Rossana, non a caso poi la più colpita dalla svolta, in un lungo reportage su Rinascita, in cui riferiva di un viaggio attraverso l’isola compiuto a bordo di una jeep proprio con Fidel, che aveva entusiasmato molti di noi, e invece un po’ irritato gli ortodossi del Pci.
Poi gli anni passarono e accaddero molte cose. Fu mentre ero a Managua con una delegazione del Parlamento europeo che fui avvicinata da un funzionario dell’ambasciata cubana che mi chiese se fossi stata disposta ad andare con un aereo militare che partiva poco dopo all’Havana per un incontro con Alarcon, presidente del Parlamento. Mi avrebbero riportato indietro dopo 24 ore.
Fu la mia prima visita a Cuba, un record di brevità. Sedemmo attorno al tavolo, io, un po’ imbarazzata, esordii dicendo che i rapporti fra noi non erano stati buonissimi, e che però eccetera. Tagliarono subito corto, dicendo che c’erano comunque tante cose comuni. E mi chiesero consigli su come stabilire un rapporto con la Comunità europea, fino ad allora subalterna agli americani, a differenza di quanto avveniva in rapporto agli altri paesi del centro America, grazie al ruolo assai autonomo giocato dal commissario socialista francese Claude Cheysson, animatore del c.d. processo di Contadora: un aiuto diplomatico alle guerriglie per liberarsi dell’oppressione di Washington.
Nel poco tempo che quella prima volta rimasi all’Havana visitai anche un ospedale. Mi colpì un reparto assai importante e non medico, bensì metallurgico: dove si fabbricavano tutti gli strumenti indispensabili alla chirurgia o alle analisi che non potevano, per via dell’embargo, importare e che Cuba non aveva ancora i mezzi per produrre.
Poi ci furono altre visite, ufficiali (come vicepresidente della delegazione permanente del Parlamento europeo per l’America Centrale), e semiufficiali (come presidente dell’Agenzia per il cinema italiano e poi come Arci). Grazie alle quali mi è capitato di visitare le cooperative create dalla locale Slow Food in campagna; le scuole periferiche finalmente dotate di luce per iniziativa della branca cubana dell’ Associazione Eurosolar; di assistere alle proiezioni (tante, affollatissime) del film «Fragole e cioccolata», prima pellicola in cui apertamente si parlava di omosessualità; di incontrare ministri aperti come Abel Prieto e sconcertanti funzionari imbalsamati; di cenare con intellettuali giustamente insofferenti per le tante ridicole censure; di girare per la città e vedere nugoli di bambini e adolescenti con una bella divisa verde uscire dalle tantissime scuole gratuite.
Ho avuto modo di vedere la fame negli anni successivi al crollo dell’Urss del cui aiuto (soprattutto l’importanzione dello zucchero) Cuba ha a lungo vissuto, più recentemente la miseria dei dipendenti pubblici, anche di quelli di alto grado, chirurghi e/o docenti, per stipendi in moneta locale insufficienti persino a cenare in un ristorante, e facchini dei lussuosi alberghi con le tasche piene di dollari ricevuti come mancia. Ma quello che mi ha fatto meglio capire Cuba è stata la conoscenza degli altri paesi dell’America centrale e del sud. Perché solo dopo aver visto quelle miserie si capisce perché tutt’ora e comunque Fidel e la sua rivoluzione siano rimaste oggetto di venerazione. Si capisce perché le difficoltà – e gli errori – abbiano potuto sviluppare odii, ma anche come sia possibile che centinaia di migliaia di cubani si siano affollati nelle piazze per ricevere il papa o per ascoltare i Rolling Stones senza che nessuno abbia colto la facile occasione di una protesta politica. Ci sono arresti ingiustificati, certo, ma Cuba non è un regime di polizia. Del resto neppure la Germania dell’est, con le sue Stasi potentissime, ha retto, figuriamoci se avrebbe potuto farlo, solo fidando nei gendarmi, un’isola caraibica. Capire Cuba è più complicato: critica e orgoglio per la propria rivoluzione si intrecciano. E sono certa che oggi saranno milioni quelli che piangeranno con tutto il cuore il loro Comandante supremo.
Lui, Fidel, era del resto davvero un bel personaggio. Di contagiosa simpatia. L’ultima volta che l’ho visto, saranno circa 20 anni fa, gli avevo portato un regalo. Poco prima ero stata a Washington, perché la nostra delegazione europea si incontrava regolarmente col Dipartimento di Stato per confrontare le rispettive politiche. Discutemmo anche con la sottocommissione esteri del Congresso, presieduta dall’orrendo italoamericano on. Torricelli, autore della più disumana legge di embargo verso Cuba. Uscendo dalla sala, ero rimasta in coda, e mi prese l’insensato desiderio di rubare la targhetta disposta sul banco della presidenza con su scritto: on. Torricelli.
Quando consegnai a Fidel il trofeo di guerra lui scoppiò in una bella risata e poi appese il cimelio dietro la sua scrivania. «Ho avuto molti regali – mi disse – ma curioso come questo mai».

il manifesto 27.11.16
Il Comandante che ha fatto una rivoluzione senza perderla
Hasta siempre Fidel. Ha lasciato un paese in condizioni migliori di quando lo ha liberato dal dittatore Batista
di Gianni Minà

Con un esempio palese di assoluta discrezione venerdì se ne è andato da questo mondo il Comandante Fidel Castro, l’unico, nel mondo moderno, che abbia fatto una rivoluzione e non l’abbia persa.
L’unico leader che abbia lasciato un paese in condizioni migliori di quando ha rischiato la pelle per liberarlo dalle prepotenze del dittatore Fulgencio Batista, uno che governava sotto braccio alla mafia.
È singolare che queste realtà, inconfutabili per l’America Latina (Piano Condor, desaparecidos) non siano ancora adeguatamente riconosciute e ricordate da una parte del mondo occidentale che pure, in questi ultimi anni, ha toccato tetti inauditi di empietà perseguitando esseri umani come noi e riempiendosi la bocca con le parole «libertà» e «democrazia», quando in realtà il loro unico «merito» era di essere nati nel posto giusto, al momento giusto.
Questa logica invece era stata ben chiara, fin dal tempo delle insurrezioni studentesche, per il giovane avvocato Fidel Castro tanto che, arrestato per le sue sedizioni, si era difeso da solo in tribunale con una frase che avrebbe fatto epoca: «La storia mi assolverà».
In realtà è più che disonesto, da parte dei farisei di casa nostra (i cosiddetti riformisti) ignorare che Cuba ha pagato, per la testardaggine del suo Comandante, un prezzo altissimo con l’assurdo embargo che dura da più di 55 anni.
E questo solo per aver rivendicato il diritto di autodeterminazione del proprio popolo scegliendo un sistema che non piaceva agli Stati uniti. Insomma una punizione di assoluta prepotenza.
Questo meccanismo perverso ha significato però che il 70% degli attuali cittadini dell’isola sia cresciuto schiacciato, per molto tempo, dalla repressione dell’embargo nordamericano.
Non è sorprendente dunque che questa resistenza fosse il peccato che qualcuno continuava (e continua) a imputare a Fidel Castro malgrado da 10 anni fosse uscito di scena a causa della salute precaria.
Eppure non è un mistero che quasi tutti i premier e i capi di Stato latinoamericani, da anni, facessero sempre, di ritorno dai meeting del nord (Onu, multinazionali) uno scalo a La Havana per sentire il parere del Comandante sul riscatto dell’America Latina e sul futuro da scegliere nonostante le politiche criminali del Fondo Monetario Internazionale o della Banca Mondiale o della Borsa di New York.
C’è addirittura chi è convinto che il ritiro di Fidel abbia messo in crisi l’evoluzione di alcuni processi politici e sociali di altri paesi del sud del pianeta. Non sorprende quindi che, in quasi tutto il mondo, la notizia della sua dipartita è stata trattata con assoluto rispetto, tranne forse da alcuni gruppuscoli di Miami, quelli che hanno favorito il terrorismo organizzato in Florida e messo in atto a Cuba, come Posada Carriles che continua a passeggiare tranquillamente per Miami. Sarebbe ora, anzi, che qualcuno chiedesse la verità agli stessi Stati uniti.
E non è un caso che proprio la Chiesa, coerente con l’atteggiamento di Papa Francesco contro la violenza e la guerra, abbia scelto di impegnare la propria diplomazia per la soluzione di complicate situazioni ferme da tempo scegliendo, due volte, come luogo di pace, proprio Cuba.
Non nascondo che come cittadino del globo, in caccia di verità, ancor prima che come giornalista, io senta ora la mancanza di un protagonista della storia che i critici diranno che ha spesso sbagliato, ma nello stesso tempo si è sacrificato per rispettare i diritti e la dignità di tutti.
Se ne deve essere accorto anche il Papa quando un anno fa è andato in visita privata da Fidel, accompagnato solo da un monsignore e di conseguenza fornendo al mondo un esempio tangibile di sensibilità.
Quella sequenza che ho inserito nel film-documentario «Papa Francesco, Cuba e Fidel» testimonia una tenerezza emozionante. Il Pontefice prendendo la mano di Fidel lo ha esortato: Ehi, de vez en cuando tirame un Padre Nuestro («Qualche volta lanciami un Padre Nostro») ricevendo come risposta dallo stesso Fidel un inatteso: Lo recordaré («Me ne ricorderò»).
Quando 30 anni fa, una combinazione della vita, favorita da Gabriel Garcia Marquez e Jorge Amado (giurati al Festival del Cinema de La Habana), mi permise di conoscere Fidel Castro, mi resi conto subito della personalità di questo protagonista della storia.
Con una ovvia gentilezza gli chiesi prima dell’intervista se, come tutti i capi di Stato, desiderasse conoscere in anticipo le domande. Fu drastico: «No. Con la storia che abbiamo, possiamo aver paura delle parole?».
L’intervista, concessa successivamente, durò 16 ore e fu pubblicata con due prologhi, uno di Garcia Marquez e l’altro di Jorge Amado.
Durante la visita di Papa Francesco a Cuba, a settembre del 2015, ho visto il 90enne Fidel a sorpresa in sedia a rotelle, ma lucidissimo. Qualcuno gli aveva detto che con una troupe stavamo documentando quell’incontro inatteso e pieno di speranze. Ci convocò nella sua villetta e, oltre a spiegarci l’imbarazzante situazione dell’Europa sul problema dei migranti e dei diseredati, si espresse con molto entusiasmo riguardo al Pontefice argentino: «Il suo modo di essere non mi stupisce per niente – spiegò – perché essenzialmente si tratta di una persona molto onesta, molto sincera e disinteressata».
È stata l’ultima volta che l’ho visto.
Avevo la promessa di andare, a metà dicembre, al «Festival del Cinema de La Habana» e di portargli una copia del documentario. Non ho avuto tempo di farlo, ma mi ha colpito, qualche mese dopo, il suo intervento al congresso del partito.
Non tanto la frase: «Presto compirò 90 anni. Non mi aveva mai sfiorato una tale idea e non è stato il frutto di uno sforzo, è stato il caso. Presto sarò come tutti gli altri, il turno arriva per tutti».
Mi ha emozionato questa affermazione piena di speranza: «Rimarranno le idee dei comunisti cubani come prova che questo pianeta, se si lavora con fervore e dignità, è in grado di produrre i beni materiali e culturali di cui gli esseri umani necessitano… Alla gente dobbiamo trasmettere che il popolo cubano vincerà».

La Stampa 27.11.16
“La rivoluzione fallì per colpa di Europa e Usa”
Macaluso: li lasciammo alla Russia
intervista di Giuseppe Alberto Falci

«Da un certo punto di vista Fidel è stato un eroe». Dalla casa di Testaccio Emanuele Macaluso, ex dirigente del Pci e già direttore de L’Unità, commenta la scomparsa di Castro.
Insomma senatore Macaluso, il líder máximo se ne va da eroe, non da dittatore?
«Sì, Castro è stato un uomo che ha fatto una rivoluzione autonoma contro una dittatura feroce, quella di Batista, e ha sfidato gli Stati Uniti. La colpa fu dei democratici americani ed europei che tentarono di stroncare quella Rivoluzione, spingendolo a fare una patto di ferro con la Russia. Da lì iniziò l’involuzione del regime: gli arresti dell’opposizione, la vicenda dei missili, la tensione con Kennedy. E da quest’altro punto di vista Castro è stato un uomo che ha vissuto una forte contraddizione: la sua è stata sì una rivoluzione democratica autonomista, ma un modello mai esportato».
Da dirigente di Botteghe Oscure, ha un ricordo personale?
«Negli Anni 70 rilasciai un’intervista al Corriere della Sera sull’involuzione del regime. In quell’occasione feci una critica aperta che venne considerata dai cubani troppo forte, quasi fosse un atto di ostilità del Pci. E quando Giancarlo Pajetta, allora dirigente incontrò lo stato maggiore dei cubani, questi ultimi sollevarono la mia questione. E sa cosa rispose... che “quelle erano valutazioni personali”. Ora per via di quest’elemento ostativo non l’ho mai incrociato, e non ho mai messo piede a Cuba, nemmeno quando fui direttore dell’Unità».
Cosa ha rappresentato per i comunisti italiani Fidel Castro?
«La rivoluzione autonoma non portata dai sovietici: il segno possibile di una rivoluzione fatta col popolo, con l’instaurazione di un regime che aveva i segni del socialismo. Poi certo Castro fu costretto a saldare un rapporto di ferro con l’Urss, con le conseguenze che conosciamo: quella rivoluzione perse un pezzo della sua autenticità ed autonomia».
Svanito Castro si possono definitivamente archiviare il ’900 e l’esperienza comunista?
«L’esperienza comunista? Ma quale esperienza?! Non era un’esperienza comunista, la sua era un’esperienza autonoma; con la scomparsa di Fidel si apre la possibilità che il Paese si democratizzi, anche se purtroppo ora c’e Trump…».

Corriere 27.11.16
Bertinotti
«All’Avana con Lella. Le notti ad aspettare che ci convocasse»
di Alessandro Trocino

ROMA «Ho provato come un senso di abbandono». Fausto Bertinotti è commosso. Si allontana dal telefono per leggere un manifesto sulla parete: «Eccolo: Habana, Festival de la canción popular , 1967». Da allora è rimasto fedele al líder máximo : per i suoi 80 anni gli scrisse, affettuoso: «Lunga vita, Comandante». Gli rispose Pietro Ingrao, su Liberazione : «Quello cubano è un regime di pesante dittatura».
Un senso di abbandono, dice.
«La storia a cui ho appartenuto se ne va. La morte di Castro è struggente. E dolorosa, per uno della mia generazione politica: è la fine di un’epoca. La fine del Novecento. L’epigrafe migliore è la sua frase: la storia mi assolverà».
La storia lo assolverà?
«Vorrei ricordare Brecht, quando diceva: voi che verrete dopo, siate indulgenti con noi, che abbiamo preparato la gentilezza ma non abbiamo potuto essere gentili. Messaggio che non condivido, ma che per quella storia vale».
Lei incontrò Castro?
«Più volte. Ricordo conversazioni lunghe anche una notte sulla globalizzazione. I suoi piedi erano a Cuba, ma la testa girava sul mondo».
Come avvenivano gli incontri?
«Una volta che ero con mia moglie Lella e nella casa vicina c’era García Márquez. Lui poteva chiamare per l’incontro a qualsiasi orario del giorno e della notte. Era un grande affabulatore, con un enorme carisma. Fu anche questo a far diffidare di lui Pietro Ingrao e Rossana Rossanda».
Ecco, Ingrao. Fu durissimo con lei.
«C’era una questione generazionale. Il gruppo dirigente del Pci non ha mai avuto una vocazione terzomondista. Ingrao, poi, ci trattava come un padre che guarda ragazzi scapigliati».
Il regime castrista imprigionava i dissidenti, silenziava i giornali, perseguitava i gay. Si può chiamare «dittatore» Castro?
«Mi pare fuorviante. Enfatizza una dimensione, ma non è per questo che Castro passerà alla storia. È la tessera del mosaico non il mosaico».
Cuba e l’Unione Sovietica.
«Incontrando Fidel, trovai un libretto sul cottimo, tradotto dal russo. Glielo dissi: “Vi adattate a un modello autoritario”. Lui rispose: “Quando ti devi cercare un alleato, l’importante è che sia molto lontano”. Un modo per far capire che era alleanza necessaria ma scomoda».
Non ci fu democrazia né pluralismo.
«È vero, ma una volta andai all’Avana, invitato prima della visita del Papa. Mi disse: “Di pluralismo ci sarebbe bisogno, ma qui l’opposizione sarebbe la longa manus dell’imperialismo. La visita del Papa apre una via al pluralismo”».
Le critiche da sinistra sono sbagliate?
«Ho ben presente il lato oscuro del castrismo. Noi contestammo le condanne a morte e per un periodo sospendemmo i rapporti. Ma non dimentichiamo il resto».
La sanità e la scuola.
«Sembra rituale ripeterlo, ma assicurare eguaglianza, scuola e sanità per tutti fu un atto unico. Cuba sotto Castro non è stato il migliore dei mondi possibili, ma certo è stato un combattimento per diventarlo. E poi se criticassimo, si potrebbe dire: da che pulpito viene la predica? È stato tale il fallimento della nostra sinistra europea, che c’è il dovere di prenderla bassa, quando si critica gli altri».
Lei disse che Castro è insostituibile. E ora?
«Senza il suo carisma, non si può chiedere a Cuba di continuare a essere quello che è. Spero solo che non perda del tutto quella luce che l’ha illuminata dal giorno dell’arrivo dei barbudos » .

Repubblica 27.11.16
Fidel Castro
Dall’assalto alla Moncada all’embargo così scompare l’ultimo comunista
di Vittorio Zucconi

Va via proprio mentre alla ribalta del potere americano assurge Donald Trump, un altro residuato dei miti ideologici del XX secolo Come in tutte le dittature, la gente dell’isola aveva imparato a detestare il sistema, ma a salvare lui che del regime era responsabile.

NELL’INTERMINABILE addio di un tempo che non vuole lasciarci, l’ultimo eroe del XX secolo, Fidel Castro, scompare proprio mentre alla ribalta del potere americano assurge un nostalgico di quel secolo che vorrebbe resuscitare: Donald Trump. Nell’incrocio fra vita e morte, nella presa di un secolo che non finisce mai, di quel mondo che comincia sul Rio Grande e finisce nella Terra del Fuoco, Fidel Alejandro Castro Ruz era stato per 50 anni il sogno e l’incubo.
COME l’avversario che non avrà è il sogno e l’incubo del “Grande Norte”, dell’Altra America oltre il Muro. Due figli del passato, Fidel e Donald, che non potranno incontrarsi nel futuro.
Castro era il venerabile dinosauro sopravvissuto all’era che lo aveva creato, all’utopia di una rivoluzione globale sconfitta dalla globalizzazione del capitalismo e segnato dalla suprema ironia di quelle due bandiere, la cubana e l’americana tornate a sventolare nell’agosto del 2015, sulle opposte capitali. Un nemico, un idolo, ma un uomo che è stato impossibile da ignorare, da amare, da detestare, e sempre da rispettare. Morto dopo essere stato costretto, dal fratello, non dal nemico, ad accettare recalcitrante, brontolante, una normalizzazione che ora quel Trump che era già un teenager quando Cuba divenne comunista, potrebbe rinnegare.
All’Avana è scomparso l’ultimo vero comunista giurassico, portandosi via in quel corpo divenuto fragilissimo e inoffensivo a 90 anni il sogno fané come il suo volto scolorito di un’ideologia nella quale soltanto lui ancora credeva, se ancora ci credeva, insieme monumento e prigioniero di se stesso. Il mondo non avrà più un Castro da maledire o da invocare e nessun altro di coloro che restano aggrappati all’aggettivo comunista, non il grottesco e feroce bamboccio eremita arroccato nella penisola coreana, non le varie “dittature di sviluppo” asiatiche, non gli addomesticati comunisti da “talk show” televisivo o da facoltà accademiche, potrà mai prendere il suo posto. I dittatori, nella storia di ogni continente e di ogni ideologia, si vendono a mazzetti. Castro era un “unicum”, un pezzo unico, come unica è stata la presa sull’immaginazione del mondo che questo figlio di un benestante piantatore galiziano di zucchero emigrato a Cuba possedeva.
È stato la coda che ha agitato il cane, il signore di un’isola adorabile e infelice grande poco più di metà di quella Florida incombente su di essa appena oltre il giardino, che da scantinato sordido del Caribe, da bordello dell’America e delle sue multinazionali, aveva saputo trasformarsi nella spina inestirpabile conficcata nella zampa dell’elefante “yanqui”. Ma con un’ultima vittoria finale, che il tempo soltanto dirà se vera vittoria fu: sulla caduta del Muro d’Acqua negli Stretti della Florida ha potuto dire, dal proprio sontuoso palazzo nel quartiere Miramar dell’Avana, di essere sopravvissuto ai dieci presidenti americani che hanno cercato invano di abbatterlo, Eisenhower, Kennedy, Johnson, Nixon, Ford, Carter, Reagan, Bush il Vecchio, Clinton, Bush il Giovane, fra la disastrosa voglia di eliminarlo con invasioni da operetta e le operazioni segrete da filmetto di spionaggio. Fino al “basta” ordinato da Obama. Un eterno “Redivivo”, fanatico di baseball, tifoso degli Yankee di New York per i quali si era illuso di potere giocare, fra gli estremi della possibile catastrofe nucleare scatenata nel 1963 dalla sua decisione di trasformarsi in piazzola per i missili di Krusciov ai dispettucci infantili dei voli charter tra Miami e l’Avana concessi e negati, secondo i diktat della lobby cubana in Florida che oggi esulta. Forse senza rendersi conto che era la “Questione Cubana”, era l’aborrito Fidel, a rendere rilevante quella Little L’Avana che dopo Castro sarà soltanto un’altra minoranza etnica fra tante, nella insalatiere delle culture e delle razze.
Resistere per mezzo secolo alla furia di un elefante esasperato, lontano appena 90 miglia di mare, è ciò che ha fatto di Fidel Castro la stella polare di tutti coloro che nel mondo, e non soltanto in quello latino, guardano a Washington come alla sorgente di ogni nequizia. In un continente che produce demagoghi scamiciati, capipopolo, guerriglieri, trafficanti, generali torturatori, politicanti rapaci e corrotti, tribuni di una sera che si succedono e si annullano con la violenza degli scrosci d’acqua nelle foreste andine, un uomo che sappia restare alla guida di un’isola come Cuba per due generazioni raggiunge la semplice santificazione della sopravvivenza. Fidel non ha vinto la grande scommessa con la storia, quella di essere l’acciarino “rivoluzionario” che avrebbe cambiato il mondo o almeno il proprio emisfero, come sognava il suo nemico e insieme figlio, il Che, e come lui tentò di fare dissanguandosi con le avventuristiche spedizioni di truppe in Africa per cambiare i regimi degli altri. Ma ha vinto la scommessa con l’adorata e odiata America, restando al proprio posto fino a quando, nell’impari duello gridato su ogni muro dell’isola, “Socialismo o Muerte”, è stata l’America del Nord, non lui, a sbattere le palpebre per prima.
E soltanto a Sud della magica e tragica frontiera americana con il Grande Norte, nelle acque di quel Caribe che è il liquido amniotico di tutti i sincretismi religiosi, culturali, musicali, razziali afro-europei e di tutti i voodoo venerati su quei finti altari cattolici davanti ai quali anche Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco si inginocchiarono fingendo di non sapere, un personaggio come Fidel Castro era pensabile. Un borghese colto, e cresciuto nella buona società cubana fino alla laurea in Giurisprudenza, che diventa il tormentatore della borghesia cubana. Un figlio illegittimo, “bastardo” come si diceva allora, del piantatore galiziano di zucchero e di una domestica, Lina Ruz González, che il padre si decise a sposare dopo l’annullamento del matrimonio, ma non prima che la fedele Lina gli avesse dato ben sette figli, quattro femmine, Angelita, Juanita, Augustina, Emma e tre maschi, Ramon, Fidel e quel Raul che nel 2006 ha ricevuto il timone dal fratello morente, condannato per tutta la vita a essere migliore degli altri per legittimarsi.
Un ragazzo tormentato dai coetanei, perché non battezzato da piccolo, ma che poi va a rifinirsi nelle scuole cattoliche private e nel liceo dei Gesuiti all’Avana, assorbendo quel marchio di rispetto e di timore superstizioso per la “Iglesia” che lo rese impettito, rigido e felice come lo scolaretto che fu, al fianco di Papa Wojtyla sulla Piazza della Rivoluzione. Uno studente facile a esaltarsi e esaltare, poi avvocato, che si volle aggiungere come secondo nome quello di Alejandro, dopo avere letto delle imprese del condottiero macedone, e come primo cognome quello della madre naturale, Ruz. Ricevendo come ultimo Papa, nella sublime ironia della Storia, proprio un gesuita, come i suoi primi educatori.
È possibile che la ricerca storica, ora che il grande caballo, come i cubani lo avevano soprannominato per le sue leggendarie prodezze erotiche da stallone, chiarisca definitivamente se il giovanissimo avvocato che salì sulla Sierra per lanciare il primo assalto alla caserma della Moncada il 26 luglio del 1953 (Stalin era morto da pochi mesi tanto per dare la prospettiva temporale della sua vita) fosse un comunista travestito da nazionalista o un irredentista progressivamente spinto nella braccia del Socialismo Reale e dell’Unione Sovietica, così condannando se stesso e la sua Cuba alla morsa micidiale della Guerra Fredda. Ma chiunque abbia conosciuto anche superficialmente Cuba, l’abbia amata nella sua gente incantevole oltre le vetrine turistiche da “Hawaii Sovietica”, può avere pochi dubbi sul fatto che Fidel Castro avrebbe stravinto un’elezione autentica, un referendum non taroccato, contro qualsiasi concorrente si fosse liberamente candidato. Neppure nei momenti più amari, quando la Mosca di Gorbaciov scaricò lui e Cuba come un sacco di sassi e i monelli all’imboccatura del porto applaudivano rincorrendoli dalle banchine i pochi mercantili che ancora entravano per portare cibo in una capitale oscurata, i cubani avrebbero tradito colui che li aveva condotti al patto leonino dello scambio fra la libertà e dignità nazionale.
Come in tutte le dittature e i regimi oppressi dal “culto della personalità” la gente di Cuba aveva imparato a detestare il sistema, ma a salvare colui che del regime era responsabile. La colpa della miseria e della plumbea indifferenza che avevano ricominciato a opprimere l’isola, a riportare le ragazzine per le strade a rivedere l’orrore del turismo pedofilo, a separare in “classi” di fatto coloro che riuscivano a mettere le mani sui “castrodollari”, i Cuc, i pesos convertibili buoni per i negozi veri, e coloro che dovevano campare di Cup, “el peso di mierda” dei salari di stato e di tessere alimentari, era degli altri. Del “Bloqueo”, l’embargo pur largamente bucato dai commerci con l’Europa, la Cina e il resto dell’America, insieme zavorra e involontario puntello del castrismo. O dell’esecrato “hermano” di Raúl, capo dell’apparato di sicurezza, degli sciacalli, dei gerarchi corrotti, della corte, della nomenklatura, divenuto, ironicamente, il Grande Liberalizzatore alla fine della vita dei fratelli. Mai di Fidel, intoccabile come tutti i sogni, neppure quando l’implacabile avanzare dell’età lo costrinse a rinunciare al “Cohiba”, al sigaro, e gli ricoprì con il sale del tempo il colore della barba.
Lascia un popolo che con lui ha imparato a leggere, a non sentirsi più colonia, che ha pagato cara la propria dignità che lo piangerà ma, lo auguriamo ai dolcissimi cubani, non dovrà rimpiangerlo, come a volte accade ai dispotismi decapitati. Ha creato un’economia inesistente ed esangue, una sorta di isola bambina viziosa e vergine, completamente impreparata al mondo nel quale ora sarà costretta a rientrare al volante dei suoi almendrones, le carcasse dei macchinoni americani Anni ’50 rappezzati o degli ultimi
sacapuntas, i temperamatite, le 600 fatte in Polonia, sonora di meravigliose musiche, ma senza uno spartito politico. Una grande nave alla deriva senza una classe dirigente, senza un successore, e sulla quale ora si potrebbero abbattere la vendetta dei gusanos, la collera dei vermi sfuggiti alle sue grinfie, come li chiamava lui, dei marielitos, dei balseros, scappati a bordo di copertoni di camion e su gusci di balsa dal porto di Mariel e la rabbia degli esuli arricchiti e pronti a tornare per esigere, come già in Polonia, nella Germania dell’Est, nell’Europa Orientale dopo il 1991, le proprietà espropriate. Il sogno, e l’incubo, sono morti, ma in realtà erano morti da tempo, scoloriti e patetici come l’omino del murale dipinto accanto alla legazione americana all’Avana con il dito puntato verso il Nord e la sua affermazione che «non abbiamo assolutamente paura di voi, signori imperialisti», levato quando si è rialzata a bandiera. Resta il sapore della tristezza, come di una magnifica occasione mai colta, di un sogno vero diventato banale, nel segno della eterna verità churchilliana: «La dittatura risolve tutti i problemi, meno il più grave, cioè se stessa».
Fidel ha fatto appena in tempo a vedere l’assunzione al trono “yanqui” di un altro residuato dei miti e dei vizi ideologici del suo XX secolo, Trump, e non sappiamo se e quanto lucido fosse lo stanchissimo caballo la notte dell’8 novembre scorso e se abbia potuto vedere Trump in televisione. Ma almeno un’umiliazione gli sarà risparmiata: vedere, come monumento funerario alla sua “Revolucion” incompiuta, un trionfante grattacielo di 60 piani sul lungomare del Malecon con cinque lettere d’oro scintillanti al sole del Tropico: “Trump”.

Repubblica 27.11.16
Inge Feltrinelli.
“Io, Giangiacomo e Fidel quegli incontri in pigiama a parlare di donne e politica”
I ricordi dei viaggi a Cuba e i colloqui con Castro per un libro che non si fece mai “Discuteva di marxismo, ma era superficiale”
intervista di Simonetta Fiori

PIÙ CHE la casa di un rivoluzionario, sembra l’interno progettato da un designer, con la poltrona di pelle délabré, il parquet a listoni robusti, e quegli stivali tirati a lucido che non sfigurerebbero in una pubblicità del lusso. Siamo all’Avana, nel febbraio del 1964, nell’appartamento di “Barba Massima”, come lo chiama nel suo diario Giangiacomo Feltrinelli. L’editore è venuto a Cuba per realizzare un nuovo successo internazionale: le memorie di Fidel Castro. Con lui è la moglie Inge, brillante fotoreporter che velocissima con la sua Rolleiflex cattura scatti ovunque. «Non credo esistano altre fotografie del leader in pigiama», racconta Inge nella sua casa milanese. «Andavamo da lui la mattina molto presto e lo trovavamo ancora con la giacca da camera».
Lui voleva affidarvi le sue memorie?
«Sì, ci aveva scelto tra tanti editori internazionali. Ma all’inizio non fu facile avvicinarlo. Eravamo ospiti del governo in una fantastica villa d’un barone dello zucchero, la Casa di Protocollo numero uno, la stessa che aveva ospitato il potente ministro sovietico Mikojan. E per una settimana aspettammo invano un suo cenno. Tanto che una mattina convinsi Giangiacomo ad andare al mare con la jeep. E proprio quel giorno si presentò il líder máximo nella sua divisa mimetica. Ci avrebbe scherzato sopra al telefono: ma come, io vengo a trovarvi e voi sparite?».
Giangiacomo se la prese?
«Voleva quasi ammazzarmi. Per fortuna Fidel tornò da noi una seconda volta. Al principio rimase deluso da Giangiacomo che non aveva l’allure da borghese riccone. “Ma è proprio lui il miliardario?” continuava a chiedere ai suoi che riuscirono a rassicurarlo. Parlarono di tutto, della produzione agricola e della crisi dell’Ottobre rosso, di America Latina e dei contrasti con gli Stati Uniti. E poi ci diede appuntamento a casa sua, la mattina molto presto».
Per questo lo trovaste in pigiama.
«Sì, un pigiama borghese, molto curato nelle cuciture sul polsino e sul colletto della camicia. Era un uomo elegante, con le lunghe mani affilate da aristocratico spagnolo. Anche di primo mattino fumava dei sigari Cohiba molto sottili che ne accentuavano il fascino. La sua voce era invece deludente: una tonalità molto alta, quasi effeminata, che contraddiceva le pose da macho».
Di cosa parlaste?
«Il dialogo era esclusivamente con Giangiacomo. Io non ero considerata, se non come appendice. Avevo l’impressione che fosse anche impaurito dalle donne».
Perché?
«Ricordo che Giangiacomo lo criticò per la politica ostile ai gay: volete creare il mondo nuovo e vi comportate da persecutori? E lui fece un discorso sulla gioventù cubana rovinata da un mammismo impregnato di cattolicesimo. Accusava le madri di un eccesso di invadenza nella vita dei figli. E le donne risaltavano nel suo racconto come figure forti e castratrici».
Feltrinelli gli domandò anche che tipo di donne gli piacesse.
«Sì, vero. Rispose con una faccia marpionesca che gli piacevano “fini, spirituali, dolci”. In realtà il suo genere era la Lollobrigida ».
Raccontava di sé, del suo privato?
«No, tutt’altro. La sua vita era solo la revolución. Parlava di economia e di marxismo ma non era un comunista teorico: al contrario appariva superficiale e velleitario ».
Impietoso appare il giudizio annotato da Feltrinelli sul suo diario: “impulsivo”, “retorico”, “ideologicamente confuso”, “incapace di un pensiero forte e organizzato”.
«Sì, così. E non sapeva nulla neppure di letteratura. Un ruolo istruttivo importante l’avrebbe svolto García Márquez, che gli fece conoscere la narrativa sudamericana. Il loro rapporto era stravagante, complice ma anche competitivo. Una volta ho scritto che insieme mi ricordavano Federico il Grande e Voltaire. In realtà Gabo non era Voltaire. E Fidel non era Federico il Grande».
Erano animati da gelosia reciproca?
«Sì, erano entrambi Re. E quando la fama ne accentuò smisuratamente l’ego, Gabo non reggeva la presenza di Fidel, che anche fisicamente lo sovrastava».
Hobsbawm ha scritto che «nessun capo nel secolo breve ebbe ascoltatori più entusiasti di questo uomo barbuto con la mimetica sgualcita che parlava in modo assolutamente confuso». Al di là delle riserve, anche voi ne subiste il fascino.
«Io ero stata a Cuba la prima volta nel 1953. Uno spettacolo deprimente: alberghi di lusso, bordelli e bambini in stracci, quasi morenti. Una povertà estrema, come quella di Calcutta. In pochi anni Castro era riuscito a trasformarla, puntando sull’educazione e sulla salute della popolazione. Nel 1964 trovai Cuba completamente cambiata».
Però poi prevalsero gli aspetti illiberali.
«A Castro non perdonerò mai l’assassinio di Orlando Ochoa, l’eroe dell’Angola. Ma non concordo con la definizione di regime».
Nella vicenda politica di Giangiacomo la figura di Castro ebbe un impatto fondamentale, anche deflagrante.
«Sì, nella prima fase – gli anni tra il 1964 e il 1965 – prevaleva l’interesse dell’editore all’inseguimento del grande libro. La seconda fase dal 1967 al ‘70 fu un’altra cosa, che attiene più alla militanza politica di Giangiacomo ».
Fu Castro a ispirargli l’idea di fare della Sardegna la “Cuba del Mediterraneo”?
«Non credo che Castro sapesse dov’era la Sardegna, ma non escludo che ne abbiano parlato. Però io non posso saperlo: allora mi ero allontanata politicamente da Giangiacomo».
E le memorie di Castro?
«Fidel divenne più esigente con se stesso. E non ebbe il tempo sufficiente per concludere l’intervista, cominciata con Giangiacomo e proseguita con Valerio Riva. Del libro, alla fine, non se ne fece niente».

l’Espresso 26.11.16
Fidel Castro: «Io sono la rivoluzione». Quell'ultima intervista concessa a Oliver Stone
Ripubblichiamo questo colloquio straordinario uscito il 2 ottobre del 2003 sull'Espresso, in cui il regista americano incontrava il leader cubano. Una confessione a tutto campo.  Sull'America, l'11 settembre, i diritti civili, l'embargo, il comunismo. E sul suo destino
di Oliver Stone
qui
http://espresso.repubblica.it/internazionale/2016/11/26/news/fidel-castro-io-sono-la-rivoluzione-l-ultima-intervista-a-oliver-stone-1.289487?ref=HRBZ-1

Repubblica 27.11.16
Se il corpo del Capo finisce in cenere
di Marco Belpoliti

LA DECISIONE di cremare il proprio corpo presa da Fidel segna un cambio di rotta nella gestione del corpo dei Capi.
Non è più tempo di mummie e sacre spoglie. L’adorazione del corpo del santo del Comunismo è cosa dell’altro secolo. Lenin, Stalin, Mao erano gli eredi di una tradizione da tempo finita.
La santità non è più visitabile nel mausoleo di pietra o cemento; si spande ovunque; è nel vento, in quel particolare vento che è il web, dove perdurano parole, immagini e voci. La leggenda del rivoluzionario è affidata non più al corpo imbalsamato, bensì all’eco mediatica. Quello che conta non è salvaguardare le spoglie mortali, come se Lui fosse ancora con noi, ma trasformare il corpo in qualcosa di più impalpabile e leggero.
Il Leader Maximo è ovunque: ovunque ci sia una ribellione, una rivolta, una rivoluzione. La sua anima è nell’aria, intoccabile e invisibile. Una tomba è un luogo troppo ultimativo per preservare una memoria attiva. Luogo di culto, non di azione.
Le ceneri mute aleggiano e non si depositano più. In questo Fidel ha segnato la propria diversità dai suoi avversari, i capitalisti del XX e XXI secolo, il cui sogno è invece quello di vivere per sempre, come ha raccontato DeLillo nel suo romanzo Zero K: ibernare il corpo in attesa della guarigione eterna. Un rivoluzionario sa che il proprio corpo continua nel corpo dei militanti, e sopravvive nella loro azione. La cenere è solo un resto, quello che conta è la fiamma della Rivoluzione che arderà, ha sostenuto Fidel, fin che ci sarà anche un solo oppresso nel mondo. Il suo ora è un corpo di corpi.