CULTURA
IL “PAPA NERO”:
Corriere La Lettura 27.11.16
Non possiamo rassegnarci a questo mondo di ingiustizie
Creatività: significa uscire dagli schemi: dev’essere questa l’ambizione di noi creature
Dobbiamo
avere il coraggio di pensare qualcosa che non è stato ancora
pensatoArturo Sosa Abascal è stato da poco eletto trentesimo successore
di Sant’Ignazio di Loyola a capo della Compagnia di Gesù, il
cosiddetto Papa nero, primo non europeo, primo latino-americano, primo
mentre regna un pontefice gesuita. Venezuelano, 68 anni, annuncia in
questa intervista con «la Lettura» le radici della nuova missione della
Chiesa. «Francesco mi ha detto: sii coraggioso»
intervista di Luigi Accattoli
qui
http://issuu.com/segnalazioni.box/docs/il_papa_nero?workerAddress=ec2-54-175-60-246.compute-1.amazonaws.com
Corriere La Lettura 27.11.16
Destra batte sinistra 2-0
I liberisti creano i poveri, i populisti ne cavalcano l’ira
E gli eredi della socialdemocrazia non toccano palla
di Michele Salvati
Semplificando
molto e astraendo dalla grande varietà di casi nazionali, le destre
sono due. C’è una destra liberale — in Italia diremmo liberista o
mercatista — che sostiene i processi economici di globalizzazione e la
concorrenza dei capitali dentro e fuori i confini di un singolo Paese.
Essa è ostile non tanto allo Stato, ma alla sua interferenza in questi
processi: che lo Stato intervenga attivamente per favorirli, per
smantellare «difese corporative», è anzi visto con approvazione. E c’è
una destra conservatrice, tradizionalista e comunitaria — la destra del
«Dio, Patria e Famiglia» — che trae i suoi consensi proprio dagli
sconvolgimenti sociali che un capitalismo senza freni produce:
disoccupazione e precarietà, declino di intere regioni, peggioramento
nella distribuzione del reddito.
Queste due destre ci sono sempre
state, sino dagli albori del capitalismo moderno e della democrazia
rappresentativa, a volte dando origine a un compromesso instabile nello
stesso partito, a volte divise in partiti diversi e contrapposti. La
divisione si manifesta quando le ragioni del mercato entrano in più
forte conflitto con le ragioni della società: è allora che chi presta
orecchio alle sofferenze sociali può trovare un facile consenso. Facile
perché ancorato ai valori tradizionali di comunità ristrette, minacciate
dal declino economico, da valori e atteggiamenti estranei ai loro modi
di vita, dall’immigrazione.
Ciò è appena avvenuto negli Stati Uniti
con la vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali, una
vittoria della destra populista contro la destra liberale. E sta
avvenendo in Europa con l’emergere o il rafforzarsi di partiti
populisti, prevalentemente a destra nello spettro politico. Alle origini
sta un fenomeno che nessuno ha studiato con maggiore profondità di Karl
Polanyi, in un libro scritto poco prima della fine della Seconda guerra
mondiale, La grande trasformazione : un libro che costituisce
l’integrazione necessaria, sul piano storico-sociale, delle critiche di
Keynes all’economia classica, ai razionalizzatori teorici del
fondamentalismo di mercato. Come quelle di Keynes, le analisi di Polanyi
avevano conosciuto un declino nella fase di maggior successo del
neoliberismo e della globalizzazione, fino alla grande recessione del
2007-2008. E, come Keynes, Polanyi viene riscoperto in momenti di crisi:
si veda il bel libro di Fred Block e Margaret Somers, The Power of
Market Fundamentalism , non ancora tradotto in un Paese che pur traduce
tutto. E allora si riscopre il fenomeno di cui dicevo, parte del grande
lascito teorico di Polanyi: il «doppio movimento».
Una società non
può stare insieme sulla base di soli rapporti di mercato: il tentativo
di assoggettare a quella logica tutti i rapporti sociali, come avviene
nelle fasi più dinamiche del capitalismo, è una utopia irrealizzabile e
produce danni. Può produrre «contromovimenti» che vanno in direzione
opposta, perché gli Stati, democratici o autoritari che siano, devono
intervenire in difesa della coesione sociale, minacciata da una troppo
radicale o troppo rapida alterazione delle condizioni di vita di gran
parte dei cittadini. E questi contromovimenti, in circostanze
internazionali avverse, possono sfociare in minacce serie alla
democrazia liberale: così avvenne dopo la Prima guerra mondiale in molti
Paesi, e solo l’interventismo keynesiano del secondo dopoguerra
consentì di riconciliare il mercato con la democrazia.
Circostanze
internazionali di forte conflitto inter-imperialistico concorsero a
produrre gli esiti estremi che si realizzarono dopo la Prima guerra
mondiale. Circostanze che, per fortuna, oggi non ricorrono. Ma il doppio
movimento è ben visibile anche oggi e produce tensioni di cui, per ora e
quasi ovunque, sembrano profittare soprattutto le destre. Anzi, sembra
quasi che tra di esse si sia instaurato un perverso gioco di squadra.
Prima la destra mercatista scatena gli spiriti animali del capitalismo
sregolato, che poi creano crisi economiche e sofferenze sociali. A
questo punto è la destra tradizionalista e nazionalista che prende la
palla e indirizza l’opposizione sociale secondo i suoi valori e i suoi
orientamenti: law and order , nativismo, xenofobia, opposizione ai
valori liberali in fatto di sessualità e famiglia, ritorno
all’isolamento comunitario.
Da questo gioco la sinistra sembra
esclusa, salvo pochi casi eccezionali, come Podemos in Spagna e Syriza
in Grecia. Anche i 5 Stelle in Italia? Staremo a vedere, perché sinora i
5 Stelle non si sono dichiarati, non hanno scelto il campo di gioco.
Prima o poi lo dovranno però fare, anche se non averlo fatto ha loro
consentito di raccogliere tutti gli scontenti. Ma l’aspirazione
all’onestà non è un programma che risponda alle grandi sfide dei nostri
tempi e non reggerebbe alla prova del governo.
Perché la sinistra non
prende palla? Il motivo di fondo mi sembra questo: avendo rinunciato al
grande programma utopico del suo lontano passato, avendo accettato un
orizzonte capitalistico, l’unico programma al quale può ricorrere è
quello socialdemocratico del passato recente, dei trent’anni gloriosi
del secondo dopoguerra. Ma il grande successo politico di quel programma
dipendeva anzitutto dal prevalere di condizioni di egemonia mondiale
indiscussa degli Stati Uniti e, a Washington, dal predominio di forze
politiche orientate a una liberalizzazione fortemente controllata: il
regime di Bretton Woods è stato questo. E dipendeva inoltre da
condizioni estremamente favorevoli alla crescita e all’occupazione nei
Paesi inseriti nell’orbita americana, tutti alle soglie della
rivoluzione industriale fordista-taylorista che già aveva avuto luogo
negli Usa. Non è più così e anche Paesi che seguissero un orientamento
socialdemocratico, nelle attuali condizioni internazionali di
globalizzazione neoliberale, andrebbero incontro a una crescita assai
più modesta e a un continuo sforzo per trasformare economia e
istituzioni in modo sempre più efficiente e competitivo. Non certo una
buona notizia per le regioni, le imprese e i lavoratori più deboli.
In
queste condizioni sarebbe quasi un miracolo se la sinistra potesse
prevalere da sola a livello nazionale. Contro gli orientamenti
internazionali del capitalismo, essa può fare assai poco. Di più
potrebbe fare in Europa, se l’Ue non fosse, sotto l’egemonia tedesca,
una cinghia di trasmissione del neoliberismo che prevale a livello
mondiale. E a livello nazionale la pressione dei movimenti populisti,
che fanno leva sulle sofferenze, la rabbia e la domanda di protezione
dei ceti più deboli, rimarrà molto forte: la loro offerta politica è
ingannevole, ma semplice e non imitabile dalla sinistra, se questa non
snatura del tutto i suoi valori. Un’alternativa possibile, non certo
entusiasmante per i conflitti programmatici che essa provoca, è
un’alleanza contro i populismi tra la sinistra socialdemocratica e le
forze più moderate e liberali della destra. Questa alleanza funziona da
tempo in Germania sotto la leadership della cancelliera Merkel e
funzionerà in Francia con l’appoggio della sinistra a un candidato
presidenziale della destra liberale. Col governo Rajoy la si tenta ora
in Spagna. Con rapporti di forza invertiti sarà forse inevitabile
adottarla domani in Italia.
Corriere La Lettura 27.11.16
Ma intanto cresce il riformismo liberale in America Latina
di Loris Zanatta
Chissà
se lo tsunami sollevato dall’elezione di Donald Trump porrà precoce
fine al nuovo ciclo politico che da qualche tempo fa capolino in America
Latina; se porterà indietro le lancette della Storia e all’immagine
rassicurante, che a fatica Obama ha ridato al suo Paese, sostituirà
quella di una potenza arrogante; se vestirà i panni dell’Orco delle
fiabe che tanto consenso porta alla retorica antiliberale dei populisti
latinoamericani: gli stessi che oggi sono in crisi, dati il mesto
declino kirchnerista in Argentina e il tracollo chavista in Venezuela. A
occhio, è improbabile che ciò avvenga: non è un caso se l’onda di
sinistra che attraversò l’America Latina un ventennio fa oggi rifluisce e
non sarà l’elezione di Trump a spazzarne via le cause. Su una cosa,
ammiratori e detrattori degli Stati Uniti vanno a braccetto:
sovrastimano la capacità statunitense di influenzare i cicli storici dei
vicini meridionali, perlopiù determinati da dinamiche interne.
Ciò
non toglie che l’avvento di Trump complichi la vita dei governi
latinoamericani, specie dei nuovi leader che popolano la scena politica.
Il suo disprezzo per i latinos è un assist per chi intende giocare la
sempreverde carta del nazionalismo antiamericano; idem l’annunciata
ripresa dell’anacronistica crociata contro il castrismo; la sua carica a
testa bassa contro il libero commercio suona a iattura per una regione
che su di esso ha scommesso tanto e tanto ne ha beneficiato. Se a ciò si
aggiungono il ciclo economico sfavorevole e la minaccia che aumenti il
costo del denaro, non c’è da stupirsi che l’America Latina guardi
sospettosa a Washington, pregando che tra il dire e il fare di Trump vi
sia davvero il mare. Non a caso, per quanto la pigrizia di tanti
osservatori ami ripetere che la regione abbia svoltato «a destra»,
nessun leader che di tale parte politica porta l’etichetta s’è mai
sognato di auspicarne l’elezione. Anzi: da Macri in Argentina a
Kuczynski in Perù, da Santos in Colombia a Peña Nieto in Messico, tutti
hanno fatto il tifo per Hillary Clinton, talvolta ben al di là della
prudenza. Come mai?
Per comprenderlo, e per comprendere perché
l’odierno clima politico latinoamericano sfugga alle tradizionali
collocazioni ideologiche lungo l’asse che dalla destra va alla sinistra,
vanno considerati due fattori. Il primo è che da trent’anni l’America
Latina è solcata da una sorta di guerra di religione tra paradigmi
ideologici in conflitto tra loro, eretti a dogmi identitari: il
neoliberalismo che imperò ai tempi del «Washington Consensus» e il
populismo antiliberale, egemonico negli ultimi vent’anni. Il secondo
fattore è più complesso e va spiegato: è che il populismo latino è
differente dal populismo anglosassone; e diverse sono le conseguenze che
produce. Come l’anglosassone, il populismo latino invoca un popolo puro
ansioso di redenzione al cospetto di un establishment che, afferma, lo
ha derubato della sovranità di cui è titolare. Fin qui non c’è
differenza tra i due populismi: si tratta di fenomeni redentivi, come
tali manichei e piuttosto rozzi nella loro semplificazione del mondo, ma
potenti ed efficaci nel mobilitare il «loro» popolo contro una élite. A
partire da tale base, però, i due populismi divergono, poiché diverso è
il passato che evocano.
Il populismo anglosassone può essere assai
radicale, come quello di Trump, ma nel suo passato non c’è un’utopia
antiliberale, non c’è il sogno di ricostituire un’identità primigenia
contraria alla democrazia liberale. Semmai il contrario: poiché nel
passato degli Stati Uniti democrazia e libertà individuale sono sempre
stati connessi, il populismo statunitense suole invocare una specie di
iperliberalismo, il ritorno alle fonti di una democrazia che giudica
distorta dal potere delle élite e minacciata dall’invadenza statale. Il
populismo latino è ben diverso: evoca un passato mitico in cui il popolo
era una comunità omogenea. Inconsapevole di ispirarsi così alle radici
cattoliche della sua civiltà, il populismo latino addita nel liberalismo
e nei suoi attributi filosofici e politici — divisione dei poteri,
diritti individuali, pluripartitismo, mercato — la minaccia che grava
sull’unità organica del popolo. Perciò è antiliberale fino al midollo e,
quando si impossessa del potere, ambisce a rifondare l’ordine politico
rinnegando la democrazia liberale.
Perché sono importanti tali
fattori? Poiché è in reazione a essi che va inquadrata la comparsa, in
vari Paesi latinoamericani, di una generazione politica che rifugge gli
eccessi ideologici, le rigidità dei modelli economici prestabiliti, gli
appelli enfatici al «popolo» e alla sua identità, la semplificazione dei
problemi, le scorciatoie sia clientelari sia produttiviste, sia della
spesa pubblica allegra sia del mercato fine a se stesso. Non è nemmeno
una generazione, in realtà, dato che nulla lega il giovane sindaco di
San Paolo all’anziano presidente peruviano, al milionario che guida
l’Argentina, ai volti nuovi emersi nelle elezioni locali cilene,
messicane, colombiane, nell’opposizione venezuelana. È semmai un
fenomeno trasversale, post-ideologico, fondato su taluni assunti di base
e alcune diagnosi condivise. L’assunto è che il dogmatismo ideologico
non paga ed anzi lascia sul terreno macerie istituzionali. La diagnosi è
che proprio nella qualità delle istituzioni risiede la chiave dello
sviluppo economico e dell’inclusione sociale. Non c’è dubbio su ciò che
urge: più innovazione e istruzione, maggiore produttività del lavoro,
mercato più trasparente, lotta ad evasione fiscale e corruzione, riforma
dell’amministrazione pubblica, tutela della sicurezza dei cittadini e
garanzie giuridiche per la proprietà privata. Sono obiettivi tipicamente
riformisti, che non si prestano a grandi narrazioni ideologiche, a
epiche crociate che scaldano i cuori, ma coprono di fumo la prosaica
realtà. E tutto nel rispetto della democrazia liberale, il tallone
d’Achille dell’America Latina, quella su cui s’è spesso sorvolato in
nome di valori superiori: la Giustizia, il Popolo, lo Sviluppo e così
via. Pragmatismo e cultura istituzionale, qualità di cui la storia
politica latinoamericana è stata carente, cercano oggi di farsi spazio.
È
presto per dire se tale clima riformista sia più di un fuoco fatuo, se
si spegnerà in fretta o darà vita a nuovi emuli nella regione. È un
fenomeno ancora acerbo, indefinito, obbligato a muoversi tra poderosi
ostacoli. La cultura politica cui fa appello è minoritaria in America
Latina, talvolta ancora elitista. Reazioni corporative e rigurgiti
populisti sono già all’ordine del giorno. Non solo: i tempi della
politica, quelli necessari a costruire il consenso per le riforme, sono
spesso troppo lunghi per le emergenze sociali impellenti. La sfida è
enorme e la possibilità di farvi fronte varia radicalmente da Paese a
Paese. Ma, più delle tradizionali infatuazioni ideologiche, è una via
che l’America Latina dovrà percorrere per fare fronte ai suoi mali
cronici.
Corriere La Lettura 27.11.16
Arendt, quanti equivoci su Marx
di Donatella Di Cesare
HANNAH
ARENDT Marx e la tradizione del pensiero politico occidentale A cura di
Simona Forti Con un saggio critico di Adriana Cavarero RAFFAELLO
CORTINA Pagine 162, e 13,50
Bibliografia
Le Edizioni di Comunità
pubblicarono nel 1965 Sulla rivoluzione di Hannah Arendt, riproposto nel
2006 da Einaudi (traduzione di Maria Magrini). Tra passato e futuro di
Arendt, uscito nel 1970 da Vallecchi (traduzione di Marcella Bianchi di
Lavagna Malagodi e Tania Gargiulo), venne riedito da Garzanti nel 1991.
È uscito da poco in Francia Arendt et Heidegger di Emmanuel Faye (Albin
Michel, pp. 560, e 29). Sulla «banalità del male»: Deborah Lipstadt Il
processo Eichmann (traduzione di Maria Lorenza Chiesara, Einaudi,
2014); Bettina Stangneth, Eichmann vor Jerusalem (Arche, 2011;
traduzione inglese: Eichmann before Jerusalem, Alfred A. Knopf, 2014
Le
polemiche che Hannah Arendt ha suscitato in vita, e alle quali aveva
quasi finito per abituarsi, non si sono mai interrotte e, anzi, con la
pubblicazione degli scritti postumi, sono andate persino acuendosi.
Contribuirà a riaccendere il dibattito anche il volume Marx e la
tradizione del pensiero politico occidentale appena uscito per Raffaello
Cortina. Si tratta di due testi: uno più breve, di carattere
introduttivo, uno più lungo e sistematico, in cui Arendt punta a far
emergere i nessi che legano Karl Marx a tutta la riflessione politica
precedente, da Platone a Hegel. Furono redatti entrambi in occasione
delle conferenze tenute all’Università di Princeton nell’autunno del
1953.
Esistono elementi totalitari nel marxismo? E in che modo
potrebbe esserne responsabile Marx? Forse Arendt aveva intenzione di
scrivere un volume su questo tema — avverte Simona Forti che ha curato
il volume. È ovvio, d’altronde, attendersi una risposta dalla filosofa
che ha sostenuto la tesi dei due totalitarismi, sottolineando
l’affinità tra comunismo sovietico e nazismo. Ripresa da Martin
Heidegger, e rilanciata nell’America del maccartismo, questa tesi,
rispondente allo spirito della «guerra fredda», non regge né sotto il
profilo storico né sotto quello filosofico ed è stata perciò oggetto
di numerosissime critiche nella filosofia degli ultimi decenni — da
Günther Anders a Jacques Derrida. Gli echi polemici non si sono mai
spenti. Se ne trova traccia anche in volumi pubblicati di recente, come
quello di Tama Weisman Hannah Arendt and Karl Marx (Lexington Books,
2013).
Non si può imputare a Marx la deriva dello stalinismo —
sostiene Arendt. «Chiunque tocchi Marx, tocca la tradizione del pensiero
occidentale». E questo perché la linea che unisce Aristotele a Marx è
più diretta di quella che unisce invece Marx a Stalin. Ma la posizione
di Arendt appare più ambigua e complessa, come emerge nel confronto
tra Aristotele e Marx su cui riflette Adriana Cavarero nella
postfazione. In un celebre passo Aristotele definisce l’uomo un «animale
politico che possiede il lógos», che ha la parola, e perciò può
partecipare alla vita politica della pólis, della città. Secondo Marx
invece l’uomo è l’animale che lavora e anzi, su questo animal laborans
è incentrata la sua opera.
Ecco, dunque, per Arendt, la grandezza,
ma anche il limite di Marx: aver visto nel lavoro ciò che distingue gli
umani dagli animali. Grandezza perché Marx, sulla scia di Hegel,
comprende che, nel mondo che va inaugurandosi con il capitalismo, il
lavoro diventa l’asse centrale della vita e tutti sono destinati a
diventare lavoratori. Il limite sarebbe, però, nel modo di intendere il
lavoro che, se da un canto viene glorificato — e l’erede di questa
glorificazione è l’Unione Sovietica —, dall’altro viene visto come una
faticosa costrizione. Quindi per Marx «non la libertà, bensì la
necessità è ciò che rende umano l’uomo». E di liberazione si potrà
parlare solo quando l’umanità sarà giunta alla fase finale della
storia, solo quando sarà stata prodotta, con lacrime e sangue, la
società senza classi, il regno della libertà. Non si tratta, per
Arendt, solo della contraddizione tra la necessità ineludibile e la
libertà sempre rinviata. Marx universalizza il lavoro, intravvede e
profetizza una «società dei lavoratori», dove le differenze vengono
abolite, ma dove sarebbe appunto il lavoro ad accomunare, non la parola.
Proprio perché concepisce una sfera politica dove viene meno il ruolo
decisivo del lógos, aprirebbe la strada al totalitarismo.
In questa
interpretazione Marx appare un Giano bifronte che per un verso è
rivolto alla tradizione della filosofia politica occidentale, per
l’altro guarda già sinistramente al dominio totalitario. Comunque la si
pensi, per nulla convincente è l’immagine di un Marx aristotelico
tardivo che situa in un futuro indefinito la vita della pólis greca.
Piuttosto è Arendt che riprende una concezione metafisica dell’essere
umano inteso come «animale razionale», corpo e anima, che Heidegger
aveva già criticato nella sua Lettera sull’«umanismo». Perché
l’umanità dell’uomo non può essere ridotta a una animalità, seppure
contraddistinta dalla parola. L’essere umano va ripensato. E Heidegger
lo fa anche attraverso Marx, in particolare il giovane Marx dei
Manoscritti economico-filosofici del 1844.
Poco convincente è anche
la tesi, che Arendt ha sostenuto nel saggio La tradizione e l’età
moderna (contenuto nel volume Tra passato e futuro, edito da Garzanti),
secondo cui Marx pensa la politica solo come dominio e glorifica la
violenza. È probabile che il dibattito intorno ad Arendt, che ha già
toccato questi temi, si concentrerà ancor più, nel prossimo anno, sul
nodo filosofico-politico della rivoluzione. Com’è noto Arendt ha
scritto un libro che è ormai un classico Sulla rivoluzione (pubblicato
da Einaudi). Il suo giudizio, però, sul fallimento della rivoluzione
francese e di quella russa, e sul successo di quella americana, è
sempre più nel mirino. La discussione sul periodo del terrore e sulla
«dittatura» di Robespierre, in cui Arendt vede a torto il preludio di
quella bolscevica, è stata avviata in Francia dal libro di Sophie
Wahnich La liberté ou la mort, del 2003, a cui hanno fatto seguito
molti studi critici.
Arendt, insomma, non smette di far parlare
di sé. Aumentano a ritmo serrato le pubblicazioni che fanno ormai del
suo pensiero un punto di riferimento imprescindibile nella filosofia
continentale. Le direzioni sono soprattutto due. La riflessione sui
fenomeni globali, a partire da quelli dei profughi, della cittadinanza,
dei diritti umani, prende le mosse dalle sue idee. Dall’altra parte va
assumendo contorni sempre più nitidi il profilo di una filosofa che si
sottrae a ogni etichetta e a ogni classificazione e che è stata una
apolide del pensiero. Riesce perciò difficile seguire Emmanuel Faye
che, nel suo ultimo libro Arendt et Heidegger, scritto dopo i Quaderni
neri, intenta un nuovo processo, questa volta non contro Heidegger,
bensì contro la sua allieva, rea di non aver preso abbastanza le
distanze dal maestro e di trovarsi perciò in una insanabile
contraddizione rispetto alla posizione assunta contro Adolf Eichmann.
Proprio
la «banalità del male» continua a essere uno dei temi caldi. Non solo
perché il suo ritratto di Eichmann appare sempre più datato. Oggi
sembra davvero discutibile ridurre le motivazioni ideologiche e
politiche come fa Arendt: «L’ideologia non ha avuto, credo, una grande
importanza. Questo mi sembra l’aspetto decisivo». Nel suo libro Eichmann
vor Jerusalem, pubblicato prima in Germania, poi negli Stati Uniti, la
storica Bettina Stangneth ha aspramente criticato questa visione.
Risponde all’esigenza di liberare quella vicenda dall’ombra di Arendt il
saggio Il processo Eichmann di Deborah Lipstadt (Einaudi). Ma le
questioni aperte sono in particolare due. Se Eichmann era solo un
burocrate, la rotella di un ingranaggio, come avrebbe potuto essere
condannato? Arendt parla della «scandalosa stupidità» di Eichmann,
della sua «assenza di pensiero», della incapacità di «mettersi nei
panni degli altri». Il rischio, purtroppo, è stato ed è quello di aver
aperto le porte a una parola «banalità», spesso usata a sproposito,
che ha finito non di rado per banalizzare la questione del male.
Corriere La Lettura 27.11.16
Sogni giovanili /1
Ero attratto dall’ignoto. Compreso il matrimonio
di Edoardo Boncinelli
I
miei sogni si sono sempre tutti realizzati, fuori che quello di fare
soldi, che però non era un mio sogno. E si sono realizzati perché non
erano sogni. A 18 anni ne avevo due: sposarmi e fare lo scienziato, due
cose un po’ legate fra di loro, perché leggevo che gli scienziati si
sposavano presto. Mettere su famiglia era un mio pallino fisso; dicevo
che un uomo non è un uomo se non ha una moglie e dei figli, ma non mi
sentivo tanto sicuro delle mie forze, e ne ho dubitato fino all’ultimo.
Tuttora mi congratulo con me stesso: ho trovato qualcuno che mi ha preso
in considerazione. Dicevo anche che dovevo studiare per consegnare alla
mia futura sposa un uomo ricco interiormente e valido. Di poter essere
un buon padre, invece, non ho mai dubitato. Volevo poi essere uno
scienziato, un uomo che scopre qualcosa di importante, nell’universo o
dentro l’atomo. In realtà ho fatto il biologo, un’eventualità alla quale
non ho mai pensato prima dei 27 anni. Ma l’ardore era lo stesso:
rispondere a quesiti che mi incuriosiscono, ieri come oggi. Rubare
all’ignoto e all’ineffabile qualche parola chiave per descrivere il
mondo — il mondo che mi include e mi esclude –- giocandoci.
Corriere La Lettura 27.11.16
Sogni giovanili /2
Ingegneria, che passione Ma poi mi rapì Spinoza
di Giulio Giorello
Forse
era perché, nato a Milano al finire della guerra, avevo visto rinascere
la città dalle rovine delle bombe, con fatica ma con entusiasmo. O
forse era colpa dei primi giochi che i miei genitori mi avevano
regalato: scatole di costruzioni in legno con cui producevo curiose
mescolanze di edifici assiri, greci e moderni; e poi confezioni sempre
più sofisticate di «Meccano» per far nascere macchinari assai complicati
(e forse inutili) che poi dovevo smontare, vite per vite, perché
occupavano troppo spazio casalingo. Insomma, volevo diventare una via di
mezzo tra l’architetto e l’ingegnere. Qualche notte sognavo di
riprogettare perfino un’intera città, con grattacieli che bucavano le
nubi e giardini ricchi di fiori e piante affascinanti. Al mattino mi
risvegliavo troppo spesso con un senso di delusione: c’era sempre un
qualche motivo per cui il progetto non aveva ben funzionato. Forse,
prima di cambiare il mondo, si trattava di capirlo! La lettura del testo
di un irregolare ebreo olandese, l’ Etica di Baruch Spinoza, finì col
farmi preferire l’architettura delle idee a quella delle case. Così si
spense tranquillamente il mio intenso «furore» architettonico e cominciò
un’altra storia.
Corriere La Lettura 27.11.16
L’eresia di Michelangelo
La Tomba di Giulio II è stata da poco ripulita. Antonio Forcellino, restauratore, indagatore
dei misteri del Buonarroti, aiuta a fare il punto sugli indizi «luterani» dell’opera
di Emanuele Trevi
Roma,
San Pietro in Vincoli. Non aveva tutti i torti quel tale che sosteneva
che è la polvere la vera signora di questo mondo. Non tanto e non solo
la polvere metaforica dei poeti e dei predicatori, ma quella che incombe
e finisce per posarsi su ogni cosa, senza fare eccezioni per un
panneggio o un volto scolpiti da Michelangelo. Fino al giorno in cui
questi impalpabili ma implacabili «depositi incoerenti», come li chiama
la scienza, combinati con l’umidità di certe stagioni dell’anno, rendono
letteralmente invisibile anche il Mosè , con tutto il suo severo
cipiglio patriarcale.
Erano bastati 15 anni dall’ultimo ed epocale
restauro per occultare, con una specie di velo penitenziale, la bellezza
strabiliante non solo del Mosè , ma delle altre statue del monumento
funebre di Giulio II. Antonio Forcellino, in camice bianco, emerge dal
ponteggio che negli ultimi mesi ha circondato, senza occultarlo
completamente alla vista, questo capolavoro dalla storia lunghissima,
accidentata e piena di indizi degni della fantasia di un romanziere
dell’Ottocento. Il fatto è che quando la storia di un’opera è lunga come
questa, e l’artista che la porta a compimento ha il carattere di
Michelangelo, significati e fraintendimenti, ipotesi e scoperte si
sommano e si accavallano riservando sorprese proprio là dove l’abitudine
suggeriva che tutto ormai fosse stato scoperto, incasellato,
catalogato.
Basta considerare nella sua estensione l’arco di tempo
che separa il primo progetto, commissionato nel 1505 a Michelangelo
dallo stesso Giulio II, al secolo Giuliano della Rovere, dal
completamento dell’opera nel 1545. È naturale che in quarant’anni il
progetto iniziale abbia subito tanti cambiamenti da renderlo
irriconoscibile. All’inizio il monumento era addirittura destinato a
un’altra chiesa, in seguito alla parete opposta a quella dove si trova.
Ma il risultato finale non è il semplice frutto di casualità e
compromessi, come la maggioranza degli storici dell’arte affermava in
passato. Soprattutto a ridosso della sua conclusione, tra il 1542
(quando decide all’improvviso di escluderne i Prigioni ) e il 1545, il
settantenne Michelangelo conferisce all’opera non solo la sua
strabiliante armonia di forme in dialogo con le fonti di luce
circostante, ma la carica di significati decisivi per la storia
religiosa del tempo, facendone un vero crocevia di preoccupazioni
spirituali e tensioni sempre più gravi tra l’ortodossia cattolica e le
nuove idee luterane che prendono piede e si sviluppano anche all’ombra
del Vaticano, fra Viterbo e alcuni cenacoli romani come la chiesa di San
Silvestro al Quirinale, dove per qualche tempo si ascoltano prediche
tutt’altro che ortodosse.
Le idee pericolose circolano ovunque, e dai
torchi degli stampatori, in tutta Europa, vengono fuori libri che
testimoniano di un’inaudita libertà di coscienza. La questione centrale
che divide gli animi e riempie i libri proibiti e i documenti ufficiali
degli inquisitori riguarda il destino del cristiano, di ogni singolo
cristiano. Qual è il mezzo privilegiato per raggiungere la salvezza o,
per usare un termine ancora più diffuso ai tempi, la propria
giustificazione ? Sono le opere buone che lo salvano, conseguenza della
sua fede, oppure l’intero messaggio evangelico culmina nell’invito a
confidare solo nella fede in Cristo, il grande riscattatore? Nel 1545,
c’era ancora chi credeva che lo scisma più grave mai vissuto dalla
Chiesa potesse ricomporsi. Una costellazione di spiriti legati in varia
maniera a Michelangelo. Ma i teologi e gli alti prelati, come Reginald
Pole e Bernardino Ochino, presto costretti alla fuga da Roma, fanno da
corona alla figura più affascinante del gruppo: Vittoria Colonna. Questa
aristocratica dall’animo ardente e coraggioso, grande scrittrice in
versi e in prosa e autentico temperamento mistico, eserciterà su
Michelangelo un’influenza senza paragoni in tutta la lunga vita del
maestro. E di conseguenza, anche sull’ultima e definitiva sistemazione
del monumento funebre a Giulio II.
Il quadro storico è corrusco e
grandioso, ma il filo che lega Michelangelo all’eresia è fatto di indizi
anche minimi, come quelli che Antonio Forcellino insegue da molti anni,
in un costante andirivieni fra i cantieri di restauro e gli archivi.
Anche più delle testimonianze esplicite, possono contare le omissioni, o
le calcolate bugie, nascoste tra le pieghe di una lettera. Il punto di
vista rivelatore, osserva Forcellino, è molto spesso quello ostile, come
lo si può desumere dai verbali dell’Inquisizione. Lungi dal profanare
un’idea astratta di bellezza, l’investigazione minuziosa conferisce a
quell’idea la sua vera sostanza. È come se ogni indagine mirasse sempre a
quel punto difficilissimo del visibile in cui la forma si incontra col
suo significato. Ma si tratta di un bersaglio mobile, che non coincide
mai con tutto ciò che già si sapeva.
E guardando il Mosè appena
restituito al suo originario splendore è difficile non pensare che
l’autentica venerazione che Sigmund Freud nutriva per quest’opera
sollecitò non solo il suo senso estetico, ma le sue proverbiali capacità
di analisi e deduzione. E il saggio che dedicò al Mosè nel 1913,
pubblicato in forma anonima per modestia, è ancora ricchissimo di
profonde intuizioni. «Perché Freud — osserva maliziosamente Forcellino —
non è uno specialista, dunque si accosta senza schemi preconcetti al
capolavoro, ci vede quello che sa e vuole vederci». E questo sguardo
libero approda subito a una grande verità: tutto è innaturale nella posa
del patriarca, a partire dallo strano modo in cui sostiene con il
braccio destro le Tavole della Legge. E chissà come avrebbe interpretato
Freud, se ne fosse stato a conoscenza, quella torsione della testa di
Mosè documentata da una precisa testimonianza. È un intervento ai limiti
del prodigioso su una statua già scolpita: un azzardo che forse solo
Michelangelo si poteva permettere, un capolavoro nascosto nel
capolavoro.
Invece di fissare un punto davanti a sé, dopo questa
capitale modifica, lo sguardo di Mosè, lievemente strabico, punta verso
l’alto, alla ricerca della luce. Molti possono essere i motivi di questo
ripensamento, ma una cosa è certa: guardando di fronte, gli occhi di
Mosè si sarebbero fermati in eterno sull’altare, e soprattutto sulle
catene di san Pietro, la preziosa reliquia che dà il nome («vincoli»)
alla chiesa stessa. Ma non è forse il culto e il mercato delle reliquie
uno dei capisaldi della rivolta religiosa che infiamma l’Europa negli
anni Quaranta del Cinquecento? Effettivamente, la nuova posa di Mosè
sembra esprimere un rifiuto sdegnoso delle superstizioni, assieme a un
ricerca di contatto individuale con la luce del divino.
Lunghissima e
accidentata, come abbiamo detto, fu la gestazione di questo monumento
funebre, forse il più bello e audace mai prodotto nella civiltà
cristiana. Un tomba inaugurata più di trent’anni dopo la morte del suo
destinatario. Ma anche un delicato congegno destinato a esprimere
significati così pericolosi che ai contemporanei che avevano orecchie
per intendere non restò che far finta di non capire. Un po’ come accadde
con l’altra grande sfida all’ortodossia cattolica della pittura
rinascimentale, gli affreschi (oggi perduti) di Pontormo nell’abside di
San Lorenzo a Firenze.
Lo stesso Michelangelo, sempre più isolato
negli ultimi vent’anni della sua lunghissima vita, suggerì qualche
sapiente depistaggio. Il fatto è che al posto dei Prigioni , nelle
nicchie ai fianchi del Mosè , decise di sistemare due splendide figure
femminili, incarnazioni della Vita Contemplativa, o della Fede, e della
Vita Attiva, o della Carità. Un’altra pericolosissima allusione
all’infuriare del dibattito sulla salvezza, sul ruolo della fede e delle
opere nell’avventura terrena degli uomini. Ebbene, da anni i sospetti
di Forcellino si erano concentrati sulla seconda di queste statue, e
soprattutto sul misterioso oggetto che tiene ben visibile in mano,
avvolto in un’abbondante ciocca di capelli che le scendono dalla spalla
destra. Ma cosa rappresenta questo oggetto circolare? Stranamente, data
la forma dell’oggetto, il Vasari, che ha fatto testo per secoli, ci
vedeva uno specchio. Ma a tutto assomiglia tranne che a uno specchio
questo recipiente ornato da una maschera grottesca. Non sempre chi pone
la domanda, in queste ricerche così ricche di insidie e complicazioni, è
colui che fa in tempo a trovare una risposta.
Si tratta forse di
qualcosa di molto simile a gettare una rete nel mare, confidando che
qualcosa di prezioso ci rimanga impigliato. Ed è proprio quello che è
successo in questi giorni grazie a una sorprendente scoperta della
sorella di Antonio, Maria Forcellino, già autrice di scrupolose ricerche
sui legami tra Michelangelo, Vittoria Colonna e la cultura
cripto-protestante, per definirla in qualche modo, diffusa a Roma nei
primi anni Quaranta del Cinquecento.
Ebbene, fatto forse più unico
che raro nella produzione di Michelangelo, l’elegante e slanciata figura
muliebre di Michelangelo è una copia, non da un’altra statua, ma da un
affresco rappresentante Maria Maddalena, parte della decorazione di una
cappella eseguita da Polidoro da Caravaggio e Maturino da Firenze. Il
confronto tra il modello affrescato e la statua scolpita da Michelangelo
potrà fornire lumi precisi sull’oggetto misterioso avvolto tra le spire
dei capelli. Ma ancora più impressionante è il fatto che l’affresco che
ispirò Michelangelo si trova proprio in quella chiesa di San Silvestro
al Quirinale in cui l’Inquisizione non tardò a scoprire un vero e
proprio covo di eretici. Comunque sarà interpretata dagli storici,
questa scoperta è una traccia di cui si dovrà tenere conto in futuro.
Anche perché, c’è da scommetterci: di questa storia in cui la bellezza
suprema è il veicolo di profondissime preoccupazioni spirituali, non
conosciamo ancora tutti i dettagli.
Repubblica Robinson 27.11.16
Maurizio Pollini
“Quando suono cerco l’irripetibile”
intervista di Antonio Gnoli
Il
mistero di Maurizio Pollini è il mistero della musica. Entrambi si
esprimono come se fosse l’invisibile a dover essere portato alla luce.
L’uomo è proverbialmente schivo. Penso alla sua ritrosia e al contempo
alla sua leggendaria tenacia nello studiare un’opera in una
interminabile sequenza di passaggi mentali e fisici. Mi chiedo se questa
medesima tenacia non possa essere applicata al maestro per studiarne,
che so, il timbro della voce, il profilo del volto, l’agile forza delle
mani, per poi progressivamente scendere più in profondità in quella zona
impercettibile che chiamiamo inconscio o anima, fonte di gioia e
dolore. Qual è il patimento di quest’uomo che per tutta la vita — come
in un romanzo di Bernhard — ha approfondito un solo ricchissimo gesto,
ricavandone una vastità di echi impressionante? Il signore che mi è di
fronte, in un tardo pomeriggio milanese, si mostra nella gentilezza del
disincanto, quasi a indicare che è qui davanti a me, ma che potrebbe
benissimo essere altrove. Da poco ho ascoltato l’opera che la Deutsche
Grammophon ha raccolto del suo intero lavoro. Una magnifica impresa che
stupisce non già per vastità quanto per intensità con cui esegue il suo
repertorio.
Maestro è contento?
«Di che cosa?».
Alludo alla raccolta discografica della sua opera.
«Un
bell’omaggio che mi dà l’idea di un fiume che scorre. Anche se l’opera
di una vita non è mai uniforme. Ci sono svolte. E poi ogni esecuzione è
diversa. Questo, se vuole, è il limite del disco: la fissità.
D’altronde, il grande pregio del disco è di raccogliere le testimonianze
di grandi interpreti che non ci sono più».
Cosa la interessa della musica?
«Tutto.
E il tutto si racchiude nella sua ineffabilità. Quando suono so di
essere alla ricerca di qualcosa che è irripetibile. È il lato
affascinante della mia vita di musicista. La sola cosa che deve
apparire».
Non ama parlare di sé.
« Ciascuno deve potersi esprimere con gli strumenti che ritiene più congeniali».
Che valore dà alla parola?
« Lo stesso valore che darei alla musica, quando entrambe sono necessarie».
C’è un’arte del discorso.
«Non
credo che mi appartenga, del resto cosa dovrei raccontare? La musica
nella sua essenza è irraccontabile. Ogni grande gesto artistico si può
intuire, percepire, ma al dunque rimane inaccessibile».
Che cosa resta?
«
Resta un’emozione e quella pellicola sottilissima che chiamiamo la
successione degli eventi. Che talvolta vediamo e svolgiamo. Tentiamo di
dare un ordine logico o una giustificazione alle cose che accadono, ma
tutto questo coinvolge solo in parte la nostra zona interiore».
Non crede che la sfida sia quella di raccontarsi nel profondo, così come nel profondo si vuole giungere alla musica?
« Umanamente è una bella pretesa. Se dovessi raccontarmi nel profondo, a parte che non ci riuscirei, mi sentirei ridicolo».
Perché?
«A
chi dovrebbe interessare il Pollini uomo? Non sono uno spartito che
deve essere letto e studiato. La vita e la musica seguono strategie
diverse ed è raro che si incontrino».
Raro ma non impossibile.
«Quando accade è come se un suono segreto dischiuda e illumini l’esistenza».
Quando ha cominciato a suonare il pianoforte?
«
I miei mi hanno messo alla tastiera a cinque anni. Amavano la musica.
Mia madre suonava il piano, mio padre il violino, mio zio, lo scultore
Fausto Melotti, suonava anche lui il pianoforte. Credo di avere
assimilato tutto questo inconsciamente».
Suo padre, Gino Pollini, è stato un importante architetto.
« Partecipò al movimento del razionalismo, anzi ne fu uno degli autorevoli interpreti».
Realizzò il complesso delle Officine Olivetti a Ivrea.
«Fu
un grande progetto. Un giorno mi portò a vederlo. Mi sentii orgoglioso
per lui. Orgoglioso di quella mano che stringeva la mia».
Anche la musica ha le sue architetture.
«Ma sono più segrete. Direi metafore di una costruzione».
Segreti e silenzi, questo è Pollini?
«Discrezione e silenzio, correggerei».
La musica l’ha aiutata in questo?
«Non la ridurrei ai tratti antropologici, ma certo il silenzio è una componente musicale. E anche il segreto lo è».
Segreto come impenetrabilità di un’opera?
« Preferisco la parola inesauribilità. Solo ciò che è inesauribile è grande e vitale».
Quando andò al primo concerto?
«
Avevo credo dieci anni, mi nascosi in un palco della Scala. I bambini
non erano ammessi. Toscanini dirigeva Wagner. Non ero maturo e non
compresi pienamente, ma sentivo che quel mondo poteva essere anche il
mio».
La sua prima esecuzione?
«A nove anni in casa. Poi il debutto nel 1958 alla Scala, avevo sedici anni ed ero molto emozionato».
Due anni dopo affronta il prestigioso Concorso pianistico a Varsavia.
« Fu una specie di torneo con un’ottantina di concorrenti. Durò tre settimane. Fu una sorpresa vincerlo».
Ma non per coloro che l’ascoltarono. Restò celebre l’elogio che le riservò Rubinstein.
«Si è molto esagerato e travisato sulla frase che pronunciò».
Cosa disse esattamente?
«Che
tecnicamente suonavo meglio dei componenti della giuria. Credo che
volesse prenderli in giro più che farmi un elogio. Comunque apprezzai».
Non le disse altro?
«Mi
parlò dell’importanza pianistica che ha il peso del dito medio. Per
farmi capire lo premette sulla mia spalla e aggiunse: io suono sempre
con questa forza ed è il motivo per cui non mi stanco mai. Si trattava
di un consiglio tecnico».
C’è un’immagine che la ritrae mentre scende dall’aereo di ritorno da Varsavia avvolto da un bavero di pelliccia.
«Faceva
freddo a Varsavia. All’aeroporto di Milano c’erano ad accogliermi
autorità e giornalisti. Improvvisamente divenni un personaggio pubblico.
Cominciarono a invitarmi da tutto il mondo».
Come reagì?
« Non
ero assolutamente preparato all’impatto. Decisi perciò di cancellare gli
impegni e di ritirarmi dalle scene per un paio di anni. Volevo
dedicarmi allo studio. Ricordo che in quel periodo andai a perfezionarmi
con Arturo Benedetti Michelangeli. I suoi consigli tecnici furono
importanti».
Che uomo conobbe?
«Difficile dire. Parlava pochissimo. Le sue parole erano impalpabili come il suo suono».
La definiscono un pianista chopiniano. Si riconosce?
«
So che è un grande elogio, visto cosa ha rappresentato Chopin, ma lo
trovo limitativo. In fondo se osserva la mia carriera pianistica vedrà
molte altre cose».
Questo cofanetto della Deutsche Grammophon ne è la
riprova. Molto Beethoven, qualcosa di Bach, Mozart, naturalmente
Chopin, Schumann, Brahms. C’è anche l’incursione nella musica moderna:
Schönberg, Stravinskij, Webern ma anche Manzoni e Nono.
« C’è anche Debussy le cui straordinarie novità aprono la via ai compositori moderni».
Perché il moderno è vissuto come una frattura?
«Rappresenta
l’uscita dalla tonalità, il che ha creato qualche problema
nell’ascolto. Il pubblico non era abituato, e forse non lo è tutt’ora,
alla dissonanza. È il mio cruccio».
Può apparire strano oggi, vista
la riservatezza, il suo passato impegno politico. Come giudica o ricorda
quel periodo immediatamente dopo il Sessantotto?
«Non fu un impegno
politico, fu un impegno civile. L’indignazione nasceva per quello che
stava accadendo a livello internazionale con la guerra del Vietnam, ma
anche per le posizioni repressive messe in campo dall’Unione Sovietica».
Con Luigi Nono e Claudio Abbado deste vita a una stagione di impegno. Irripetibile?
«Direi
di sì. Paolo Grassi ebbe allora l’idea di una serie di concerti alla
Scala per studenti e lavoratori. Andammo avanti per alcuni anni con una
qualità altissima. Non hanno avuto nessun seguito. Di qui la delusione».
Ha un significato per lei la politica?
«Dovrebbe tendere al bene comune. Accade il contrario».
Quando non suona che cosa fa?
«Passeggio, sto con mia moglie e mio figlio. Leggo».
Che cosa legge?
«
Mi oriento sui classici. Mi piacciono le grandi architetture
letterarie: Balzac, Shakespeare, Proust. Quando leggo sono metodico.
Qualche anno fa, un po’ per scommessa, con mio figlio abbiamo cominciato
a leggere i classici in greco. È stato bello, come tornare sui banchi
di scuola».
Le manca la sua infanzia?
« No, non riesco a pensarla
pienamente. È stata. Punto. Del resto non ricordo mai molto bene il mio
passato perché è un esercizio che non faccio quasi mai. Ho soltanto un
sentore vago di ciò che ero».
Come guarda al futuro?
«Con una
certa apprensione. Sento dire che non abbiamo più futuro. Non è vero. Ci
sono forse meno persone capaci di interpretarlo».
La musica può aiutare?
«Non
lo so. La grande musica crea rotture e continuità nel tempo. Gli è
sopra e gli è dentro. Diceva Abbado che questo ci rendeva dei
privilegiati. A lui mi legava un’amicizia che precedeva il nostro
rapporto professionale».
A quando risale?
«Avevo dodici anni e lui
nove più di me. Un ragazzo straordinario con cui era bellissimo
conversare. L’intesa musicale è venuta dopo».
La sua assenza pesa?
«Non
vorrei fare discorsi tristi. Nella vita ci sono state altre persone
importanti. Claudio ha lasciato un vuoto sia nella musica che personale.
Nella nostra giovinezza si andava spesso al Piccolo Teatro a seguire
Strehler. E poi la musica, ci ha legati a lungo. Fino alla fine. Ci sono
storie che sfidano il tempo».
La Stampa 27.11.16
Uno spettro s’aggira per l’Europa. Il populismo autoritario
Uno studio inglese individua alcune caratteristiche comuni ai diversi movimenti: egoismo e razzismo specialmente
di Jacopo Iacoboni
Il populismo autoritario è un miscuglio di paura e aggressività.
Hanno
sentimenti negativi verso i migranti, i diritti umani e l’Unione
europea: piuttosto che allargare le maglie vorrebbero restringerle, su
tutte e tre le questioni. Sono ostili ai giornali, e si fidano di più di
un tuffo in Internet senza stare a sottilizzare particolarmente su
quale sia la fonte a cui si affidano, nella scia della massima di Donald
Trump «non credete ai giornali, credete a Internet». Uno studio
condotto in Inghilterra da tre professori - David Sanders
dell’University of Essex, Jason Reifler dell’University of Exeter, Tom
Scotto dell’University of Strathclyde - per analizzare la questione del
referendum sulla Brexit, ha scoperto che il 50 per cento degli inglesi
condivide questa «mentalità» e questi «sentimenti negativi». I tre prof
utilizzano, per definirla, l’etichetta di «populismo autoritario» (Pa),
che è un vero e proprio «insieme coerente di convinzioni».
Lo studio,
bisogna rilevarlo, non è un sondaggio ma un’analisi sui dati di una
serie di indagini su panel di YouGov condotte tra il 2011 e il 2015,
quindi nel quadriennio che porta dritti alla Brexit. Ne vien fuori
questo ritratto: i populisti autoritari non sono, per capirci,
esattamente dei «fascisti», o ciò che eravamo abituati a intendere con
questa parola, intanto perché occupano una fascia centrale dello spettro
politico - e non la tradizionale, limitata destra o estrema destra. Ma
sono anche diversi dal populismi sudamericani, così nutriti di
emotività, e non necessariamente permeati dai medesimi elementi (per
esempio l’ostilità ai migranti).
Abbiamo potuto conversare con i tre
studiosi che hanno avuto a disposizione questi dati e abbiamo chiesto
loro sostanzialmente due cose: il «populismo autoritario», studiato con
riferimento al Regno Unito, è una dinamica che accomuna solo i Paesi
anglosassoni della Trump-Brexit, o riguarda anche posti come la Francia
di Marine Le Pen, o l’Italia del Movimento cinque stelle? Secondo: il
Movimento cinque stelle, alleato di Nigel Farage (uno dei campioni
dell’attitudine «populista autoritaria») al parlamento europeo,
condivide gli stessi sentimenti, a giudizio di questi studiosi, almeno
per la comune fascinazione - sempre più percepibile anche ai più
distratti - per il mito dell’uomo forte (The Helping Man) alla Trump, o
alla Vladimir Putin?
David Sanders ci racconta: «Ho fatto alcuni
recenti lavori con YouGov, l’agenzia di rilevazioni inglese, compreso
uno studio sul populismo autoritario europeo su dodici nazioni.
Cercavamo un set di attitudini consistente (verso l’Ue, l’immigrazione,
la politica estera, i diritti umani, il collocamento sull’asse
destra-sinistra), che giace come una risorsa sottostante per forze
politiche differenti - compresi ovviamente partiti autoritari o
anti-establishment. Abbiamo trovato in Europa modelli simili a quelli in
Regno Unito»: supporto potenziale per la Le Pen, Danimarca, Olanda,
Svezia, Finlandia, Polonia, Spagna, e in misura più limitata, Germania.
In tutti questi posti il populismo autoritario tende a destra, è anti
Ue, egoista in politica estera e vuole una robusta politica di difesa.
In Francia, un’attitudine al Pa occupa addirittura il 60%
dell’elettorato». E in Italia? «Come in Romania, da voi c’è una cosa
singolare: il populismo autoritario è stato mischiato anche con movenze
prese dalla sinistra radicale. È il caso del populismo autoritario del
M5S e di Grillo».
Spiega Tom Scotto: «L’attitudine di questo tipo di
elettorato è un rigetto, diffuso in molti Paesi occidentali, del
“liberalismo cosmopolita”. La working class, e anche la parte bassa
della middle class, nelle democrazie avanzate hanno visto spostarsi i
loro lavori in outsource verso le economie emergenti. Persone che
appartengono alla fascia compresa nell’80-90% del patrimonio globale
esistono sia in Uk, sia in Usa, Francia, Italia: questa gente si sente
insicura, e l’insicurezza non si ferma ai confini delle nazioni». Certo,
il Pa «ha poi molto a che fare col tema della razza, anche se è
ingiusto dire che gli elettori di Trump, o della Le Pen, siano tutti
razzisti». Il Pa si nutre poi molto anche del «culto del capro
espiatorio», indicare la soluzione semplice a problemi complessi: cosa
succederà quando vedranno che soluzioni semplici a queste insicurezze,
economiche e sociali, non ci sono? «Questi movimenti potrebbero
moderarsi, diventare più una sorta di conservatorismo sociale teso a
qualche forma di redistribuzione; ma la transizione la vedo difficile.
Più probabile una ricerca ancora più forte del capro espiatorio, ma a
quel punto il bivio diventa drastico: o il Pa si affievolisce, o
diventerà ancora più tossico nei comportamenti sociali».
Reifler
osserva: «La vera domanda secondo me sarà: fino a quanto puoi arrivare a
essere apertamente razzista, e nello stesso tempo conquistare il
potere? I partiti sembrano avere più successo quando non sono così
catturati dal razzismo, o dalle teorie cospirazioniste. Ma Trump ha
smentito questo assunto; anche se va detto che l’America ha una storia
brutta e difficile sulla razza, e Trump in questa storia non è il
primo».
La Stampa TuttoLibri 26.11.16
Wilbur Smith
“È venuta l’ora di essere politicamente scorretti”
“Amo
i ribelli che seguono le regole finché le regole seguono loro. Perché i
cattivi prima o poi devono pagare per il male che fanno”
intervista di Fabio Pozzo
Hector
Cross era politicamente scorretto prima ancora che Donald Trump
diventasse presidente. Ex Sas, maschio alfa, un mondo tagliato con
l’accetta tra bianco e nero, non esita ad uccidere chi gli ammazza la
donna che ama. Occhio per occhio. Tanto da far pensare che il vero
politically incorrect sia il suo creatore, Wilbur Smith.
Una
suggestione che mette di buon umore il maestro dell’avventura. «Io
politicamente scorretto? No, non è vero», dice, ridendo. Rhodesiano (del
Nord, oggi è lo Zambia), 83 anni, studi in Scienze commerciali in
Sudafrica, quattro mogli, tre figli, un passato lavorativo tra miniere
d’oro e uffici contabili prima di diventare una macchina da best-seller
che ha venduto 130 milioni di copie nel mondo, 25 solo in Italia, Smith è
appena ritornato in classifica con La notte del predatore (Longanesi),
con co-autore Tom Cain, il nuovo capitolo della serie che vede Hector
Cross chiamato alla resa dei conti con il suo nemico numero uno, John
Congo. Per quinte, il mondo del petrolio, l’olio che fa girare il mondo,
cui apparteneva la moglie di Cross, Hazel Bannock.
Cross non ha molta fiducia nelle leggi. E lei?
«Io
sono molto rispettoso delle leggi. I miei personaggi, però, almeno
loro, tendono a comportarsi con proprie regole, soprattutto se sentono
che la legge non si prende cura correttamente di loro. Penso siano tante
le persone che hanno un atteggiamento simile: seguono le regole finché
le regole seguono loro. Diversamente, le mollano e prendono il destino
nelle proprie mani».
E’ quanto fa Cross.
«E’ il suo modo di
vivere, di lavorare. In ciascuno dei miei romanzi si trova da solo e se è
sfidato non si tira indietro. Mi piace molto scrivere di lui».
Le piace perché è politicamente scorretto.
(Ride
di nuovo) «Vuole proprio che mi dichiari ribelle! Glielo ripeto, sono
un uomo ligio alle leggi. Però è bello scrivere di persone che
infrangono un pochino le regole. Non dico che mi piacerebbe farlo o che
suggerisco di farlo, ma accade là fuori...».
È vero che in questo caso è nata prima la storia e poi Cross?
«Sì.
In realtà i miei personaggi è come se nascessero per conto loro. Io ne
raccolgo le vite e le sviluppo. Costruire la loro storia è un processo
di apprendimento: a volte gli stessi personaggi mi sorprendono con il
loro atteggiamento. Non conosco mai in anticipo dove andremo a parare,
vivo l’emozione della scoperta e lascio che la mia immaginazione si
spinga al limite».
Ci saranno altre avventure di Hector Cross?
(ride)
«La vera domanda è: quanto mi resta da vivere?... In verità penso di
vivere ancora a lungo. Mi sento luminoso e vivace, come quando avevo 25
anni. Amo quello che faccio. Sento di avere altri personaggi, storie da
raccontare e voglio continuare a godere di questa sensazione. Dunque,
sì, e spero che i miei lettori non mi abbandoneranno».
A proposito: l’anno scorso aveva parlato della fine della saga dei Courteney.
«Non
sono tanto sicuro che ci sarà una fine. Forse dovevo aver bevuto
qualche bicchiere in più quando l’ho detto… No, i Courteney vivranno per
sempre. Mi piace scrivere di loro e ho creato una lunga stirpe proprio
per questo».
E cosa dice di Nick Berg, il protagonista di «Come il mare»?
«Non lo frequento da tempo. Però, ora che me lo ricorda, penso tornerò indietro per andare a vedere che sta facendo…».
I suoi personaggi non sembrano amare particolarmente la politica. E lei, che vive nel Paese della Brexit?
«A
me la Brexit non interessa. Questi sono solo giochi della politica. Io
preferisco essere coinvolto da questioni reali, che accadono davvero e
mi entusiasma seguire le gesta e i successi dei “buoni contro i
cattivi”. Io scrivo storie di brava gente minacciata, aggredita dalla
cattiveria, in cui però alla fine il bene prevale. Penso che il mondo
sia sempre stato ancorato a questa contrapposizione e sono convinto che
verrà il tempo in cui i cattivi pagheranno per il loro male».
Com’è il rapporto con i suoi co-autori?
«Per
me è una sorta di test. Ho pensato a come sarebbe stato lavorare con
altri e dico che finora ho ottenuto più successi che fallimenti.
Quanto tempo dedica per un libro alla ricerca e quanto alla scrittura?
«Ogni
libro ha i suoi tempi. Ogni storia che sogno, che porto a compimento, è
diversa. Alcune rispondono a un flusso impetuoso, altre sono più
difficili, hanno personaggi più complessi».
In “La notte del predatore” esalta l’Atlante. Anche lei lo sfogliava da bambino?
«Amo
gli atlanti, le immagini del pianeta. Amo viaggiare. Ho ancora oggi un
Atlante accanto a me, la mia vita è immersa in queste pagine».
Che leggeva da ragazzo?
«Libri
scritti durante la Seconda Guerra Mondiale, come la serie su Biggles,
il pilota e avventuriero della Royal Air Force. Sono sicuro che se mi
fosse toccato la prima linea avrei odiato la mia sorte, ma leggendo quei
libri la mia fantasia galoppava: credo che sia nata da qui la mia
capacità narrativa. Anche oggi ci sono guerre intorno a noi. Basti
guardare che sta accadendo in Siria, nel Mediterraneo, con tutte quelle
persone in fuga da disagi terribili».
Molti dei migranti provengono dalla sua Africa: un continente perduto?
«Non
più di quanto lo sia l’America. Ci sono nazioni buone e cattive, il
mondo è in crisi dagli albori della storia e ogni suo nuovo capitolo è
critico. Ma questo, a ben vedere, è quello che rende il tutto
intrigante».
Così legge per evadere dalla realtà?
«Non direi. Ciò
che leggo è più reale del mondo che mi circonda. Mi piace scoprire un
nuovo libro, un nuovo autore, lasciarmi coinvolgere fino al punto da
esclamare “Oh, dannazione!” e spingermi a cercare un seguito, un nuovo
lavoro».
Quanti libri ha?
«Mio Dio, non so, probabilmente diverse
migliaia. Perché ho due grandi case e la maggior parte delle loro stanze
sono stipate di libri. Libri che amo e che leggo ogni volta che ho un
po’ di pace e di tranquillità. Mi piace in particolare farlo nel
giardino della mia casa di Città del Capo che ha dei grandi alberi: mi
siedo sotto e sto lì per ore a leggere. La lettura è davvero uno dei
miei grandi piaceri della vita».
Va ancora in libreria come un semplice cliente?
(Ride)
«Non posso camminare oltre una libreria senza sbirciare in vetrina. Mi
fermo, passo in rassegna le copertine, penso “Oh, guarda quello lì, di
che si tratta?”. E poi entro per guardarlo da vicino. Mi piace la
sensazione dei libri».
Ma quando è vi entrato l’ultima volta? E solitamente la riconoscono?
«Proprio
ieri. Camminavo in Knightsbridge (il distretto di Londra dove ha casa,
nda) e ho visto alcuni libri in vetrina, così sono entrato e ne ho
comprato un paio. Non sempre mi riconoscono, ma quando accade è molto
simile a un “Ciao, è molto bello rivederti!”. Ed è bello anche per me
avere un gruppo speciale di persone che amano i libri come me».
Ho letto che si sta godendo la vita alla grande. Lo ha sempre fatto?
«Fino
ai 20 anni mi sono divertito immensamente. Mio padre mi pagava i conti,
ero all’Università, stavo scoprendo la vita, le amiche ed è stato
meraviglioso. Poi ho detto a papà che volevo andare in Inghilterra, a
Oxford. La sua risposta: “Ok, quando sarai in grado di mantenerti, lo
farai”. Così per i successivi dieci anni ho lavorato duramente per pochi
soldi, finché non ho pubblicato Il destino del leone. Da allora non ho
più smesso di lavorare».
Che passioni ha oltre la scrittura?
«Mi
piace scoprire nuovi libri, il cibo, la musica e il buon cinema. Adoro
anche le escursioni in montagna e le macchine. Non guardo invece molto
la tv».
Ma uno scrittore che ha venduto 130 milioni di copie, che è diventato ricco, sogna ancora? O ha sperimentato tutto?
«Tutto
il tempo! Ogni mattina mi sveglio e penso: “Oh, che bel sogno è
stato!”. Credo che la mia immaginazione corra in modo selvaggio, a volte
troppo, ma mi piace così. Ho sperimentato tutto? Ma no! Sento di essere
appena all’inizio, che c’è ancora tutta una vita davanti a me, con
tutte le sue meraviglie, piaceri, sconvolgimenti».
Chi sono i suoi amici?
«Per
lo più si tratta di persone che mi piacciono, con cui mi trovo bene e
posso parlare. Uomini e donne che mi capiscono e che capisco, rispetto.
Non si tratta di quanti soldi abbiano. C’è gente che è piena di soldi ed
è mostruosa, orribile».
Che tipo d’uomo pensa di essere?
(ride) «Se glielo dicessi, poi penserebbe: “Oddio, che alta opinione ha di se stesso!».
Le piace il mondo in cui viviamo?
«Oh sì! Del resto, è l’unico che abbiamo».
La Stampa 27.11.16
Ascesa e trionfo della civiltà dell’immagine
di Claudio Gallo
Gli
inizi sono sempre evanescenti: quando è cominciata la decadenza
dell’Occidente? Quando è sorto l’individualismo? E la globalizzazione?
Vedere la storia come un processo in cui si guadagna qualcosa o qualcosa
si perde è una concezione originariamente mitologica che manifesta il
bisogno di dare un senso alle cose.
Flavio Cuniberto, ordinario di
Estetica all’Università di Perugia, crede platonicamente che l’universo
non sia soltanto caso e necessità e che la nostra civiltà dell’immagine
nasca dalla disgregazione progressiva di mondi antichi più oscuri e più
luminosi insieme.
Nel Vortice Estetico (Morlacchi, pp. 393, €22)
individua un percorso ideale attraverso il quale l’esperienza del mondo
viene gradualmente sostituita dall’esperienza dell’immagine del mondo.
Una lunga strada che ha condotto l’umanità al presente digitale, dove
virtuale e iper-reale nascondono come un velo sgargiante la realtà
materiale e sociale. Prendiamo le vacanze, non sono ormai per molti la
preparazione alla narrazione che verrà dopo, fatta di racconti,
fotografie, filmati? L’immagine digitale rimane, è più reale della vita
che ha la seccante caratteristica di trascorrere. Il passato per quanto
spettrale, si può «rivivere» a piacere grazie al digitale mentre vivere
il presente è difficilmente un piacere.
La grande trasformazione è
seguita attraverso la storia dell’arte, individuando i prodromi e gli
eventi cruciali, senza cedere alla tentazione di una periodizzazione
troppo esplicita da storiografia reazionaria dei primi del Novecento.
Uno dei momenti in cui, secondo Cuniberto, il paradigma estetico si
presenta potentemente in una nuova forma è a Firenze, intorno al 1426,
quando Masaccio dipinge la Trinità a Santa Maria Novella.
La novità
non è tanto il trompe l’oeil quanto piuttosto il fatto sconcertante che
la Trinità non è più un soggetto teologico ma è l’elemento di «una messa
in scena», gioco su un palco teatrale per provocare l’eros visivo.
Nella seconda parte del libro, vediamo il nuovo diletto di rappresentare
il mondo dispiegarsi simmetricamente alla scoperta dell’io, fino
all’individualità romantica e oltre. L’antica oggettività estetica si
sbriciola nella moltitudine d’individui ipnotizzati, ognuno a suo modo,
dal proliferare infinito delle immagini. Così il nostro mondo si
dissolve in un’interminabile fantasmagoria ad alta definizione.
La Stampa 27.11.16
Com’è arduo tradire l’amico in nome del comunismo
Un infiltrato vietcong negli Usa dopo la caduta di Saigon diviso tra la fedeltà all’ideologia e gli affetti personali
di Domenico Quirico
Per
favore! Fate leggere questo romanzo, Il simpatizzante, vincitore del
Pulitzer, a Salvini e ai suoi leghisti. Imponetelo come premessa
elettorale a madame Le Pen, alla svelta protervia di tutti gli xenofobi,
indigeni e da esportazione. Soprattutto: accertatevi che questi
avvelenatori dei pozzi della psicologia collettiva scorrano la biografia
dell’autore, Viet Thanh Nguyen, figlio di migranti vietnamiti negli
anni settanta, rifugiato di seconda generazione diventato professore di
inglese e studi americani alla Ucla, la prestigiosa università della
California, autore di saggi sulla memoria e l’oblio e ora anche potente
romanziere: il romanziere AMERICANO dell’anno. Che ha scelto come tema
per il suo esordio letterario gli anni «americani» del Vietnam che
furono proprio quelli che fecero tremare Popoli, Terre, Spiriti in tutte
le loro fondamenta.
E’ compito bello e amabile presentare l’opera di
un grande scrittore e Thanh Nguyen lo è. Bello chiosare la singolarità
di una delle sue pagine: ad esempio, nel racconto delle ultime notti di
Saigon ormai accucciata, esausta, nella morsa salda dei «liberatori», la
scena in cui descrive le strade che portano all’ultima via di fuga,
l’aeroporto, sui marciapiedi le divise abbandonate dai disertori prima
di travestirsi da civili, scena classica di ogni débacle anche nostrana.
Ma qui le divise non son gettate qua e là alla rinfusa, ma ben
ripiegate, elmetto giubba pantaloni scarpe, in ordine rigoroso dall’alto
al basso, quasi fossero esposte in vendita «… ma nessuno in una città
in cui niente andava sprecato, nessuno osava toccarle…».
E’ bello
additare al lettore indaffarato o insensibile, la frase, il personaggio,
la battuta, certe bellezze ingegnose di una ispirazione mai incauta o
incolta… «Era un uomo sincero che credeva in tutto quello che diceva
anche quando mentiva…». Che storia è la sua: tragica terrificante
bizzarra! Libro perfetto dunque come sono quelli dove ogni orrore e
dolore, verità e menzogna, odio e morte diventano destino e struttura.
Tutto
questo è vero: ma scopro che la vita dell’autore, la sua condizione
umana, di persona e non di personaggio, mi folgora e mi attrae quanto e
forse più della sua opera. Perché dimostra, con pertinenza didascalica,
cosa sono e possono diventare i migranti, «invasori» descritti come
devoti al saccheggio, impermeabili a ogni integrazione, che sia anche
accettazione di ciò che siamo. Possono diventare ad esempio maestri in
grado di darci lezioni nei nostri idiomi. Oppure di vincere il premio
letterario più prestigioso. Tra dieci, venti anni avremo anche noi, in
Italia, un vincitore del Campiello o dello Strega arrivato, bambino, sul
molo di Lampedusa su una slabbrata caravella, o alla deriva per torridi
deserti incalzato dalla paura: che è stato insomma Migrante.
Il
libro è, a ridurlo a trama di vertiginosa proliferazione, la storia di
un uomo, il Capitano, l’apprezzato braccio destro del capo della polizia
di Saigon ma anche rivoluzionario vietcong, marxista, abilissimo
infiltrato a cui i nordvietnamiti chiedono di seguire il generale
fuggiasco in America per sorvegliare possibili «revanche» degli
sconfitti. Nguyen ne coglie magistralmente la seduzione, il torbido
fuoco, quanto basta a consentirci l’affaccio sul pozzo senza fondo della
vita e vederci confusi, in ambigui intrecci, il bene e il male.
Un
tempo ci avvertivano che non si debbono leggere libri per sapere come
vanno a finire, né voltare le pagine per sapere cosa accade dopo. Che
errore! Confesso di leggere per sapere, appunto, ciò che accadrà, quello
che ci porterà la pagina dispari dopo quella pari.
Ma non nel caso
de Il simpatizzante. Ogni parola scritta con magistrale perizia dal
migrante Nguyen è, automaticamente, per una sorta di traslazione
biografica, anche una pietra scagliata contro il pregiudizio, l’ottusità
degli xenofobi, la meschinità di tutti gli egoismi, razziali ed
economici. Sì. Il simpatizzante è un libro che nasce dal coraggio
dell’uomo, è impastato dalla sua mirabile capacità di adattarsi e di
crescere, della generosità del sopportare il dolore e il distacco da ciò
che eravamo e non possiamo più essere. Che ci dice come gli uomini
siano più saldi e buoni di quello che credono. Anche se talvolta lo sono
meno di quello che dicono.
Il Sole Domenica 27.11.16
Spesso il male di scrivere ho incontrato
In
tre deliziose lettere inedite, è all’opera il Montale del suo «secondo
mestiere»: quello di critico letterario e di giornalista, svolto per
necessità e sul quale non manca di scherzare
di Armando Massarenti
Non
di rado Eugenio Montale ha parlato, riassumendo la propria vicenda
umana e poetica, «della nostra “vocazione” di scrittori poveri e magari
di giornalisti», come si legge nel Secondo mestiere, il Meridiano,
pubblicato 20 anni fa a conclusione dell’Opera omnia, che raccoglie i
suoi scritti da giornalista, redattore, traduttore e critico di «arte,
musica, società». Le tre lettere inedite, rivolte all’insigne grecista
Manara Valgimigli in un periodo che va dal 1946 al 1954, ora pubblicate
in un prezioso volumetto con il titolo Non possiedo neppure una Divina
Commedia, vanno lette in questo contesto. Coincidono non a caso con il
periodo più proficuo del suo variegato “secondo mestiere” - che si può
dire culminò nel 1965 (dieci anni prima del conferimento del premio
Nobel) proprio con una Lectura Dantis che nel ’54 dichiarava di non
voler fare, sentendosi inadeguato - assai interessante per i rapporti di
Montale poeta con Dante.
Con tono delizioso, Montale, che a quel
tempo viveva quasi esclusivamente della sua collaborazione giornalistica
con Il Corriere della Sera, rifiuta la Lectura Dantis propostagli da
Valgimigli adducendo vari argomenti («a me che non provengo
dall’insegnamento, queste cose riescono difficilissime») fino a quello
di non possedere «nemmeno una Divina Commedia»: «Libri non ne posseggo -
scrive - perché molti li ho perduti in seguito a un bombardamento e la
mia casa è così piccola che non contiene che me e i pochi documenti
necessari al mio mestiere». Le tre lettere rappresentano altrettante
pennellate che disegnano l’atteggiamento del poeta nei confronti del
lavoro di giornalista e di critico letterario, svolto per necessità, ma
che ci ha regalato uno sguardo sulle arti del Novecento di una
originalità e di un acume straordinari. Il Montale critico riluttante
che emerge da questi tre inediti si tinge di astuzie varie, da
un’ostentata umiltà per convincere l’amico a partecipare alla giuria di
un premio letterario, alla richiesta di aiuto per scrivere un articolo
dedicato alle poesie latine di Pascoli sulle quali si dichiara
incompetente.
Con Non posseggo nemmeno una Divina Commedia Angelo
Crespi, Luigi Mascheroni e Cristina De Piante, inaugurano una nuova
raffinata casa editrice, De Piante editore. Proporrà testi di alto
valore letterario, inediti, curiosi, in un supporto che punta
sull’“oggetto libro”, prezioso dal punto di vista editoriale/tipografico
e che ha come elemento distintivo la sopraccoperta disegnata ogni volta
appositamente da un artista. Questo primo volume, stampato in 500 copie
di cui 99 numerate a mano più 10 copie d’artista, è stato affidato
all’artista astratto Roberto Floreani. In una breve postfazione Davide
Brullo trova quasi paradossale l’affermazione che dà il titolo al
volume, definendo Montale «il più dantesco dei poeti italiani del
Novecento», aggiungendo che «basta rileggere la grazia con cui quel
verso paradantesco, “... tu / che il non mutato amor mutata serbi”, è
incastonato nella Primavera hitleriana, ormai esattamente montaliano».
Si tratta in realtà di un verso non della Commedia ma di un sonetto
quasi sicuramente non dantesco che Montale leggeva nell’edizione delle
Rime curata da Gianfranco Contini, forse a maggiore riprova
dell’influsso sul poeta delle letture dantesche.
In queste tre
lettere troviamo confermata l’immagine che avevamo di un Montale
antiretorico, povero e assai onesto intellettualmente. Cosa c’è di male
nel riconoscere le proprie lacune, la propria incertezza circa il latino
e la propria inadeguatezza in quanto dantista? E persino la propria
pigrizia, quando si tratta di interrompere il proprio impegno di poeta
già acclamato per concentrarsi sul “secondo mestiere”, quello di critico
e di giornalista, abbracciato controvoglia e per mere esigenze di
sopravvivenza economica, e che pure gli ha permesso di regalarci pagine
meravigliose su autori e testi ai suoi tempi poco battuti?
Chi
conosce Montale, conosce il suo carattere profondamente schivo, il suo
non voler appartenere a nessuna chiesa (rossa, nera o bianca che sia: ma
fu comunque antifascista, a partire dall’adesione al manifesto di
Croce), la sua naturale ritrosia per i consessi letterari laureati, per
le dicerie accademiche, per quelle maldicenze snobistiche che da sempre,
e non solo oggi, accompagnano la pratica della critica letteraria. Chi
non ricorda I limoni? «Ascoltami, i poeti laureati / si muovono
soltanto tra le piante / dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. /
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi / fossi dove in
pozzanghere / mezzo seccate agguantano i ragazzi / qualche sparuta
anguilla (…)». Neppure quando laureato lo fu, con il conferimento del
premio Nobel per la Letteratura, nel 1975, cambiò di molto il suo
atteggiamento, benché fosse ormai lontano dagli anni della povertà del
dopoguerra.
«All’eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo
torcere il collo, magari a rischio di una controeloquenza» dichiarava
nel 1946. E ancora: «Scrivo poco, con pochi ritocchi, quando mi pare di
non poterne fare a meno. Se neppur così si evita la retorica vuol dire
ch’essa è (almeno da me) inevitabile». Ed è forse qui che si nasconde il
paradosso di chi si vede costretto a fare due mestieri, sentendo che in
realtà quello di scrittore e poeta è l’unico che gli si attaglia. Anche
quando si tratta di riconoscere il proprio debito con Dante, come fece
nel 1966, dopo che Contini si era già da tempo occupato di rintracciare i
riferimenti danteschi nella sua opera. In un’intervista del 1966
afferma: «Devo dire che io, dopo aver letto giovanissimo la Commedia,
l’ho lasciata poi da parte per parecchio tempo (…). Certamente la sua
lettura, sedimentata in me, ha avuto, per vie che è difficile definire,
degli influssi». Che dire? Come al solito Montale ci dice una cosa
saggia e ovvia nel contempo. Non sta parlando qui di un processo che da
sempre caratterizza il fare artistico e poetico e il modo profondo in
cui opera l’imitazione quando sa diventare innovazione?
«Quanti sono
gli scrittori che riescono a vivere col frutto della loro arte, -
scrive in Auto da fè - senza dover ricorrere a un altro mestiere?
Apparentemente sono molti nelle così dette Repubbliche popolari; ma
pochi, pochissimi negli Stati dove vige una relativa libertà di pensiero
e di opinione. […] Scrittori notissimi, magari insigniti del premio
Nobel, vivono della loro penna, non della loro arte. […] È quasi
impossibile, in tutto il mondo, a uno scrittore di vivere dell’arte
sua». Per questo nella citazione riportata all’inizio Montale parla, al
plurale, della “nostra” vocazione. La stessa situazione era toccata ad
altri grandi. Alberto Savinio per esempio, scrittore come Montale e
insieme critico teatrale e musicale oltre che pittore e compositore. Nel
recensire nel 1955 Scatola sonora, raccolta postuma di scritti
musicali, Montale chiude così il suo pezzo: «scrittore limpido,
elegantissimo, temperamento troppo aristocratico per cercare l’applauso e
il successo, egli lascia un gruppo di scritti che resterà come uno
degli ornamenti del nostro tempo. E la sua vita - che fu probabilmente
quella di un povero – aggiunge ancora all’opera sua una nota di
singolare ricchezza spirituale».
Come Savinio, Montale sapeva condire
anche le considerazioni più amare con una deliziosa ironia. Come quando
scrive: «L’artista antico pare a noi [...] ben fortunato in confronto
al moderno artista costretto a dividersi tra l’arte e un mestiere capace
di dargli da vivere, in attesa che l’arte sua, una volta che sia
riconosciuta (campa cavallo!), cominci a “rendere qualcosa”». O quando
rimpiange di non aver potuto fare nella sua vita «il secondo mestiere
più favorevole alle lettere: quello del “rentier”».
Il Sole 27.11.16
Giuseppe Ungaretti (1888 –1970)
Universi e fantasmi
Cent’anni fa usciva «Il Porto Sepolto». La sua lezione non fa che crescere nel nostro tempo di universale esilio
di Carlo Ossola
Ai
primi di dicembre del 1916, mentre Ungaretti è, soldato semplice, sul
fronte del Carso, esce a Udine, in «80 esemplari numerati», Il Porto
Sepolto, una plaquette che avrebbe cambiato la poesia del Novecento
italiano, un sillabato acuto, irto, che toglie di scena le «manate di
parole» dei Futuristi: «Sono un poeta / un grido unanime / sono un grumo
di sogni» (Italia). Fatti i primi studi, e le prime traduzioni (tra cui
quella esemplare da Poe, Silenzio; ora Tallone, Alpignano, 2009) ad
Alessandria d’Egitto, ov’era nato nel 1888 figlio di emigrati lucchesi,
Ungaretti tempra la propria poetica a Parigi, studiando alla Sorbona e
al Collège de France, alle lezioni di Bergson, e insieme divenendo
compagnon di Apollinaire, Breton, Cendrars, Modigliani, Picasso, per poi
rintrare in Italia allo scoppio della prima Guerra mondiale e
arruolarsi come volontario. A 28 anni è già poeta di due continenti: a
Moammed Sceab dedica la sua raccolta, poeta d’altra terra e di fraterno
destino: «In memoria / di / Moammed Sceab / discendente / di emiri di
nomadi / suicida / perché non aveva più / patria».
Occorre dare più
importanza a quelle origini, in questo secolo XXI che sembra aver
totalmente obliato l’altra sponda mediterranea della propria storia e
della propria identità: «Quel vociare piano che torna, e torna a
tornare, nel canto arabo, mi colpiva. Nell’accompagnamento d’un morto,
quella sorta di costanza monotona che si differenzia quasi
insensibilmente per quarti di tono, quel borbottio lento, quella
scoperta di quanto potesse una persona commuoversi a un discorso
dissimulato: non avrò ritenuto altro dell’insegnamento orientale, ma vi
pare davvero poco? In quel salmodiare s’insediava il valore d’Essenza e
ne divenivo quasi inconsapevolmente consapevole». E tale sarà uno degli
Ultimi cori per la Terra Promessa, 26, tra i più struggenti: «Soffocata
da rantoli scompare, / Torna, ritorna, fuori di sé torna, // E sempre
l’odo più addentro di me / Farsi sempre più viva, / Chiara, affettuosa,
più amata, terribile, / La tua parola spenta». È un ripetersi che si
modula e si tende, per lacerarsi infine: «Ah! Se non fosse quella
frustata che dalla pianta dei piedi vi scioglie il sangue in una
canzone, rauca, malinconica, maledetta, direste che questo è il nulla.
Essa entra nel sangue come l’esperienza di questa luce assoluta che si
logora sull’aridità» (La risata dello Dginn Rull, 1931).
Poesia di
ritmo dunque, più che di metro, essa si dilata e anima anche il poème en
prose, obbedisce a una “tornitura” di ritmi, che non sono gli scatti
della scrittura futurista. Di quella stagione rimarrà, grido
insurrezionale e anarchico che risale alla Costituzione rivoluzionaria
del 1791, soltanto l’«Ah! Vivre libre ou mourir» dell’Affricano a Parigi
del 1919. In quei “ritratti” è tutta l’infanzia, e il presente, a
ricapitolarsi: «A casa mia, in Egitto, dopo cena, recitato il rosario,
mia madre ci parlava di questi posti» (Lucca); «In questa città lo
spazio è finito e le strade sembrano interminabili. / Qui non si vive di
abbandoni, ma di capricci. / Non mi è più concessa la gran fuga e il
rifugio nel sole che addomestica e annulla. / [...] / Qui il tempo si
scandisce, e i corpi si fanno secchi e smaniosi, come una corda musicale
tesa. / Dopo tutto si tende al caos. // Ah! Vivre libre ou mourir»
(L’Affricano a Parigi, stesura 1919).
Ungaretti non conosce le
estenuazioni del Decadentismo italiano perché, dalla militanza degli
anni parigini che precedono la guerra, apprende – immediata – l’urgenza
della rottura: «Un génie fendu comme une pêche / Lautréamont / Chagall»
(Blaise Cendrars, Atelier, 1913); il suo Roman cinéma non a caso è
dedicato a Blaise Cendrars, perché tramite l’amico (che ammira Chaplin e
sarà nel 1919 figurante nel film J’accuse di Abel Gance) e la sua Prose
du Transsibérien, 1913, scopre la simultaneità pieghevole, elastica,
mobile, degli spazi e delle arti, dispiegate in un poema-quadro, ma
retrattile, di due metri d’altezza con composizioni intrecciate di Sonia
Delaunay: «Je suis en route / J’ai toujours été en route». E Ungaretti
in Fase: «Cammina cammina / ho ritrovato / il pozzo d’amore».
In
Italia, a lungo, Ungaretti è stato posposto a Montale; la sapienza
critica di Contini, il riconoscimento venuto dal Nobel, hanno imposto il
poeta degli Ossi; ma Ungaretti respira in altri orizzonti: il suo
rayonnement europeo e nordamericano sono piuttosto, e fortunatamente,
legati alla grandezza dei suoi traduttori: Pierre Jean Jouve, Francis
Ponge, Philippe Jaccottet, Ingeborg Bachmann, Paul Celan, Allen
Mandelbaum.
A sua volta, del lungo esercizio del tradurre, da Esenin a
Saint-John Perse, da Shakespeare a Racine, da Blake a Mallarmé, permane
– nelle scelte operate da Ungaretti – un tono aurorale, che si prolunga
nelle albe della propria poesia, poiché «L’infanzia viene
dall’eternità» ( Murilo Mendes) e il poeta percorre e dona la «Terra
arabile del sogno!» (Saint-John Perse).
Pari alle traduzioni è la sua
coscienza dei classici: «Recuperate, in vuoto» saranno le forme della
tradizione, in un acuminato “crescere per sottrazione”: la poesia
dell’ultimo Ungaretti ritrova così il respiro classico del Lointain
intérieur, come in Michaux: «On pèse sur le vide»; come in Celan, che
tradurrà mirabilmente La Terra Promessa (Das verheissene Land) e il
Taccuino del Vecchio (Das Merkbuch des Alten). Anche quando non rimanga
che «dondolo del vuoto» (L’impietrito e il velluto, 1970), deserto e
Lösspuppen, crisalidi di Loess e «Impalpabile dito di macigno», pure,
per memoria di forma, il ritorno è, sempre, istante possibile:
«Petrarca/ ist wieder/ in Sicht», «Fulmineo torna presente pietà»
(L’impietrito e il velluto, clausola); eterno bagliore / abbaglio di
illuminazione e miraggio: «L’unica luce sua che dal segreto // Suo
incendio può guizzare» (Canto a due voci).
Dopo cent’anni, la sua
lezione non fa che crescere, nel nostro tempo di universale esilio.
Ungaretti ha un “senso radicale” della parola che lo pone entro una
storia della «coscienza dei classici» saldamente disegnata e assunta, da
Petrarca e Leopardi a Shakespeare e Baudelaire. Il volume di saggi
Ungaretti, poeta delinea i percorsi di una poesia che «dal fondo di
notti di memoria» s’innalza oltre il «Rilucere inveduto d’abbagliati /
Spazi ove immemorabile / Vita passano gli astri / Dal peso pazzi della
solitudine». Responsabilità cosmica della parola poetica, ereditata da
Leopardi, e a noi offerta affinché accompagni il cammino di questo
secolo smarrito, «en exil / partout».
Di Carlo Ossola è appena arrivato in libreria: Ungaretti, poeta, Marsilio, Venezia, pagg. 288, € 17
Il Sole Domenica 27.11.16
L’ultimo Caffè
L’economista
Bruno Amoroso, allievo e amico di Federico Caffè, rivela nelle ultime
righe delle sue «Memorie di un intruso» di averlo frequentato dopo la
scomparsa: anni di meditazione, ritirato in convento
di Roberto Da Rin
Trent’anni dopo, in Danimarca. Sono qui le ultime tessere che ricompongono il mosaico della scomparsa di Federico Caffè.
Esce
di casa, in via Cadlolo, a Roma, all’alba del 15 aprile 1987. Lascia
sul comodino occhiali e orologio. Di lui non si saprà più niente.
Un
rapimento, un suicidio, un ritiro spirituale in un convento. Sono queste
le ipotesi su cui si orientano le indagini della polizia, degli
investigatori, dei suoi amici, dei suoi studenti. Indagini di anni. Oggi
sappiamo, come riveliamo in questo articolo, che Caffè ha vissuto a
lungo, dopo la sua scomparsa. E che il suo allievo prediletto, Bruno
Amoroso, custodisce il segreto dell’esilio del maestro.
Chi era
Federico Caffè? Un economista stimato a livello internazionale, docente a
La Sapienza. Un economista umanista, critico nei confronti dei
tecnocrati, degli istituzionalisti, un alfiere dell’umanesimo di Keynes
«contrapposto al darwinismo schumpeteriano». Parole sue.
Un
economista affascinato dall’approccio interdisciplinare della scuola
nordica, di Gunnar Myrdal e di Jan Tinbergen. In cima ai suoi pensieri
l’obiettivo del benessere mondiale e di una radicale trasformazione di
sistemi che, se realizzati, avrebbero sconfitto la controrivoluzione
liberista.
Gli allievi ne parlano così: le sue lezioni esondavano
dall’economia, lambivano la politica, la letteratura, la storia, la
musica. La sua umanità come aspetto centrale, qualcosa di spiritualmente
indefinibile che sprigionava dalla sua persona. Capace di domandarti di
te, chi sei, cosa fai, a cosa aspiri, da dove vieni, dove ti piacerebbe
andare.
Tra gli allievi, Bruno Amoroso è l’erede designato del
grande patrimonio culturale e umano di Caffè. Amoroso vive e insegna in
Danimarca da 40 anni, sbarcato in Scandinavia con il proposito di
approfondire gli studi sui sistemi di Welfare e sulla loro
esportabilità. Aveva in tasca le lettere di presentazione di Caffè, già
allora apprezzato anche dagli economisti scandinavi.
In un bellissimo
libro, Memorie di un intruso, edito da Castelvecchi, Amoroso racconta
tutto della sua vita e quasi ogni pagina parla del maestro Caffè. Pur
con le lettere di presentazione di Caffè, Amoroso aveva bisogno di un
permesso di soggiorno per vivere in Danimarca e cerca un lavoro: lo
trova come “assistente lavapiatti”. È laureato e impegnato nella
ricerca, stimato e inviato all’estero dall’Istituto di Politica
economica della Sapienza, ma inizia dal basso. Da “assistente
lavapiatti” diventa “lavapiatti”, poi portiere di notte e dopo due anni è
“professore associato” in una università danese. Con tutta
l’incredulità degli impiegati dell’ufficio di collocamento che, pur
consapevoli della mobilità sociale insita nei sistemi scandinavi, non
avevano mai assistito a carriere così fulminee.
In questo stesso
libro Amoroso, a pagina 178, nell’ultimo capoverso prima dell’Epilogo,
scioglie l’enigma. A proposito di “silenzio e riflessione” Amoroso
scrive: «Federico (Caffè) capì la situazione prima di noi e ha trascorso
gli anni che ci separano da lui tornando alla sua amata musica classica
e al silenzio. Una volta lo interruppi in questo ascolto con una
canzone di Lucio Dalla, Come è profondo il mare. Ascoltò in silenzio,
accennò un grazie con la mano, e riprese l’ascolto di una sinfonia di
Mahler».
Così l’allievo più intimo, Bruno Amoroso, ci consegna un
segreto: scrive di averlo visto e frequentato, dopo la sua scomparsa. A
quasi trent’anni dalla sua uscita di scena, e a 102 dalla sua nascita,
acquisiamo quindi un elemento importante del mistero di Caffè: né
suicidio né rapimento.
Amoroso pochi giorni fa ne ha parlato con il
sussiego e l’ammirazione di sempre: «I meriti di Caffè sono
riconducibili al “piano etico” oltre che a quello scientifico». Tra gli
allievi più noti di Caffè, ci sono Mario Draghi, presidente della Bce,
Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia. E tanti altri nomi di
prestigio, da Marcello De Cecco a Giorgio Ruffolo, da Guido Rey a Enrico
Giovannini. Bruno Amoroso, l’allievo prediletto, è destinatario di
centinaia di lettere confidenziali. Bruno, in convalescenza nella sua
Copenhagen, è attorniato dagli affetti più cari e dagli amici di sempre:
Ye e Danyi, Lutz e Luca. Con l’ironia di sempre e la lucidità dei
ricordi, spinge lo sguardo oltre la finestra; e da Hellerup, un bel
quartiere residenziale di Copenhagen, ci riporta al primo assioma del
Caffè-pensiero: «L’economia è uno strumento importante al servizio del
benessere delle persone».
È l’attualità di Caffè che lascia stupefatti.
L’allarme
per le derive populiste alimentate da ingenti flussi migratori (che 40 o
50 anni fa non esistevano) è cronaca di questi mesi, di queste
settimane. La sua profonda capacità di analisi e la sua lucidità
previsiva, trovano conferma nelle parole che seguono: «Perché credi –
chiede Caffè ad Amoroso con tono quasi accusatorio – che i sistemi di
welfare siano in crisi? Sì certo, come tu giustamente insegni a
Copenhagen, ci sono i costi sociali dell’impresa che sono cresciuti in
modo esponenziale, così come sono aumentati i fruitori dei servizi
pubblici. Ma in modo inversamente proporzionale è cambiata la
disposizione delle persone per la solidarietà e i sentimenti».
Una
riflessione di straordinaria attualità, nei giorni in cui Europa e Stati
Uniti erigono barriere e muri “contro” i più deboli.
L’ipotesi
suicidio si svuota quindi di qualsiasi valenza possibile e il ritiro in
convento emerge in tutta evidenza. Con la copertura offerta da un ordine
religioso. «La Chiesa è disponibile a offrire protezioni di questo
genere, purché ricorrano determinate condizioni». Rispose così il
sottosegretario padre Jesus Torres, autorevole rappresentante della
“Congregazione per gli istituti di vita consacracata e le società di
vita apostolica”, incalzato da Ermanno Rea che 25 anni fa cercò di
risolvere il mistero della scomparsa di Caffè e scrisse il libro
L’ultima lezione.
In un altro bel libro, La Stanza rossa, pubblicato
nel 2004 da “Città aperta”, Bruno Amoroso racconta Caffè attraverso
decine di lettere autografe e riflessioni scientifiche. Anche qui ci
sono conferme importanti del ritiro del maestro: confessioni vergate dal
professore al suo allievo preferito. Già nei primi anni Ottanta, pochi
anni prima della pensione, Caffè pare voglia abdicare alla sua vita:
«Sono triste e depresso; e solo; e angosciato; e malinconico; e
trepidante».
Si legge in filigrana il desiderio di scomparire. Ancora
una volta all’ultima pagina, si riporta una confessione premonitrice di
Caffè, accolta e pubblicata da Amoroso: «Nella mia vita si sono ormai
prodotte rigidezze che ponevano limiti invalicabili alla comprensione e
all’esperienza: mi restava di continuare sulla via dell’isolamento delle
idee, che avevo già intrapreso, e di aprire, in solitudine, la porta
della meditazione esistenziale». Il convento, appunto.
Pochi anni
dopo è lo sconforto che pervade la vita del professore, ormai “fuori
ruolo”, lontano dai suoi collaboratori, dai suoi studenti. Cita Giuseppe
Ungaretti, « mi pesano gli anni futuri».
Una decisione, quella di
scomparire, maturata con la lettura di un libro di Leonardo Sciascia, La
scomparsa di Majorana che Caffè leggeva prima di uscire di casa per
l’ultima volta. Quella stessa copia del libro oggi è a casa di Bruno
Amoroso, a Copenhagen, in via Webersgade. È convincente e plausibile il
parallelo tra Majorana e Caffè. Due angosce con similitudini forti: per
Sciascia la scomparsa di Majorana vale un mito: «il mito del rifiuto
della scienza». Per Amoroso quella di Caffè è la solitudine di un
riformista che non accetta il dissolvimento dei valori, la regressione
culturale in atto.
L’altro mistero - dice Giorgio Lunghini, un
economista importante con cui Caffè ha intrattenuto rapporti di lavoro e
di amicizia - è questo: perché mai un liberale ha scritto così spesso
su un quotidiano comunista, «il manifesto»? Lunghini ne dà una risposta
ironica e persuasiva, soprattutto coerente con il pensiero di Caffè.
«Una spiegazione ragionevole è che Caffè vedeva nel “manifesto” l’unico
giornale il cui direttore non poteva imporgli di scrivere, non poteva
rampognarlo per quanto avrebbe scritto e non poteva pagarlo: la
condizione ideale per un uomo libero».
Federico Caffè, la passione
civile e l’impegno accademico di una vita trascolorate nel silenzio, con
narrazioni senza più nessi, come sogni.
Il Sole Domenica 27.11.16
Maturazione del cervello
Prima infanzia senza ricordi
di Arnaldo Benini
Nel
1895 la psicologa americana Caroline Miles attirò l’attenzione sulla
mancanza di ricordi dei primi 3-4 anni di vita, un periodo del quale non
si ricorda nulla ( American J. of Psychology 6, 534-558, 1895). In 89
bambini, l’età media dei primi ricordi era di 3 anni e 4 mesi, quella
minima di 2 anni e 9 mesi. Si ricordavano nonni, malattie, morti e
nascite in famiglia. Durante i primi 3-4 anni di vita i bambini hanno
una grandissima facilità ad imparare, ad esempio la lingua madre (a
volte anche più di una). Ma la memoria episodica è come se non
esistesse, anche se esperienze di quel periodo possono condizionare
inconsciamente la vita. È provato, ad esempio, che situazioni minacciose
o paurose a quell’età predispongono a depressione, ansietà e a disturbi
dell’umore. Come possono eventi dimenticati condizionare la vita?
Da
oltre un secolo si cercano i meccanismi di questo paradosso. Sigmund
Freud, nel 1915, parlò di Kindheitsamnesie (amnesia infantile, AI),
sospettando che fosse dovuta alla repressione attiva dell’inizio della
sessualità. Per questo la rimozione, secondo Freud, sarebbe stata
orientata alla sola sessualità, cioè non tutto sarebbe stato
dimenticato: in realtà la AI è totale. Oltre a varie teorie di
psicologia cognitiva, si pensò che la memoria episodica si sviluppasse
assieme al linguaggio e alla consapevolezza di sé. Da quando si sa che
la AI è comune anche ad animali, come cavie e topi, le spiegazioni
rigorosamente antropomorfiche hanno lasciato il posto alla ricerca
sperimentale.
Secondo una delle recenti teorie, corroborata in topi e
cavie, la causa della AI sarebbe, paradossalmente, la neurogenesi molto
attiva nei primi anni di vita, quando nuove cellule sostituirebbero
continuamente quelle preesistenti nell’ippocampo (piccolo organo nel
mezzo dei lobi temporali) per cui niente si fisserebbe stabilmente. La
AI regredirebbe quando la neurogenesi, al terzo-quarto anno di vita,
rallenta il ritmo (si veda Il Sole 24 Ore dell’8 agosto 2015).
Dal
Centro di scienze del sistema nervoso dell’Università di New York si
propone un’altra teoria, più convincente, basata sullo studio
strutturale e chimico della parte posteriore dell’ippocampo, che è
l’organo chiave della memoria episodica e semantica, oltre che del senso
dello spazio e del tempo. La teoria intende rispondere alle domande se
la AI è una mancanza di trasmissione dell’informazione dai meccanismi
della memoria a quelli della coscienza, oppure un difetto
dell’archiviazione dell’esperienza o del richiamo.
Gli autori hanno
scoperto meccanismi molecolari alla basedella AI che aprono prospettive
nuove nello studio della memoria e della maturazione del cervello.
L’analogia funzionale e strutturale fra ippocampo umano e quello dei
topi consente studi sperimentali i cui dati, con molte cautele, possono
essere riferiti all’uomo, nel quale tali esperimenti sono impossibili.
Essi sono raffinati e complicati e qui si riassumono i risultati.
Uno
stimolo doloroso (una scarica elettrica in un piede) è applicato a topi
di 17 giorni, che, dopo circa mezz’ora, tornano nel luogo dello
stimolo, ovviamente dimenticato. Se è applicato a topi di 24 giorni,
rimane nella memoria e il luogo che provoca il dolore è evitato a lungo.
Nei primi topi, nonostante la dimenticanza, un nuovo stimolo provoca
una reazione più vivace della prima scarica dimenticata, che quindi in
qualche modo era registrata.
L’AI sarebbe dovuta quindi
principalmente ad un difetto del richiamo. Bloccando l’attività della
parte posteriore dell’ippocampo con elettrodi non c’è alcuna fissazione
del ricordo, anche nei topi di 24 giorni, a conferma del suo ruolo
chiave. Ogni passo del meccanismo della memoria è caratterizzato da
modificazioni chimiche dei recettori del glutammato nelle sinapsi
dell’ippocampo, diverse a seconda dell’età. Inducendo nell’ippocampo dei
topi di 17 giorni la stessa situazione chimica di quelli di 24 giorni,
il ricordo é pari a quello dei topi più anziani. Gli eventi che non
tornano alla mente sono nondimeno codificati in modo latente
nell’ippocampo ancora immaturo e influenzano, nel futuro, il
comportamento. L’AI nei mammiferi e nell’uomo sarebbe dovuta
sostanzialmente all’immaturità fisica e chimica dei circuiti
dell’ippocampo. Nei topi essi sono maturi a 24 giorni, nell’uomo verso
la fine del terzo anno di vita.
Questi dati potrebbero influenzare lo
studio dei meccanismi dell’apprendimento, cioè della memoria semantica.
Sono importanti anche per l’educazione: bambini piccoli, anche se
sembrano inconsapevoli, dovrebbero essere protetti da esperienze
traumatiche, non solo fisiche ma anche psicologiche. Facile a dirsi, ma,
per quel che succede ogni giorno nel mondo, quasi impossibile a farsi.
A. Rudenko, L-H.Tsai The ippocampus grows up, Nature Neuroscience 19,
1190-1191, 2016; A. Travaglia, R.Bisaz, E.S.Sweet, et al. Infantile amnesia
reflects a developmental critical period of hippocampal learning, Nature Neuroscience 19, 1225-1336,2016
Il Sole Domenica 27.11.16
Romanzo fisico
Oltre la spalla di Dio
Jérôme Ferrari si concentra sulla consapevolezza di Heisenberg su potenzialità e limiti del linguaggio
di Vincenzo Barone
Alla
fine di maggio del 1925 Werner Heisenberg, giovane promessa della
fisica teorica, è colto da una violenta allergia da polline. Per
superarla si rifugia a Helgoland, una piccola isola brulla nel Mare del
Nord, portandosi dietro gli appunti su cui sta lavorando e il Divano
occidentale-orientale di Goethe. Nei dieci giorni successivi, in
quell’angusto e remoto pezzo di terra privo di vegetazione nasce la
meccanica quantistica. È l’episodio evocato nel folgorante incipit
dell’ultimo romanzo di Jérôme Ferrari (già vincitore del Premio Goncourt
2012), Il principio: «A ventitré anni, su quell’isolotto desolato in
cui non spuntano fiori, per la prima volta le è stato dato di guardare
oltre la spalla di Dio. Nessun miracolo, naturalmente, e in realtà
niente che somigliasse da vicino o da lontano alla spalla di Dio, ma per
riferire ciò che è successo quella notte possiamo scegliere soltanto,
nessuno lo sa meglio di lei, tra la metafora e il silenzio».
A
dialogare a distanza con Heisenberg è uno studente di filosofia (alter
ego dell’autore), che, alla vigilia della caduta del Muro di Berlino,
deve affrontare un esame universitario sulle opere filosofiche dello
scienziato tedesco. L’esame andrà male, ma il giovane, abbandonati gli
studi umanistici e diventato un uomo d’affari, proseguirà nella sua
frequentazione ideale del fondatore della meccanica quantistica,
continuando a interrogarlo e a confrontarsi con lui. Il racconto che ne
viene fuori ha una struttura discontinua, per balzi temporali, e non
potrebbe essere diversamente, dato che «la nuova fisica […] ha fatto
esplodere tutte le linee continue in una serie spezzata di avvenimenti
discreti separati da oscuri baratri» e «forse neanche la linea del tempo
è stata risparmiata». Saltando da uno stato quantico a un altro,
incontriamo gli Heisenberg succedutisi nel tempo: lo scienziato insigne e
celebrato, il patriota fedele alla Germania di Hitler, il leader del
progetto nucleare nazista, il prigioniero a Farm Hall (dove i fisici
tedeschi apprendono di essere stati battuti dagli americani nella corsa
alla bomba atomica). Fino al Werner Heisenberg precocemente invecchiato
del Dopoguerra, che riflette sul destino della scienza e dell’umanità:
memorabile, e splendidamente rappresentato, è il suo incontro con
Heidegger, nel 1953 a Monaco, dove i due – alla presenza di un altro
grande e discusso intellettuale tedesco, Ernst Jünger – riflettono sulla
tecnica (non più «prodotto di sforzi umani consapevoli», dirà
Heisenberg, ma «evento biologico su larga scala… per sua natura
sottratto al controllo dell’uomo»).
Oltre la spalla di Dio, nei
giorni di Helgoland, Heisenberg scopre che la realtà, nei suoi aspetti
più profondi, è inconcepibile nei termini della fisica tradizionale e
dell’esperienza comune; si rende conto, con la disinvoltura tipica della
giovinezza ma non senza una certa inquietudine, che «non rimangono
vestigia del mondo descrivibili nel linguaggio degli uomini, c’è solo la
forma pallida dei matematici, silenziosa e temibile, c’è la purezza
delle simmetrie, lo splendore astratto della matrice eterna». Due anni
dopo, tenta di rendere tutto ciò “visualizzabile” (anschaulich) con il
suo principio di “indeterminazione”, o di “incertezza” (Unbestimmtheit è
il termine originale tedesco), che dà il titolo al romanzo: la
posizione e la velocità di una particella (e altre coppie di grandezze
coniugate) non possono essere misurate simultaneamente con assoluta
precisione; determinare esattamente l’una significa condannare l’altra
alla totale vaghezza. Non si tratta di un impedimento sperimentale, ma
di un limite intrinseco della natura e degli stessi concetti che usiamo
per rappresentarla: una scoperta difficile da esprimere a parole, che
«si rende di colpo comprensibile in un’equazione talmente semplice e
concisa da mascherare la propria tossicità».
Sarebbe stato comodo, ma
certamente banale, costruire una narrazione attorno alle tante
suggestioni che parole come “indeterminazione” o “incertezza”
(incastonati peraltro nella più enigmatica delle teorie fisiche) possono
suscitare. Ferrari è scrittore troppo raffinato per cadere in questa
trappola; né d’altronde si può pensare che il mondo degli atomi straripi
a tal punto da scolorire e rendere sfumato tutto, compresi i pensieri,
che «possono essere perfino contraddittori, ma non sono indeterminati».
Il principio non è lo svolgimento di una metafora, ma un discorso sulle
metafore, come unica alternativa che si offre a chi, guardando in fondo
alle cose, «si rifiuta di risolversi al silenzio». Il vero tema del
libro, in altri termini, è il linguaggio. Heisenberg è lo scienziato che
più di qualunque altro ha inteso la propria ricerca – in maniera
costante e sistematica – come un’esplorazione delle potenzialità e dei
limiti del linguaggio, e il romanzo di Ferrari, sofisticato come il suo
soggetto, e tuttavia ricco di pathos e di umanità, ce lo ricorda molto
bene.
A Gottinga, in occasione del loro primo incontro, Bohr spiega
al giovanissimo Heisenberg, ancora studente, che la sua vocazione di
fisico è anche una vocazione di poeta, perché nel mondo degli atomi il
linguaggio va usato come nella poesia, per creare immagini e stabilire
connessioni. Heisenberg capirà presto che non si può pretendere che la
realtà si lasci «ammansire dai concetti familiari del linguaggio degli
uomini» e che bisogna pertanto, come fanno i poeti, «superare
all’infinito le risorse della lingua per dire ciò che non può essere
detto». Le pagine più affascinanti del suo saggio filosofico del 1942
rimasto inedito, Ordinamento della realtà, sono dedicate proprio a
questo tema. Ogni conoscenza, osserva Heisenberg, ha un carattere
“oscillante” tra due estremi complementari e simultaneamente
irrealizzabili: la precisione dei concetti e la loro pregnanza, la
concatenazione logica e la vivezza della parola, l’idealizzazione e la
realtà. Alla fine, delle cose ultime non si può che parlare per
metafore, o con l’astrazione matematica, anch’essa in fondo una sorta di
metafora.
Recitano i versi del mistico sufi Al Niffari, posti in
esergo al romanzo: «Tra la parola e il silenzio c’è un istmo in cui si
trovano la tomba della ragione e la tomba delle cose». È il territorio
in cui Heisenberg si è inoltrato con il suo principio e, in un certo
senso, lo scenario di tutta la sua vita, che Ferrari ci restituisce in
forma narrativa con grande sensibilità.
Jérôme Ferrari, Il principio , trad. di A. Bracci Testasecca, Edizioni e/o, Roma, pagg. 144, € 14
Il Sole Domenica 27.11.16
Post-verità
Cinquanta sfumature di né vero né falso
di Paolo Legrenzi
L’Oxford
Dictionary si arricchisce ogni anno di una nuova parola. Nel 2016 ha
scelto «post-truth», un termine che descrive il nuovo mondo del
«dopo-verità». Il termine non allude alle panzane dei politici. Da
sempre, in occasione di uno scontro acceso, volano molte frottole.
Stefano Pivato ha ricostruito nel saggio Quando i comunisti mangiavano i
bambini la storia di quella che probabilmente è l’invenzione più
riuscita della propaganda anti-comunista nelle elezioni del 1948. Nel
manifesto un bimbo indifeso si rivolge al padre: Papà salvami!
La
post-verità è altra cosa. Abbiamo a che fare con la creazione di un
fatto preciso che si presume accaduto e documentabile. Ma è post-vero,
nel senso che è solo verosimile. A nessuno importa controllare se è
falso. In questo senso il post-vero è inattaccabile perché è anche
post-falso. Un caso recente mostra come funzionano le cose. La storia
inizia a Austin, in Texas, quando Eric Tucker, alle 8 di sera del 9
novembre, mette su Twitter la foto di un autobus e commenta: «Le
proteste anti-Trump non sono così spontanee come sembra. Ecco l’arrivo
dei partecipanti». In quel momento solo 40 persone seguono i messaggi di
Tucker. Sapendo della protesta nella sua città, e trovata una foto su
Google, Tucker suppone (in buona fede, dice lui) che l’autobus sia
quello usato dai dimostranti (in realtà si tratta di partecipanti a una
conferenza). Il giorno dopo, alle 12.49, l’immagine compare sul sito di
Trump. In poco tempo la notizia rimbalza 16mila volte su Twitter e
350mila volte su Facebook. La compagnia degli autobus smentisce. Eric
Tucker, interpellato dai giornalisti, spiega: «Ero rimasto colpito
dall’immagine degli autobus e sapevo delle proteste». Ammette però: «Non
ho visto le persone con i miei occhi». Trump commenta: “Molto
scorretto. I professionisti della protesta incitati dai media”. A quel
punto Tucker toglie la notizia dal suo sito. Troppo tardi. La valanga
procede. A mezzanotte Tucker rimette sul sito la foto con la scritta:
FALSO. Riceve solo 29 risposte. Nessuno gli bada più. Dopo una settimana
i suoi seguaci sono diventati 980 e Tucker, ingenuo, confessa:
«Cercherò in futuro di fare affermazioni meglio documentate«. Tucker non
conosce le regole con cui funziona l’attenzione, selezionata
dall’evoluzione naturale per essere risucchiata da aspettative e schemi
già predisposti.
In questa storia si manifesta tutta la nuova potenza
della rete, ma ci sono anche tracce d’antico. Gaetano Kanizsa, il
fondatore dell’istituto di psicologia di Trieste, nel 1952 presenta a 23
studenti di una scuola di assistenti sociali un test che consiste nel
tracciare uno scarabocchio senza mai staccare la matita dal foglio. Si
dice che la forma dello scarabocchio permette una diagnosi di
personalità. In realtà Kanizsa presenta la stessa descrizione di
personalità a tutti i partecipanti. È uguale, ma è fatta bene, in modo
apparentemente circostanziato: la maggioranza dei partecipanti vi si
ritrova. Paolo Zordan, nel 2000, ripete l’esperimento con 28 studenti
del quinto anno di una facoltà di psicologia. Tutti gli studenti, tranne
uno, credono che la diagnosi sia aderente, non inventata. Credono
perché desiderano credere. E desiderano credere perché vogliono
diventare psicologi clinici. Questo meccanismo di auto-inganno, per lo
più inconsapevole, oggi riesce a nutrirsi delle miriadi d’informazioni
presenti in rete. Una persona sceglie quelle che le danno ragione e può
capitarle di innescare gruppi di seguaci.
La quintessenza dell’incapacità di pensiero critico, la totale mancanza di buona logica.
Chiamato
in causa, il co-fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, risponde: «Non
siamo arbitri della verità!» (come fare con 1.8 miliardi di
utilizzatori?).
Il Sole 27.11.16
XVI secolo
Lepanto, libertà e vendetta
La battaglia pose fine al giogo di 12mila schiavi cristiani che spezzarono le catene
e compirono razzie e uccisioni di ottomani, in concorrenza con i soldati della loro fede
di Noel Malcolm
La
battaglia si concluse nel tardo pomeriggio. Man mano che il
combattimento scemava e le nubi di fumo pungente cominciavano a
diradarsi, uno spettacolo di enorme devastazione accolse i
sopravvissuti. Per usare le parole di Ferrante Caracciolo, «il mare era
pieno d'huomini morti, di tavole, di vesti, d'alcuni Turchi, che
fuggivano a nuoto, d'altri che affogavano, di molti fracassi di
vascelli, che ardevano, & altri che andavano a fondo». Bartolomeo
Sereno tratteggiò un'immagine simile: tra i relitti in fiamme, l'acqua
era «piena di giubbe, di turbanti, di carcasse, di frecce, di archi, di
tamburi» e altri oggetti, oltre a una gran quantità di uomini, ancora
vivi, ma morenti a causa delle ferite, che i soldati cristiani finivano a
«colpi di archibugiate e di zagagliate». Alcuni dei soldati e marinai
ottomani che riuscirono a nuotare fino alle navi cristiane e ad
attaccarsi alle loro fiancate si videro tagliar via le mani, mentre
altri furono tirati a bordo nella speranza di ottenere un riscatto o di
ricavarne dei soldi vendendoli come schiavi.
Per molti sulle galee
ottomane, d'altro canto, la fine della battaglia significò la libertà
tanto agognata: furono liberati più di 12.000 schiavi cristiani. Alcuni
erano donne e bambini, catturati durante i raid dei contingenti ottomani
nei territori veneziani nella prima parte dell'anno – tra loro gente di
Dulcigno e Antivari, che era stata trattenuta infrangendo gli accordi
stipulati al momento della resa di quelle città. Molti erano schiavi
sulle galee, che sedevano incatenati ai loro banchi, in condizioni
drammatiche, spingendo le navi con i remi; di questi, molte migliaia
avevano fatto parte della flotta sin da quando era salpata da Istanbul
all'inizio della campagna, ma molti erano stati acquisiti con le razzie,
andando a rimpolpare i ranghi delle galee, decimati dalle malattie e
dalle diserzioni. Come afferma un cronista del tempo, «quando udirono il
grido ‘Vittoria! Vittoria!', spezzarono le loro catene e, con le armi
che erano state abbandonate dagli ottomani, causarono caos e morte,
vendicandosi di tutti gli abusi e le crudeltà subite». Se riuscivano a
uccidere quel che restava dei soldati e dell'equipaggio ottomano, il
passo successivo era quello di setacciare la galea – e gli indumenti
degli ottomani morti – alla ricerca di oggetti preziosi. In questa
operazione però dovevano vedersela con la concorrenza dei soldati
cristiani, che si riversarono sulle navi nemiche in caccia di bottino.
[…]
In queste circostanze accadde il peggior incidente di tutta la
storia della battaglia di Lepanto. Tra gli schiavi sulle galee ottomane,
c'era l'arcivescovo Giovanni Bruni che, come molti del suo gregge, si
era vista negare la libertà promessa. I nuovi padroni erano ben
consapevoli del suo status, ma sapevano anche che si era opposto con
decisione alla resa di Antivari, per cui avevano deciso di umiliarlo
pubblicamente mettendolo a remare sul banco di una galea (insieme al
nipote Nicolò, il comandante degli stradioti di Dulcigno). Fu su quella
galea che Giovanni e Nicolò andarono incontro alla morte. Una relazione
veneziana prossima agli eventi affermava che erano stati «ammazzati per
mano de Turchi»; un resoconto più tardo, inviato ai gesuiti a Roma,
diceva che erano stati entrambi giustiziati dagli ottomani mentre ancora
infuriava la battaglia. In realtà furono uccisi da soldati cristiani.
Alla fine del XVII secolo dicerie su questo fatto erano trapelate nella
regione: l'arcivescovo di Skopje scrisse che «nel primo assalto» Bruni
era stato decapitato da alcuni soldati che lo avevano preso per un
ottomano. Più tardi, la tradizione di famiglia di un nobile dalmata
raccontava la stessa storia: Bruni era stato ucciso per errore «al
momento in cui la galea fu presa». La realtà era però anche peggio.
Questo
testo è tratto dal libro di Noel Malcolm, Agenti dell’impero.
Cavalieri, corsari, gesuiti e spie nel Mediterraneo del Cinquecento,
traduzione di Aglae Pizzone, Hoepli, Milano, pagg.578, € 39,90, da
domani in libreria
Il Sole Domenica 27.11.16
I 70 anni di Emilio Gentile
Il nostro storico più tradotto
di Raffaele Liucci
Le
prime tracce di Emilio Gentile nella storia d’Italia sono riportate nel
diario di Giuseppe Prezzolini. Il 20 agosto 1965, l’allora
ottantatreenne fondatore della «Voce» annotava di aver conosciuto «un
giovanissimo studente di liceo della provincia di Campobasso. Mi mandò
un suo compito su Dante dandomi del tu! Gli risposi che poteva darmi del
tu, del voi e del lei, non avrebbe cambiato nulla delle nostre
relazioni». L’8 novembre, dopo aver pranzato con lui, il burbero
Prezzolini confesserà di aver «concepito stima e simpatia» per quel
volenteroso virgulto: destinato a diventare non soltanto suo «intimo
amico e collaboratore», come ricorderà dodici anni più tardi, ma anche
uno storico di fama internazionale, il nostro contemporaneista più
tradotto nel mondo. Dagli studi sul «culto del littorio» a quelli sulle
«religioni politiche», lo sguardo di Gentile ha aperto nuovi orizzonti
storiografici e antropologici per comprendere la nostra inquietante
modernità, spesso in balia di miti autodistruttivi. Senza dimenticare le
sue ricerche di storia culturale della Grande Guerra e quelle,
apripista, sul problema dell’Italia nazione difficile, avviate negli
anni Ottanta, quando il tema era piuttosto negletto.
Prezzolini
resterà una stella fissa nel pantheon di Gentile, tanto che il
professore della Sapienza sta ancora lavorando, ormai da decenni, alla
sua biografia “definitiva”, frutto di lunghe ricerche in archivi
italiani ed esteri. Un tomo che coronerà le sue indagini sull’opera
dell’intellettuale fiorentino, cui ha dedicato fra l’altro il libro
d’esordio del ’72 e una fortunata antologia della «Voce», curata insieme
allo stesso Prezzolini nel ’74. Sarebbe però fuorviante definire
Gentile un prezzoliniano di stretta osservanza. Del «vociano» ha sempre
ammirato l’intraprendenza culturale, l’indipendenza, «l’atteggiamento
disperato verso la vita». Ma Prezzolini fu anche uno schietto
antidemocratico (soprattutto nella seconda metà della sua esistenza,
trascorsa quasi sempre all’estero) e un «antitaliano» un po’ inacidito.
Il che non può certo dirsi di Gentile: autore di preoccupati volumi e
interventi sullo sfilacciarsi del nostro sentimento nazionale e sulla
fragilità degli istituti democratici.
Oltre a Prezzolini, gli altri
due suoi grandi interlocutori sono stati Renzo De Felice (1929-96) e
George L. Mosse (1918-99). Fu proprio grazie a Prezzolini se Gentile
entrò in contatto con De Felice, il quale lo aiutò a muovere i primi
passi nell’università, come studioso di storia contemporanea, dopo il
primigenio entusiasmo per il medioevo. Quando sotto la sua ala
protettiva il giovane storico pubblicò nel 1975 una monografia
pionieristica sulle «origini dell’ideologia fascista» (ora nel catalogo
del Mulino), il professore torinese Guido Quazza lo accusò di mirare
«sostanzialmente alla riabilitazione del fascismo». Erano gli anni delle
feroci polemiche fra «defeliciani» e «antidefeliciani». Questi ultimi
in genere negavano al fascismo ogni profilo culturale e ideologico,
dipingendolo come pura barbarie. Ma l’accusa di Quazza era davvero
surreale, anche alla luce dei successivi libri sfornati dallo studioso
molisano.
Se c’è infatti uno storico che abbia restituito un’immagine
implacabile del fascismo, è stato proprio Gentile. Dalle sue pagine
l’Italia del ventennio spicca come un Paese plasmato da un regime
opprimente e totalitario, capace di permeare con la propria ideologia
ogni minuscolo anfratto della società. Una prospettiva terrificante, per
chiunque abbia a cuore l’autonomia dell’individuo, figlia
dell’illuminismo. Gentile spinge il lettore a queste conclusioni senza
esibire alcun moralismo, ma cercando di calarsi nel proprio oggetto di
studio, ossia nel mondo mentale dei protagonisti di allora e nel loro
disegno di forgiare un Uomo e uno Stato nuovi. Un progetto concreto, da
lui ricostruito non soltanto nella liturgia, ma – va sottolineato –
anche nella prassi quotidiana: violenta, soffocante, inesorabile. Con
buona pace della vulgata dolciastra che, per usare le parole dello
stesso Gentile, ha oggi «defascistizzato il fascismo», svuotandolo dei
contenuti antidemocratici e razzisti.
A De Felice, «storico» e anche
«personaggio», Gentile ha dedicato nel 2003 un denso volumetto, grato ma
non agiografico. Se ci furono fra loro delle disparità (dalla
freschezza di scrittura al giudizio sulla natura più o meno totalitaria
del regime), queste non intaccarono la profonda stima reciproca. Gentile
ha poi ritratto in una monografia del 2007 (Carocci) anche il suo terzo
sodale, il grande storico tedesco naturalizzato statunitense Mosse, con
cui intrattenne «una lunga amicizia intellettuale». Sarebbe tuttavia
improprio circoscrivere Gentile a «erede» di Mosse e considerare Il
culto del littorio (Laterza, 1993), il suo lavoro più iconico, una
versione italiana del celebrato libro del tedesco, La nazionalizzazione
delle masse (1974). Accomunati dalla curiosità per l’irrazionalismo
politico e i suoi riti, i due studiosi hanno scelto un approccio
diverso. Mosse più interessato ai risvolti culturali, Gentile attratto
anche dalla dimensione politica e organizzativa (si vedano i suoi studi
sul rapporto fra partito e Stato nel regime mussoliniano). Inoltre,
Mosse e Gentile hanno affrontato contesti storici differenti. Il nazismo
giunse al culmine di un processo secolare di nazionalizzazione delle
masse, mentre il fascismo creò quasi ex novo «una religione laica
incentrata sulla sacralità della nazione». È questo il succo
dell’innovativa interpretazione di Gentile, suffragata da una ricca
messe di reperti archivistici e iconografici. In un certo senso, la sua
metodologia storiografica riflette una sorta di sintesi hegeliana fra De
Felice (concentrato sui capillari spogli d’archivio) e Mosse (propenso
ai grandi affreschi).
Per festeggiare i primi 70 anni del professore
emerito della Sapienza, gli allievi hanno preparato una silloge di studi
in suo onore, intitolata Il primato della politica nell’Italia del
Novecento. Il XX fu il secolo della politica, ma fu anche il secolo in
cui questo primato conobbe le sue degenerazioni più esiziali, come
documentato dai lavori di Gentile. Ecco dunque alternarsi una serie di
temi collaterali: la fortuna nell’Italia liberale del pensatore
vittoriano Thomas Carlyle, poi rivendicato dal fascismo alla stregua di
un proprio precursore (Lorenzo Benadusi); l’Istituto di Studi Romani
sotto il regime (Donatello Aramini); le parole e i discorsi del fascismo
(Alessandra Tarquini); i fasci italiani all’estero (Fabrizio Soriano);
il culto di Palmiro Togliatti (Pierluigi Allotti) e il mito politico
nella cultura della Dc (Paolo Acanfora). Non stupisca l’ampiezza
dell’arco temporale. Come ci ha insegnato Gentile, il fascismo fu la
manifestazione di un fenomeno ben più ampio, nel quale la passione
politica non può essere ridotta soltanto a discorso o a ideologia, ma
diventa un immaginario collettivo, replicabile in ambiti diversi. Per
questo il culto di Togliatti rievoca quello del duce, mentre la
sacralizzazione della politica fiorita sotto il regime littorio sarà
rimasticata dalla cultura democristiana.
Il Sole Domenica 27.11.16
Due o una sola camera?
Costituente, dibattito istruttivo
di Sabino Cassese
Il
leader socialista Pietro Nenni, all’Assemblea costituente, si pronunciò
contro il bicameralismo sostenendo che esso costituiva una minaccia per
la funzione legislativa, potendo bloccare qualsiasi legge. Un altro
socialista, Lelio Basso, si pronunciò contro una seconda camera composta
di rappresentanti di interessi economici e sociali. Emilio Lussu fu
ancora più critico, sostenendo che il Senato fascista era stato «una
stalla» e che una seconda camera sarebbe stato un «duplicato vano», «una
specie di dama di compagnia». Alberto Giacometti, anch’egli socialista,
affermò, ribattendo alla critica per cui una camera unica avrebbe
portato quasi inevitabilmente alla dittatura di un uomo, che la seconda
camera era «la Camera della paura».
Non furono da meno i comunisti,
alla Costituente, nel criticare il bicameralismo. Un deputato Pci,
Vincenzo La Rocca, osservò che «o il Senato esprime la stessa volontà
della Camera dei deputati e non serve a niente; o esprime una volontà
diversa, e allora una delle due camere riflette meno fedelmente
dell’altra la volontà del Paese». Il comunista Gullo si battette per
«evitare un inutile doppione». Infine, Togliatti osservò che quelle sul
bicameralismo erano «norme ispirate dal timore».
Per misurare la
distanza delle posizioni della sinistra rispetto a quelle della
Democrazia Cristiana, basti ricordare che Umbero Tupini, presidente
della prima sottocommissione, quella che doveva redigere la prima parte
della Costituzione, pensava che il bicameralismo dovesse «integrare e
rendere più sicura la democrazia».
Queste e altre opinioni critiche
della sinistra nel corso del dibattito parlamentare sulla Costituzione
sono ora raccolte nel volume in due tomi, a cura di Gian Luigi Capurso,
che raccoglie gli interventi all’Assemblea costituente dei parlamentari
socialisti e comunisti, interventi che spaziano su tutti i tempi
principali della Costituzione, ma che riguardano principalmente i
diritti sociali, i rapporti Stato – Chiesa, la magistratura, le
autonomie e la scuola, nonché il tema, ridiventato d’attualità, del
bicameralismo. Questo volume fa seguito ad altri due volumi, anche essi
in due tomi, che raccolgono il primo tutti i Quaderni del Partito
d’Azione, l’altro una scelta degli articoli pubblicati da «Cronache
sociali» (la rivista di Dossetti). In questo modo, la casa editrice ha
contribuito a ricostruire il dibattito pre-costituente e costituente
sulla Costituzione.
La lettura di quel dibattito fa emergere due
punti importanti. Il primo riguarda le rispettive posizioni di
socialisti e comunisti e di democristiani. Ora, i primi erano fortemente
contrari alle due camere, che in un primo momento erano però
considerate come corpi differenziati, con investiture e composizione
diverse. La ragione era che così si poteva falsare la volontà popolare.
Emerse poi il compromesso, quello di avere due camere sostanzialmente
simili, che potessero riflettere nello stesso modo l’elettorato. Così
Togliatti e De Gasperi furono ambedue soddisfatti, meno la sinistra
democristiana, Dossetti e Lazzati, che erano monocameralisti e furono
convinti da De Gasperi a non opporsi all’altra tesi.
Il secondo punto
riguarda le radici storiche del dibattito tra monocameralisti e
bicameralisti, che trovano echi in molti interventi socialisti. Il
dibattito ebbe origine con la Rivoluzione francese, quando Sieyès si
oppose al bicameralismo spiegando che questo codificava la divisione
della società in classi e propose un sistema di garanzie che prefigurava
un controllo di costituzionalità delle leggi. Il problema si affacciò
nuovamente nel 1848, quando la commissione per la Costituzione venne
chiamata a decidere, optando per il monocameralismo. Ne dette un
resoconto un autorevole membro della commissione, Alexis de Tocqueville.
L’argomento
di Sieyès ridiventa attuale, ora che si sono diffuse giustizia
costituzionale e corti costituzionali e, accanto a queste, altri
legislatori, come quello europeo e quelli regionali.
Autori vari, La
rivoluzione, la Costituzione. Quello che il movimento socialista voleva
nell’Assemblea costituente, vol. I, I principi fondamentali, vol. II
L’edificazione della Repubblica , a cura di Gian Luigi Capurso, Il
settimo libro, Gorgonzola, pagg. 255 e 263, € 36