domenica 27 novembre 2016

CULTURA

IL “PAPA NERO”:
Corriere La Lettura 27.11.16
Non possiamo rassegnarci a questo mondo di ingiustizie
Creatività: significa uscire dagli schemi: dev’essere questa l’ambizione di noi creature
Dobbiamo avere il coraggio di pensare qualcosa che non è stato ancora pensatoArturo Sosa Abascal è stato da poco eletto trentesimo successore di Sant’Ignazio di Loyola a capo della Compagnia di Gesù, il cosiddetto Papa nero, primo non europeo, primo latino-americano, primo mentre regna un pontefice gesuita. Venezuelano, 68 anni, annuncia in questa intervista con «la Lettura» le radici della nuova missione della Chiesa. «Francesco mi ha detto: sii coraggioso»
intervista di Luigi Accattoli
qui
http://issuu.com/segnalazioni.box/docs/il_papa_nero?workerAddress=ec2-54-175-60-246.compute-1.amazonaws.com


Corriere La Lettura 27.11.16
Destra batte sinistra 2-0
I liberisti creano i poveri, i populisti ne cavalcano l’ira
E gli eredi della socialdemocrazia non toccano palla
di Michele Salvati


Semplificando molto e astraendo dalla grande varietà di casi nazionali, le destre sono due. C’è una destra liberale — in Italia diremmo liberista o mercatista — che sostiene i processi economici di globalizzazione e la concorrenza dei capitali dentro e fuori i confini di un singolo Paese. Essa è ostile non tanto allo Stato, ma alla sua interferenza in questi processi: che lo Stato intervenga attivamente per favorirli, per smantellare «difese corporative», è anzi visto con approvazione. E c’è una destra conservatrice, tradizionalista e comunitaria — la destra del «Dio, Patria e Famiglia» — che trae i suoi consensi proprio dagli sconvolgimenti sociali che un capitalismo senza freni produce: disoccupazione e precarietà, declino di intere regioni, peggioramento nella distribuzione del reddito.
Queste due destre ci sono sempre state, sino dagli albori del capitalismo moderno e della democrazia rappresentativa, a volte dando origine a un compromesso instabile nello stesso partito, a volte divise in partiti diversi e contrapposti. La divisione si manifesta quando le ragioni del mercato entrano in più forte conflitto con le ragioni della società: è allora che chi presta orecchio alle sofferenze sociali può trovare un facile consenso. Facile perché ancorato ai valori tradizionali di comunità ristrette, minacciate dal declino economico, da valori e atteggiamenti estranei ai loro modi di vita, dall’immigrazione.
Ciò è appena avvenuto negli Stati Uniti con la vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali, una vittoria della destra populista contro la destra liberale. E sta avvenendo in Europa con l’emergere o il rafforzarsi di partiti populisti, prevalentemente a destra nello spettro politico. Alle origini sta un fenomeno che nessuno ha studiato con maggiore profondità di Karl Polanyi, in un libro scritto poco prima della fine della Seconda guerra mondiale, La grande trasformazione : un libro che costituisce l’integrazione necessaria, sul piano storico-sociale, delle critiche di Keynes all’economia classica, ai razionalizzatori teorici del fondamentalismo di mercato. Come quelle di Keynes, le analisi di Polanyi avevano conosciuto un declino nella fase di maggior successo del neoliberismo e della globalizzazione, fino alla grande recessione del 2007-2008. E, come Keynes, Polanyi viene riscoperto in momenti di crisi: si veda il bel libro di Fred Block e Margaret Somers, The Power of Market Fundamentalism , non ancora tradotto in un Paese che pur traduce tutto. E allora si riscopre il fenomeno di cui dicevo, parte del grande lascito teorico di Polanyi: il «doppio movimento».
Una società non può stare insieme sulla base di soli rapporti di mercato: il tentativo di assoggettare a quella logica tutti i rapporti sociali, come avviene nelle fasi più dinamiche del capitalismo, è una utopia irrealizzabile e produce danni. Può produrre «contromovimenti» che vanno in direzione opposta, perché gli Stati, democratici o autoritari che siano, devono intervenire in difesa della coesione sociale, minacciata da una troppo radicale o troppo rapida alterazione delle condizioni di vita di gran parte dei cittadini. E questi contromovimenti, in circostanze internazionali avverse, possono sfociare in minacce serie alla democrazia liberale: così avvenne dopo la Prima guerra mondiale in molti Paesi, e solo l’interventismo keynesiano del secondo dopoguerra consentì di riconciliare il mercato con la democrazia.
Circostanze internazionali di forte conflitto inter-imperialistico concorsero a produrre gli esiti estremi che si realizzarono dopo la Prima guerra mondiale. Circostanze che, per fortuna, oggi non ricorrono. Ma il doppio movimento è ben visibile anche oggi e produce tensioni di cui, per ora e quasi ovunque, sembrano profittare soprattutto le destre. Anzi, sembra quasi che tra di esse si sia instaurato un perverso gioco di squadra. Prima la destra mercatista scatena gli spiriti animali del capitalismo sregolato, che poi creano crisi economiche e sofferenze sociali. A questo punto è la destra tradizionalista e nazionalista che prende la palla e indirizza l’opposizione sociale secondo i suoi valori e i suoi orientamenti: law and order , nativismo, xenofobia, opposizione ai valori liberali in fatto di sessualità e famiglia, ritorno all’isolamento comunitario.
Da questo gioco la sinistra sembra esclusa, salvo pochi casi eccezionali, come Podemos in Spagna e Syriza in Grecia. Anche i 5 Stelle in Italia? Staremo a vedere, perché sinora i 5 Stelle non si sono dichiarati, non hanno scelto il campo di gioco. Prima o poi lo dovranno però fare, anche se non averlo fatto ha loro consentito di raccogliere tutti gli scontenti. Ma l’aspirazione all’onestà non è un programma che risponda alle grandi sfide dei nostri tempi e non reggerebbe alla prova del governo.
Perché la sinistra non prende palla? Il motivo di fondo mi sembra questo: avendo rinunciato al grande programma utopico del suo lontano passato, avendo accettato un orizzonte capitalistico, l’unico programma al quale può ricorrere è quello socialdemocratico del passato recente, dei trent’anni gloriosi del secondo dopoguerra. Ma il grande successo politico di quel programma dipendeva anzitutto dal prevalere di condizioni di egemonia mondiale indiscussa degli Stati Uniti e, a Washington, dal predominio di forze politiche orientate a una liberalizzazione fortemente controllata: il regime di Bretton Woods è stato questo. E dipendeva inoltre da condizioni estremamente favorevoli alla crescita e all’occupazione nei Paesi inseriti nell’orbita americana, tutti alle soglie della rivoluzione industriale fordista-taylorista che già aveva avuto luogo negli Usa. Non è più così e anche Paesi che seguissero un orientamento socialdemocratico, nelle attuali condizioni internazionali di globalizzazione neoliberale, andrebbero incontro a una crescita assai più modesta e a un continuo sforzo per trasformare economia e istituzioni in modo sempre più efficiente e competitivo. Non certo una buona notizia per le regioni, le imprese e i lavoratori più deboli.
In queste condizioni sarebbe quasi un miracolo se la sinistra potesse prevalere da sola a livello nazionale. Contro gli orientamenti internazionali del capitalismo, essa può fare assai poco. Di più potrebbe fare in Europa, se l’Ue non fosse, sotto l’egemonia tedesca, una cinghia di trasmissione del neoliberismo che prevale a livello mondiale. E a livello nazionale la pressione dei movimenti populisti, che fanno leva sulle sofferenze, la rabbia e la domanda di protezione dei ceti più deboli, rimarrà molto forte: la loro offerta politica è ingannevole, ma semplice e non imitabile dalla sinistra, se questa non snatura del tutto i suoi valori. Un’alternativa possibile, non certo entusiasmante per i conflitti programmatici che essa provoca, è un’alleanza contro i populismi tra la sinistra socialdemocratica e le forze più moderate e liberali della destra. Questa alleanza funziona da tempo in Germania sotto la leadership della cancelliera Merkel e funzionerà in Francia con l’appoggio della sinistra a un candidato presidenziale della destra liberale. Col governo Rajoy la si tenta ora in Spagna. Con rapporti di forza invertiti sarà forse inevitabile adottarla domani in Italia.

Corriere La Lettura 27.11.16
Ma intanto cresce il riformismo liberale in America Latina
di Loris Zanatta


Chissà se lo tsunami sollevato dall’elezione di Donald Trump porrà precoce fine al nuovo ciclo politico che da qualche tempo fa capolino in America Latina; se porterà indietro le lancette della Storia e all’immagine rassicurante, che a fatica Obama ha ridato al suo Paese, sostituirà quella di una potenza arrogante; se vestirà i panni dell’Orco delle fiabe che tanto consenso porta alla retorica antiliberale dei populisti latinoamericani: gli stessi che oggi sono in crisi, dati il mesto declino kirchnerista in Argentina e il tracollo chavista in Venezuela. A occhio, è improbabile che ciò avvenga: non è un caso se l’onda di sinistra che attraversò l’America Latina un ventennio fa oggi rifluisce e non sarà l’elezione di Trump a spazzarne via le cause. Su una cosa, ammiratori e detrattori degli Stati Uniti vanno a braccetto: sovrastimano la capacità statunitense di influenzare i cicli storici dei vicini meridionali, perlopiù determinati da dinamiche interne.
Ciò non toglie che l’avvento di Trump complichi la vita dei governi latinoamericani, specie dei nuovi leader che popolano la scena politica. Il suo disprezzo per i latinos è un assist per chi intende giocare la sempreverde carta del nazionalismo antiamericano; idem l’annunciata ripresa dell’anacronistica crociata contro il castrismo; la sua carica a testa bassa contro il libero commercio suona a iattura per una regione che su di esso ha scommesso tanto e tanto ne ha beneficiato. Se a ciò si aggiungono il ciclo economico sfavorevole e la minaccia che aumenti il costo del denaro, non c’è da stupirsi che l’America Latina guardi sospettosa a Washington, pregando che tra il dire e il fare di Trump vi sia davvero il mare. Non a caso, per quanto la pigrizia di tanti osservatori ami ripetere che la regione abbia svoltato «a destra», nessun leader che di tale parte politica porta l’etichetta s’è mai sognato di auspicarne l’elezione. Anzi: da Macri in Argentina a Kuczynski in Perù, da Santos in Colombia a Peña Nieto in Messico, tutti hanno fatto il tifo per Hillary Clinton, talvolta ben al di là della prudenza. Come mai?
Per comprenderlo, e per comprendere perché l’odierno clima politico latinoamericano sfugga alle tradizionali collocazioni ideologiche lungo l’asse che dalla destra va alla sinistra, vanno considerati due fattori. Il primo è che da trent’anni l’America Latina è solcata da una sorta di guerra di religione tra paradigmi ideologici in conflitto tra loro, eretti a dogmi identitari: il neoliberalismo che imperò ai tempi del «Washington Consensus» e il populismo antiliberale, egemonico negli ultimi vent’anni. Il secondo fattore è più complesso e va spiegato: è che il populismo latino è differente dal populismo anglosassone; e diverse sono le conseguenze che produce. Come l’anglosassone, il populismo latino invoca un popolo puro ansioso di redenzione al cospetto di un establishment che, afferma, lo ha derubato della sovranità di cui è titolare. Fin qui non c’è differenza tra i due populismi: si tratta di fenomeni redentivi, come tali manichei e piuttosto rozzi nella loro semplificazione del mondo, ma potenti ed efficaci nel mobilitare il «loro» popolo contro una élite. A partire da tale base, però, i due populismi divergono, poiché diverso è il passato che evocano.
Il populismo anglosassone può essere assai radicale, come quello di Trump, ma nel suo passato non c’è un’utopia antiliberale, non c’è il sogno di ricostituire un’identità primigenia contraria alla democrazia liberale. Semmai il contrario: poiché nel passato degli Stati Uniti democrazia e libertà individuale sono sempre stati connessi, il populismo statunitense suole invocare una specie di iperliberalismo, il ritorno alle fonti di una democrazia che giudica distorta dal potere delle élite e minacciata dall’invadenza statale. Il populismo latino è ben diverso: evoca un passato mitico in cui il popolo era una comunità omogenea. Inconsapevole di ispirarsi così alle radici cattoliche della sua civiltà, il populismo latino addita nel liberalismo e nei suoi attributi filosofici e politici — divisione dei poteri, diritti individuali, pluripartitismo, mercato — la minaccia che grava sull’unità organica del popolo. Perciò è antiliberale fino al midollo e, quando si impossessa del potere, ambisce a rifondare l’ordine politico rinnegando la democrazia liberale.
Perché sono importanti tali fattori? Poiché è in reazione a essi che va inquadrata la comparsa, in vari Paesi latinoamericani, di una generazione politica che rifugge gli eccessi ideologici, le rigidità dei modelli economici prestabiliti, gli appelli enfatici al «popolo» e alla sua identità, la semplificazione dei problemi, le scorciatoie sia clientelari sia produttiviste, sia della spesa pubblica allegra sia del mercato fine a se stesso. Non è nemmeno una generazione, in realtà, dato che nulla lega il giovane sindaco di San Paolo all’anziano presidente peruviano, al milionario che guida l’Argentina, ai volti nuovi emersi nelle elezioni locali cilene, messicane, colombiane, nell’opposizione venezuelana. È semmai un fenomeno trasversale, post-ideologico, fondato su taluni assunti di base e alcune diagnosi condivise. L’assunto è che il dogmatismo ideologico non paga ed anzi lascia sul terreno macerie istituzionali. La diagnosi è che proprio nella qualità delle istituzioni risiede la chiave dello sviluppo economico e dell’inclusione sociale. Non c’è dubbio su ciò che urge: più innovazione e istruzione, maggiore produttività del lavoro, mercato più trasparente, lotta ad evasione fiscale e corruzione, riforma dell’amministrazione pubblica, tutela della sicurezza dei cittadini e garanzie giuridiche per la proprietà privata. Sono obiettivi tipicamente riformisti, che non si prestano a grandi narrazioni ideologiche, a epiche crociate che scaldano i cuori, ma coprono di fumo la prosaica realtà. E tutto nel rispetto della democrazia liberale, il tallone d’Achille dell’America Latina, quella su cui s’è spesso sorvolato in nome di valori superiori: la Giustizia, il Popolo, lo Sviluppo e così via. Pragmatismo e cultura istituzionale, qualità di cui la storia politica latinoamericana è stata carente, cercano oggi di farsi spazio.
È presto per dire se tale clima riformista sia più di un fuoco fatuo, se si spegnerà in fretta o darà vita a nuovi emuli nella regione. È un fenomeno ancora acerbo, indefinito, obbligato a muoversi tra poderosi ostacoli. La cultura politica cui fa appello è minoritaria in America Latina, talvolta ancora elitista. Reazioni corporative e rigurgiti populisti sono già all’ordine del giorno. Non solo: i tempi della politica, quelli necessari a costruire il consenso per le riforme, sono spesso troppo lunghi per le emergenze sociali impellenti. La sfida è enorme e la possibilità di farvi fronte varia radicalmente da Paese a Paese. Ma, più delle tradizionali infatuazioni ideologiche, è una via che l’America Latina dovrà percorrere per fare fronte ai suoi mali cronici.

Corriere La Lettura 27.11.16
Arendt, quanti equivoci su Marx
di Donatella Di Cesare


HANNAH ARENDT Marx e la tradizione del pensiero politico occidentale A cura di Simona Forti Con un saggio critico di Adriana Cavarero RAFFAELLO CORTINA Pagine 162, e 13,50
Bibliografia
Le Edizioni di Comunità pubblicarono nel 1965 Sulla rivoluzione di Hannah Arendt, riproposto nel 2006 da Einaudi (traduzione di Maria Magrini). Tra passato e futuro di Arendt, uscito nel 1970 da Vallecchi (traduzione di Marcella Bianchi di Lavagna Malagodi e Tania Gargiulo), venne riedito da Garzanti nel 1991. È uscito da poco in Francia Arendt et Heidegger di Emmanuel Faye (Albin Michel, pp. 560, e 29). Sulla «banalità del male»: Deborah Lipstadt Il processo Eichmann (traduzione di Maria Lorenza Chiesara, Einaudi, 2014); Bettina Stangneth, Eichmann vor Jerusalem (Arche, 2011; traduzione inglese: Eichmann before Jerusalem, Alfred A. Knopf, 2014

Le polemiche che Hannah Arendt ha suscitato in vita, e alle quali aveva quasi finito per abituarsi, non si sono mai interrotte e, anzi, con la pubblicazione degli scritti postumi, sono andate persino acuendosi. Contribuirà a riaccendere il dibattito anche il volume Marx e la tradizione del pensiero politico occidentale appena uscito per Raffaello Cortina. Si tratta di due testi: uno più breve, di carattere introduttivo, uno più lungo e sistematico, in cui Arendt punta a far emergere i nessi che legano Karl Marx a tutta la riflessione politica precedente, da Platone a Hegel. Furono redatti entrambi in occasione delle conferenze tenute all’Università di Princeton nell’autunno del 1953.
Esistono elementi totalitari nel marxismo? E in che modo potrebbe esserne responsabile Marx? Forse Arendt aveva intenzione di scrivere un volume su questo tema — avverte Simona Forti che ha curato il volume. È ovvio, d’altronde, attendersi una risposta dalla filosofa che ha sostenuto la tesi dei due totalitarismi, sottolineando l’affinità tra comunismo sovietico e nazismo. Ripresa da Martin Heidegger, e rilanciata nell’America del maccartismo, questa tesi, rispondente allo spirito della «guerra fredda», non regge né sotto il profilo storico né sotto quello filosofico ed è stata perciò oggetto di numerosissime critiche nella filosofia degli ultimi decenni — da Günther Anders a Jacques Derrida. Gli echi polemici non si sono mai spenti. Se ne trova traccia anche in volumi pubblicati di recente, come quello di Tama Weisman Hannah Arendt and Karl Marx (Lexington Books, 2013).
Non si può imputare a Marx la deriva dello stalinismo — sostiene Arendt. «Chiunque tocchi Marx, tocca la tradizione del pensiero occidentale». E questo perché la linea che unisce Aristotele a Marx è più diretta di quella che unisce invece Marx a Stalin. Ma la posizione di Arendt appare più ambigua e complessa, come emerge nel confronto tra Aristotele e Marx su cui riflette Adriana Cavarero nella postfazione. In un celebre passo Aristotele definisce l’uomo un «animale politico che possiede il lógos», che ha la parola, e perciò può partecipare alla vita politica della pólis, della città. Secondo Marx invece l’uomo è l’animale che lavora e anzi, su questo animal laborans è incentrata la sua opera.
Ecco, dunque, per Arendt, la grandezza, ma anche il limite di Marx: aver visto nel lavoro ciò che distingue gli umani dagli animali. Grandezza perché Marx, sulla scia di Hegel, comprende che, nel mondo che va inaugurandosi con il capitalismo, il lavoro diventa l’asse centrale della vita e tutti sono destinati a diventare lavoratori. Il limite sarebbe, però, nel modo di intendere il lavoro che, se da un canto viene glorificato — e l’erede di questa glorificazione è l’Unione Sovietica —, dall’altro viene visto come una faticosa costrizione. Quindi per Marx «non la libertà, bensì la necessità è ciò che rende umano l’uomo». E di liberazione si potrà parlare solo quando l’umanità sarà giunta alla fase finale della storia, solo quando sarà stata prodotta, con lacrime e sangue, la società senza classi, il regno della libertà. Non si tratta, per Arendt, solo della contraddizione tra la necessità ineludibile e la libertà sempre rinviata. Marx universalizza il lavoro, intravvede e profetizza una «società dei lavoratori», dove le differenze vengono abolite, ma dove sarebbe appunto il lavoro ad accomunare, non la parola. Proprio perché concepisce una sfera politica dove viene meno il ruolo decisivo del lógos, aprirebbe la strada al totalitarismo.
In questa interpretazione Marx appare un Giano bifronte che per un verso è rivolto alla tradizione della filosofia politica occidentale, per l’altro guarda già sinistramente al dominio totalitario. Comunque la si pensi, per nulla convincente è l’immagine di un Marx aristotelico tardivo che situa in un futuro indefinito la vita della pólis greca. Piuttosto è Arendt che riprende una concezione metafisica dell’essere umano inteso come «animale razionale», corpo e anima, che Heidegger aveva già criticato nella sua Lettera sull’«umanismo». Perché l’umanità dell’uomo non può essere ridotta a una animalità, seppure contraddistinta dalla parola. L’essere umano va ripensato. E Heidegger lo fa anche attraverso Marx, in particolare il giovane Marx dei Manoscritti economico-filosofici del 1844.
Poco convincente è anche la tesi, che Arendt ha sostenuto nel saggio La tradizione e l’età moderna (contenuto nel volume Tra passato e futuro, edito da Garzanti), secondo cui Marx pensa la politica solo come dominio e glorifica la violenza. È probabile che il dibattito intorno ad Arendt, che ha già toccato questi temi, si concentrerà ancor più, nel prossimo anno, sul nodo filosofico-politico della rivoluzione. Com’è noto Arendt ha scritto un libro che è ormai un classico Sulla rivoluzione (pubblicato da Einaudi). Il suo giudizio, però, sul fallimento della rivoluzione francese e di quella russa, e sul successo di quella americana, è sempre più nel mirino. La discussione sul periodo del terrore e sulla «dittatura» di Robespierre, in cui Arendt vede a torto il preludio di quella bolscevica, è stata avviata in Francia dal libro di Sophie Wahnich La liberté ou la mort, del 2003, a cui hanno fatto seguito molti studi critici.
     Arendt, insomma, non smette di far parlare di sé. Aumentano a ritmo serrato le pubblicazioni che fanno ormai del suo pensiero un punto di riferimento imprescindibile nella filosofia continentale. Le direzioni sono soprattutto due. La riflessione sui fenomeni globali, a partire da quelli dei profughi, della cittadinanza, dei diritti umani, prende le mosse dalle sue idee. Dall’altra parte va assumendo contorni sempre più nitidi il profilo di una filosofa che si sottrae a ogni etichetta e a ogni classificazione e che è stata una apolide del pensiero. Riesce perciò difficile seguire Emmanuel Faye che, nel suo ultimo libro Arendt et Heidegger, scritto dopo i Quaderni neri, intenta un nuovo processo, questa volta non contro Heidegger, bensì contro la sua allieva, rea di non aver preso abbastanza le distanze dal maestro e di trovarsi perciò in una insanabile contraddizione rispetto alla posizione assunta contro Adolf Eichmann.
Proprio la «banalità del male» continua a essere uno dei temi caldi. Non solo perché il suo ritratto di Eichmann appare sempre più datato. Oggi sembra davvero discutibile ridurre le motivazioni ideologiche e politiche come fa Arendt: «L’ideologia non ha avuto, credo, una grande importanza. Questo mi sembra l’aspetto decisivo». Nel suo libro Eichmann vor Jerusalem, pubblicato prima in Germania, poi negli Stati Uniti, la storica Bettina Stangneth ha aspramente criticato questa visione. Risponde all’esigenza di liberare quella vicenda dall’ombra di Arendt il saggio Il processo Eichmann di Deborah Lipstadt (Einaudi). Ma le questioni aperte sono in particolare due. Se Eichmann era solo un burocrate, la rotella di un ingranaggio, come avrebbe potuto essere condannato? Arendt parla della «scandalosa stupidità» di Eichmann, della sua «assenza di pensiero», della incapacità di «mettersi nei panni degli altri». Il rischio, purtroppo, è stato ed è quello di aver aperto le porte a una parola «banalità», spesso usata a sproposito, che ha finito non di rado per banalizzare la questione del male.

Corriere La Lettura 27.11.16
Sogni giovanili /1
Ero attratto dall’ignoto. Compreso il matrimonio
di Edoardo Boncinelli


I miei sogni si sono sempre tutti realizzati, fuori che quello di fare soldi, che però non era un mio sogno. E si sono realizzati perché non erano sogni. A 18 anni ne avevo due: sposarmi e fare lo scienziato, due cose un po’ legate fra di loro, perché leggevo che gli scienziati si sposavano presto. Mettere su famiglia era un mio pallino fisso; dicevo che un uomo non è un uomo se non ha una moglie e dei figli, ma non mi sentivo tanto sicuro delle mie forze, e ne ho dubitato fino all’ultimo. Tuttora mi congratulo con me stesso: ho trovato qualcuno che mi ha preso in considerazione. Dicevo anche che dovevo studiare per consegnare alla mia futura sposa un uomo ricco interiormente e valido. Di poter essere un buon padre, invece, non ho mai dubitato. Volevo poi essere uno scienziato, un uomo che scopre qualcosa di importante, nell’universo o dentro l’atomo. In realtà ho fatto il biologo, un’eventualità alla quale non ho mai pensato prima dei 27 anni. Ma l’ardore era lo stesso: rispondere a quesiti che mi incuriosiscono, ieri come oggi. Rubare all’ignoto e all’ineffabile qualche parola chiave per descrivere il mondo — il mondo che mi include e mi esclude –- giocandoci.

Corriere La Lettura 27.11.16
Sogni giovanili /2
Ingegneria, che passione Ma poi mi rapì Spinoza
di Giulio Giorello


Forse era perché, nato a Milano al finire della guerra, avevo visto rinascere la città dalle rovine delle bombe, con fatica ma con entusiasmo. O forse era colpa dei primi giochi che i miei genitori mi avevano regalato: scatole di costruzioni in legno con cui producevo curiose mescolanze di edifici assiri, greci e moderni; e poi confezioni sempre più sofisticate di «Meccano» per far nascere macchinari assai complicati (e forse inutili) che poi dovevo smontare, vite per vite, perché occupavano troppo spazio casalingo. Insomma, volevo diventare una via di mezzo tra l’architetto e l’ingegnere. Qualche notte sognavo di riprogettare perfino un’intera città, con grattacieli che bucavano le nubi e giardini ricchi di fiori e piante affascinanti. Al mattino mi risvegliavo troppo spesso con un senso di delusione: c’era sempre un qualche motivo per cui il progetto non aveva ben funzionato. Forse, prima di cambiare il mondo, si trattava di capirlo! La lettura del testo di un irregolare ebreo olandese, l’ Etica di Baruch Spinoza, finì col farmi preferire l’architettura delle idee a quella delle case. Così si spense tranquillamente il mio intenso «furore» architettonico e cominciò un’altra storia.

Corriere La Lettura 27.11.16
L’eresia di Michelangelo
La Tomba di Giulio II è stata da poco ripulita. Antonio Forcellino, restauratore, indagatore
dei misteri del Buonarroti, aiuta a fare il punto sugli indizi «luterani» dell’opera
di Emanuele Trevi


Roma, San Pietro in Vincoli. Non aveva tutti i torti quel tale che sosteneva che è la polvere la vera signora di questo mondo. Non tanto e non solo la polvere metaforica dei poeti e dei predicatori, ma quella che incombe e finisce per posarsi su ogni cosa, senza fare eccezioni per un panneggio o un volto scolpiti da Michelangelo. Fino al giorno in cui questi impalpabili ma implacabili «depositi incoerenti», come li chiama la scienza, combinati con l’umidità di certe stagioni dell’anno, rendono letteralmente invisibile anche il Mosè , con tutto il suo severo cipiglio patriarcale.
Erano bastati 15 anni dall’ultimo ed epocale restauro per occultare, con una specie di velo penitenziale, la bellezza strabiliante non solo del Mosè , ma delle altre statue del monumento funebre di Giulio II. Antonio Forcellino, in camice bianco, emerge dal ponteggio che negli ultimi mesi ha circondato, senza occultarlo completamente alla vista, questo capolavoro dalla storia lunghissima, accidentata e piena di indizi degni della fantasia di un romanziere dell’Ottocento. Il fatto è che quando la storia di un’opera è lunga come questa, e l’artista che la porta a compimento ha il carattere di Michelangelo, significati e fraintendimenti, ipotesi e scoperte si sommano e si accavallano riservando sorprese proprio là dove l’abitudine suggeriva che tutto ormai fosse stato scoperto, incasellato, catalogato.
Basta considerare nella sua estensione l’arco di tempo che separa il primo progetto, commissionato nel 1505 a Michelangelo dallo stesso Giulio II, al secolo Giuliano della Rovere, dal completamento dell’opera nel 1545. È naturale che in quarant’anni il progetto iniziale abbia subito tanti cambiamenti da renderlo irriconoscibile. All’inizio il monumento era addirittura destinato a un’altra chiesa, in seguito alla parete opposta a quella dove si trova. Ma il risultato finale non è il semplice frutto di casualità e compromessi, come la maggioranza degli storici dell’arte affermava in passato. Soprattutto a ridosso della sua conclusione, tra il 1542 (quando decide all’improvviso di escluderne i Prigioni ) e il 1545, il settantenne Michelangelo conferisce all’opera non solo la sua strabiliante armonia di forme in dialogo con le fonti di luce circostante, ma la carica di significati decisivi per la storia religiosa del tempo, facendone un vero crocevia di preoccupazioni spirituali e tensioni sempre più gravi tra l’ortodossia cattolica e le nuove idee luterane che prendono piede e si sviluppano anche all’ombra del Vaticano, fra Viterbo e alcuni cenacoli romani come la chiesa di San Silvestro al Quirinale, dove per qualche tempo si ascoltano prediche tutt’altro che ortodosse.
Le idee pericolose circolano ovunque, e dai torchi degli stampatori, in tutta Europa, vengono fuori libri che testimoniano di un’inaudita libertà di coscienza. La questione centrale che divide gli animi e riempie i libri proibiti e i documenti ufficiali degli inquisitori riguarda il destino del cristiano, di ogni singolo cristiano. Qual è il mezzo privilegiato per raggiungere la salvezza o, per usare un termine ancora più diffuso ai tempi, la propria giustificazione ? Sono le opere buone che lo salvano, conseguenza della sua fede, oppure l’intero messaggio evangelico culmina nell’invito a confidare solo nella fede in Cristo, il grande riscattatore? Nel 1545, c’era ancora chi credeva che lo scisma più grave mai vissuto dalla Chiesa potesse ricomporsi. Una costellazione di spiriti legati in varia maniera a Michelangelo. Ma i teologi e gli alti prelati, come Reginald Pole e Bernardino Ochino, presto costretti alla fuga da Roma, fanno da corona alla figura più affascinante del gruppo: Vittoria Colonna. Questa aristocratica dall’animo ardente e coraggioso, grande scrittrice in versi e in prosa e autentico temperamento mistico, eserciterà su Michelangelo un’influenza senza paragoni in tutta la lunga vita del maestro. E di conseguenza, anche sull’ultima e definitiva sistemazione del monumento funebre a Giulio II.
Il quadro storico è corrusco e grandioso, ma il filo che lega Michelangelo all’eresia è fatto di indizi anche minimi, come quelli che Antonio Forcellino insegue da molti anni, in un costante andirivieni fra i cantieri di restauro e gli archivi. Anche più delle testimonianze esplicite, possono contare le omissioni, o le calcolate bugie, nascoste tra le pieghe di una lettera. Il punto di vista rivelatore, osserva Forcellino, è molto spesso quello ostile, come lo si può desumere dai verbali dell’Inquisizione. Lungi dal profanare un’idea astratta di bellezza, l’investigazione minuziosa conferisce a quell’idea la sua vera sostanza. È come se ogni indagine mirasse sempre a quel punto difficilissimo del visibile in cui la forma si incontra col suo significato. Ma si tratta di un bersaglio mobile, che non coincide mai con tutto ciò che già si sapeva.
E guardando il Mosè appena restituito al suo originario splendore è difficile non pensare che l’autentica venerazione che Sigmund Freud nutriva per quest’opera sollecitò non solo il suo senso estetico, ma le sue proverbiali capacità di analisi e deduzione. E il saggio che dedicò al Mosè nel 1913, pubblicato in forma anonima per modestia, è ancora ricchissimo di profonde intuizioni. «Perché Freud — osserva maliziosamente Forcellino — non è uno specialista, dunque si accosta senza schemi preconcetti al capolavoro, ci vede quello che sa e vuole vederci». E questo sguardo libero approda subito a una grande verità: tutto è innaturale nella posa del patriarca, a partire dallo strano modo in cui sostiene con il braccio destro le Tavole della Legge. E chissà come avrebbe interpretato Freud, se ne fosse stato a conoscenza, quella torsione della testa di Mosè documentata da una precisa testimonianza. È un intervento ai limiti del prodigioso su una statua già scolpita: un azzardo che forse solo Michelangelo si poteva permettere, un capolavoro nascosto nel capolavoro.
Invece di fissare un punto davanti a sé, dopo questa capitale modifica, lo sguardo di Mosè, lievemente strabico, punta verso l’alto, alla ricerca della luce. Molti possono essere i motivi di questo ripensamento, ma una cosa è certa: guardando di fronte, gli occhi di Mosè si sarebbero fermati in eterno sull’altare, e soprattutto sulle catene di san Pietro, la preziosa reliquia che dà il nome («vincoli») alla chiesa stessa. Ma non è forse il culto e il mercato delle reliquie uno dei capisaldi della rivolta religiosa che infiamma l’Europa negli anni Quaranta del Cinquecento? Effettivamente, la nuova posa di Mosè sembra esprimere un rifiuto sdegnoso delle superstizioni, assieme a un ricerca di contatto individuale con la luce del divino.
Lunghissima e accidentata, come abbiamo detto, fu la gestazione di questo monumento funebre, forse il più bello e audace mai prodotto nella civiltà cristiana. Un tomba inaugurata più di trent’anni dopo la morte del suo destinatario. Ma anche un delicato congegno destinato a esprimere significati così pericolosi che ai contemporanei che avevano orecchie per intendere non restò che far finta di non capire. Un po’ come accadde con l’altra grande sfida all’ortodossia cattolica della pittura rinascimentale, gli affreschi (oggi perduti) di Pontormo nell’abside di San Lorenzo a Firenze.
Lo stesso Michelangelo, sempre più isolato negli ultimi vent’anni della sua lunghissima vita, suggerì qualche sapiente depistaggio. Il fatto è che al posto dei Prigioni , nelle nicchie ai fianchi del Mosè , decise di sistemare due splendide figure femminili, incarnazioni della Vita Contemplativa, o della Fede, e della Vita Attiva, o della Carità. Un’altra pericolosissima allusione all’infuriare del dibattito sulla salvezza, sul ruolo della fede e delle opere nell’avventura terrena degli uomini. Ebbene, da anni i sospetti di Forcellino si erano concentrati sulla seconda di queste statue, e soprattutto sul misterioso oggetto che tiene ben visibile in mano, avvolto in un’abbondante ciocca di capelli che le scendono dalla spalla destra. Ma cosa rappresenta questo oggetto circolare? Stranamente, data la forma dell’oggetto, il Vasari, che ha fatto testo per secoli, ci vedeva uno specchio. Ma a tutto assomiglia tranne che a uno specchio questo recipiente ornato da una maschera grottesca. Non sempre chi pone la domanda, in queste ricerche così ricche di insidie e complicazioni, è colui che fa in tempo a trovare una risposta.
Si tratta forse di qualcosa di molto simile a gettare una rete nel mare, confidando che qualcosa di prezioso ci rimanga impigliato. Ed è proprio quello che è successo in questi giorni grazie a una sorprendente scoperta della sorella di Antonio, Maria Forcellino, già autrice di scrupolose ricerche sui legami tra Michelangelo, Vittoria Colonna e la cultura cripto-protestante, per definirla in qualche modo, diffusa a Roma nei primi anni Quaranta del Cinquecento.
Ebbene, fatto forse più unico che raro nella produzione di Michelangelo, l’elegante e slanciata figura muliebre di Michelangelo è una copia, non da un’altra statua, ma da un affresco rappresentante Maria Maddalena, parte della decorazione di una cappella eseguita da Polidoro da Caravaggio e Maturino da Firenze. Il confronto tra il modello affrescato e la statua scolpita da Michelangelo potrà fornire lumi precisi sull’oggetto misterioso avvolto tra le spire dei capelli. Ma ancora più impressionante è il fatto che l’affresco che ispirò Michelangelo si trova proprio in quella chiesa di San Silvestro al Quirinale in cui l’Inquisizione non tardò a scoprire un vero e proprio covo di eretici. Comunque sarà interpretata dagli storici, questa scoperta è una traccia di cui si dovrà tenere conto in futuro. Anche perché, c’è da scommetterci: di questa storia in cui la bellezza suprema è il veicolo di profondissime preoccupazioni spirituali, non conosciamo ancora tutti i dettagli.

Repubblica Robinson 27.11.16
Maurizio Pollini
“Quando suono cerco l’irripetibile”
intervista di Antonio Gnoli


Il mistero di Maurizio Pollini è il mistero della musica. Entrambi si esprimono come se fosse l’invisibile a dover essere portato alla luce. L’uomo è proverbialmente schivo. Penso alla sua ritrosia e al contempo alla sua leggendaria tenacia nello studiare un’opera in una interminabile sequenza di passaggi mentali e fisici. Mi chiedo se questa medesima tenacia non possa essere applicata al maestro per studiarne, che so, il timbro della voce, il profilo del volto, l’agile forza delle mani, per poi progressivamente scendere più in profondità in quella zona impercettibile che chiamiamo inconscio o anima, fonte di gioia e dolore. Qual è il patimento di quest’uomo che per tutta la vita — come in un romanzo di Bernhard — ha approfondito un solo ricchissimo gesto, ricavandone una vastità di echi impressionante? Il signore che mi è di fronte, in un tardo pomeriggio milanese, si mostra nella gentilezza del disincanto, quasi a indicare che è qui davanti a me, ma che potrebbe benissimo essere altrove. Da poco ho ascoltato l’opera che la Deutsche Grammophon ha raccolto del suo intero lavoro. Una magnifica impresa che stupisce non già per vastità quanto per intensità con cui esegue il suo repertorio.
Maestro è contento?
«Di che cosa?».
Alludo alla raccolta discografica della sua opera.
«Un bell’omaggio che mi dà l’idea di un fiume che scorre. Anche se l’opera di una vita non è mai uniforme. Ci sono svolte. E poi ogni esecuzione è diversa. Questo, se vuole, è il limite del disco: la fissità. D’altronde, il grande pregio del disco è di raccogliere le testimonianze di grandi interpreti che non ci sono più».
Cosa la interessa della musica?
«Tutto. E il tutto si racchiude nella sua ineffabilità. Quando suono so di essere alla ricerca di qualcosa che è irripetibile. È il lato affascinante della mia vita di musicista. La sola cosa che deve apparire».
Non ama parlare di sé.
« Ciascuno deve potersi esprimere con gli strumenti che ritiene più congeniali».
Che valore dà alla parola?
« Lo stesso valore che darei alla musica, quando entrambe sono necessarie».
C’è un’arte del discorso.
«Non credo che mi appartenga, del resto cosa dovrei raccontare? La musica nella sua essenza è irraccontabile. Ogni grande gesto artistico si può intuire, percepire, ma al dunque rimane inaccessibile».
Che cosa resta?
« Resta un’emozione e quella pellicola sottilissima che chiamiamo la successione degli eventi. Che talvolta vediamo e svolgiamo. Tentiamo di dare un ordine logico o una giustificazione alle cose che accadono, ma tutto questo coinvolge solo in parte la nostra zona interiore».
Non crede che la sfida sia quella di raccontarsi nel profondo, così come nel profondo si vuole giungere alla musica?
« Umanamente è una bella pretesa. Se dovessi raccontarmi nel profondo, a parte che non ci riuscirei, mi sentirei ridicolo».
Perché?
«A chi dovrebbe interessare il Pollini uomo? Non sono uno spartito che deve essere letto e studiato. La vita e la musica seguono strategie diverse ed è raro che si incontrino».
Raro ma non impossibile.
«Quando accade è come se un suono segreto dischiuda e illumini l’esistenza».
Quando ha cominciato a suonare il pianoforte?
« I miei mi hanno messo alla tastiera a cinque anni. Amavano la musica. Mia madre suonava il piano, mio padre il violino, mio zio, lo scultore Fausto Melotti, suonava anche lui il pianoforte. Credo di avere assimilato tutto questo inconsciamente».
Suo padre, Gino Pollini, è stato un importante architetto.
« Partecipò al movimento del razionalismo, anzi ne fu uno degli autorevoli interpreti».
Realizzò il complesso delle Officine Olivetti a Ivrea.
«Fu un grande progetto. Un giorno mi portò a vederlo. Mi sentii orgoglioso per lui. Orgoglioso di quella mano che stringeva la mia».
Anche la musica ha le sue architetture.
«Ma sono più segrete. Direi metafore di una costruzione».
Segreti e silenzi, questo è Pollini?
«Discrezione e silenzio, correggerei».
La musica l’ha aiutata in questo?
«Non la ridurrei ai tratti antropologici, ma certo il silenzio è una componente musicale. E anche il segreto lo è».
Segreto come impenetrabilità di un’opera?
« Preferisco la parola inesauribilità. Solo ciò che è inesauribile è grande e vitale».
Quando andò al primo concerto?
« Avevo credo dieci anni, mi nascosi in un palco della Scala. I bambini non erano ammessi. Toscanini dirigeva Wagner. Non ero maturo e non compresi pienamente, ma sentivo che quel mondo poteva essere anche il mio».
La sua prima esecuzione?
«A nove anni in casa. Poi il debutto nel 1958 alla Scala, avevo sedici anni ed ero molto emozionato».
Due anni dopo affronta il prestigioso Concorso pianistico a Varsavia.
« Fu una specie di torneo con un’ottantina di concorrenti. Durò tre settimane. Fu una sorpresa vincerlo».
Ma non per coloro che l’ascoltarono. Restò celebre l’elogio che le riservò Rubinstein.
«Si è molto esagerato e travisato sulla frase che pronunciò».
Cosa disse esattamente?
«Che tecnicamente suonavo meglio dei componenti della giuria. Credo che volesse prenderli in giro più che farmi un elogio. Comunque apprezzai».
Non le disse altro?
«Mi parlò dell’importanza pianistica che ha il peso del dito medio. Per farmi capire lo premette sulla mia spalla e aggiunse: io suono sempre con questa forza ed è il motivo per cui non mi stanco mai. Si trattava di un consiglio tecnico».
C’è un’immagine che la ritrae mentre scende dall’aereo di ritorno da Varsavia avvolto da un bavero di pelliccia.
«Faceva freddo a Varsavia. All’aeroporto di Milano c’erano ad accogliermi autorità e giornalisti. Improvvisamente divenni un personaggio pubblico. Cominciarono a invitarmi da tutto il mondo».
Come reagì?
« Non ero assolutamente preparato all’impatto. Decisi perciò di cancellare gli impegni e di ritirarmi dalle scene per un paio di anni. Volevo dedicarmi allo studio. Ricordo che in quel periodo andai a perfezionarmi con Arturo Benedetti Michelangeli. I suoi consigli tecnici furono importanti».
Che uomo conobbe?
«Difficile dire. Parlava pochissimo. Le sue parole erano impalpabili come il suo suono».
La definiscono un pianista chopiniano. Si riconosce?
« So che è un grande elogio, visto cosa ha rappresentato Chopin, ma lo trovo limitativo. In fondo se osserva la mia carriera pianistica vedrà molte altre cose».
Questo cofanetto della Deutsche Grammophon ne è la riprova. Molto Beethoven, qualcosa di Bach, Mozart, naturalmente Chopin, Schumann, Brahms. C’è anche l’incursione nella musica moderna: Schönberg, Stravinskij, Webern ma anche Manzoni e Nono.
« C’è anche Debussy le cui straordinarie novità aprono la via ai compositori moderni».
Perché il moderno è vissuto come una frattura?
«Rappresenta l’uscita dalla tonalità, il che ha creato qualche problema nell’ascolto. Il pubblico non era abituato, e forse non lo è tutt’ora, alla dissonanza. È il mio cruccio».
Può apparire strano oggi, vista la riservatezza, il suo passato impegno politico. Come giudica o ricorda quel periodo immediatamente dopo il Sessantotto?
«Non fu un impegno politico, fu un impegno civile. L’indignazione nasceva per quello che stava accadendo a livello internazionale con la guerra del Vietnam, ma anche per le posizioni repressive messe in campo dall’Unione Sovietica».
Con Luigi Nono e Claudio Abbado deste vita a una stagione di impegno. Irripetibile?
«Direi di sì. Paolo Grassi ebbe allora l’idea di una serie di concerti alla Scala per studenti e lavoratori. Andammo avanti per alcuni anni con una qualità altissima. Non hanno avuto nessun seguito. Di qui la delusione».
Ha un significato per lei la politica?
«Dovrebbe tendere al bene comune. Accade il contrario».
Quando non suona che cosa fa?
«Passeggio, sto con mia moglie e mio figlio. Leggo».
Che cosa legge?
« Mi oriento sui classici. Mi piacciono le grandi architetture letterarie: Balzac, Shakespeare, Proust. Quando leggo sono metodico. Qualche anno fa, un po’ per scommessa, con mio figlio abbiamo cominciato a leggere i classici in greco. È stato bello, come tornare sui banchi di scuola».
Le manca la sua infanzia?
« No, non riesco a pensarla pienamente. È stata. Punto. Del resto non ricordo mai molto bene il mio passato perché è un esercizio che non faccio quasi mai. Ho soltanto un sentore vago di ciò che ero».
Come guarda al futuro?
«Con una certa apprensione. Sento dire che non abbiamo più futuro. Non è vero. Ci sono forse meno persone capaci di interpretarlo».
La musica può aiutare?
«Non lo so. La grande musica crea rotture e continuità nel tempo. Gli è sopra e gli è dentro. Diceva Abbado che questo ci rendeva dei privilegiati. A lui mi legava un’amicizia che precedeva il nostro rapporto professionale».
A quando risale?
«Avevo dodici anni e lui nove più di me. Un ragazzo straordinario con cui era bellissimo conversare. L’intesa musicale è venuta dopo».
La sua assenza pesa?
«Non vorrei fare discorsi tristi. Nella vita ci sono state altre persone importanti. Claudio ha lasciato un vuoto sia nella musica che personale. Nella nostra giovinezza si andava spesso al Piccolo Teatro a seguire Strehler. E poi la musica, ci ha legati a lungo. Fino alla fine. Ci sono storie che sfidano il tempo».

La Stampa 27.11.16
Uno spettro s’aggira per l’Europa. Il populismo autoritario
Uno studio inglese individua alcune caratteristiche comuni ai diversi movimenti: egoismo e razzismo specialmente
di Jacopo Iacoboni


Il populismo autoritario è un miscuglio di paura e aggressività.
Hanno sentimenti negativi verso i migranti, i diritti umani e l’Unione europea: piuttosto che allargare le maglie vorrebbero restringerle, su tutte e tre le questioni. Sono ostili ai giornali, e si fidano di più di un tuffo in Internet senza stare a sottilizzare particolarmente su quale sia la fonte a cui si affidano, nella scia della massima di Donald Trump «non credete ai giornali, credete a Internet». Uno studio condotto in Inghilterra da tre professori - David Sanders dell’University of Essex, Jason Reifler dell’University of Exeter, Tom Scotto dell’University of Strathclyde - per analizzare la questione del referendum sulla Brexit, ha scoperto che il 50 per cento degli inglesi condivide questa «mentalità» e questi «sentimenti negativi». I tre prof utilizzano, per definirla, l’etichetta di «populismo autoritario» (Pa), che è un vero e proprio «insieme coerente di convinzioni».
Lo studio, bisogna rilevarlo, non è un sondaggio ma un’analisi sui dati di una serie di indagini su panel di YouGov condotte tra il 2011 e il 2015, quindi nel quadriennio che porta dritti alla Brexit. Ne vien fuori questo ritratto: i populisti autoritari non sono, per capirci, esattamente dei «fascisti», o ciò che eravamo abituati a intendere con questa parola, intanto perché occupano una fascia centrale dello spettro politico - e non la tradizionale, limitata destra o estrema destra. Ma sono anche diversi dal populismi sudamericani, così nutriti di emotività, e non necessariamente permeati dai medesimi elementi (per esempio l’ostilità ai migranti).
Abbiamo potuto conversare con i tre studiosi che hanno avuto a disposizione questi dati e abbiamo chiesto loro sostanzialmente due cose: il «populismo autoritario», studiato con riferimento al Regno Unito, è una dinamica che accomuna solo i Paesi anglosassoni della Trump-Brexit, o riguarda anche posti come la Francia di Marine Le Pen, o l’Italia del Movimento cinque stelle? Secondo: il Movimento cinque stelle, alleato di Nigel Farage (uno dei campioni dell’attitudine «populista autoritaria») al parlamento europeo, condivide gli stessi sentimenti, a giudizio di questi studiosi, almeno per la comune fascinazione - sempre più percepibile anche ai più distratti - per il mito dell’uomo forte (The Helping Man) alla Trump, o alla Vladimir Putin?
David Sanders ci racconta: «Ho fatto alcuni recenti lavori con YouGov, l’agenzia di rilevazioni inglese, compreso uno studio sul populismo autoritario europeo su dodici nazioni. Cercavamo un set di attitudini consistente (verso l’Ue, l’immigrazione, la politica estera, i diritti umani, il collocamento sull’asse destra-sinistra), che giace come una risorsa sottostante per forze politiche differenti - compresi ovviamente partiti autoritari o anti-establishment. Abbiamo trovato in Europa modelli simili a quelli in Regno Unito»: supporto potenziale per la Le Pen, Danimarca, Olanda, Svezia, Finlandia, Polonia, Spagna, e in misura più limitata, Germania. In tutti questi posti il populismo autoritario tende a destra, è anti Ue, egoista in politica estera e vuole una robusta politica di difesa. In Francia, un’attitudine al Pa occupa addirittura il 60% dell’elettorato». E in Italia? «Come in Romania, da voi c’è una cosa singolare: il populismo autoritario è stato mischiato anche con movenze prese dalla sinistra radicale. È il caso del populismo autoritario del M5S e di Grillo».
Spiega Tom Scotto: «L’attitudine di questo tipo di elettorato è un rigetto, diffuso in molti Paesi occidentali, del “liberalismo cosmopolita”. La working class, e anche la parte bassa della middle class, nelle democrazie avanzate hanno visto spostarsi i loro lavori in outsource verso le economie emergenti. Persone che appartengono alla fascia compresa nell’80-90% del patrimonio globale esistono sia in Uk, sia in Usa, Francia, Italia: questa gente si sente insicura, e l’insicurezza non si ferma ai confini delle nazioni». Certo, il Pa «ha poi molto a che fare col tema della razza, anche se è ingiusto dire che gli elettori di Trump, o della Le Pen, siano tutti razzisti». Il Pa si nutre poi molto anche del «culto del capro espiatorio», indicare la soluzione semplice a problemi complessi: cosa succederà quando vedranno che soluzioni semplici a queste insicurezze, economiche e sociali, non ci sono? «Questi movimenti potrebbero moderarsi, diventare più una sorta di conservatorismo sociale teso a qualche forma di redistribuzione; ma la transizione la vedo difficile. Più probabile una ricerca ancora più forte del capro espiatorio, ma a quel punto il bivio diventa drastico: o il Pa si affievolisce, o diventerà ancora più tossico nei comportamenti sociali».
Reifler osserva: «La vera domanda secondo me sarà: fino a quanto puoi arrivare a essere apertamente razzista, e nello stesso tempo conquistare il potere? I partiti sembrano avere più successo quando non sono così catturati dal razzismo, o dalle teorie cospirazioniste. Ma Trump ha smentito questo assunto; anche se va detto che l’America ha una storia brutta e difficile sulla razza, e Trump in questa storia non è il primo».

La Stampa TuttoLibri 26.11.16
Wilbur Smith
“È venuta l’ora di essere politicamente scorretti”
“Amo i ribelli che seguono le regole finché le regole seguono loro. Perché i cattivi prima o poi devono pagare per il male che fanno”
intervista di Fabio Pozzo


Hector Cross era politicamente scorretto prima ancora che Donald Trump diventasse presidente. Ex Sas, maschio alfa, un mondo tagliato con l’accetta tra bianco e nero, non esita ad uccidere chi gli ammazza la donna che ama. Occhio per occhio. Tanto da far pensare che il vero politically incorrect sia il suo creatore, Wilbur Smith.
Una suggestione che mette di buon umore il maestro dell’avventura. «Io politicamente scorretto? No, non è vero», dice, ridendo. Rhodesiano (del Nord, oggi è lo Zambia), 83 anni, studi in Scienze commerciali in Sudafrica, quattro mogli, tre figli, un passato lavorativo tra miniere d’oro e uffici contabili prima di diventare una macchina da best-seller che ha venduto 130 milioni di copie nel mondo, 25 solo in Italia, Smith è appena ritornato in classifica con La notte del predatore (Longanesi), con co-autore Tom Cain, il nuovo capitolo della serie che vede Hector Cross chiamato alla resa dei conti con il suo nemico numero uno, John Congo. Per quinte, il mondo del petrolio, l’olio che fa girare il mondo, cui apparteneva la moglie di Cross, Hazel Bannock.
Cross non ha molta fiducia nelle leggi. E lei?
«Io sono molto rispettoso delle leggi. I miei personaggi, però, almeno loro, tendono a comportarsi con proprie regole, soprattutto se sentono che la legge non si prende cura correttamente di loro. Penso siano tante le persone che hanno un atteggiamento simile: seguono le regole finché le regole seguono loro. Diversamente, le mollano e prendono il destino nelle proprie mani».
E’ quanto fa Cross.
«E’ il suo modo di vivere, di lavorare. In ciascuno dei miei romanzi si trova da solo e se è sfidato non si tira indietro. Mi piace molto scrivere di lui».
Le piace perché è politicamente scorretto.
(Ride di nuovo) «Vuole proprio che mi dichiari ribelle! Glielo ripeto, sono un uomo ligio alle leggi. Però è bello scrivere di persone che infrangono un pochino le regole. Non dico che mi piacerebbe farlo o che suggerisco di farlo, ma accade là fuori...».
È vero che in questo caso è nata prima la storia e poi Cross?
«Sì. In realtà i miei personaggi è come se nascessero per conto loro. Io ne raccolgo le vite e le sviluppo. Costruire la loro storia è un processo di apprendimento: a volte gli stessi personaggi mi sorprendono con il loro atteggiamento. Non conosco mai in anticipo dove andremo a parare, vivo l’emozione della scoperta e lascio che la mia immaginazione si spinga al limite».
Ci saranno altre avventure di Hector Cross?
(ride) «La vera domanda è: quanto mi resta da vivere?... In verità penso di vivere ancora a lungo. Mi sento luminoso e vivace, come quando avevo 25 anni. Amo quello che faccio. Sento di avere altri personaggi, storie da raccontare e voglio continuare a godere di questa sensazione. Dunque, sì, e spero che i miei lettori non mi abbandoneranno».
A proposito: l’anno scorso aveva parlato della fine della saga dei Courteney.
«Non sono tanto sicuro che ci sarà una fine. Forse dovevo aver bevuto qualche bicchiere in più quando l’ho detto… No, i Courteney vivranno per sempre. Mi piace scrivere di loro e ho creato una lunga stirpe proprio per questo».
E cosa dice di Nick Berg, il protagonista di «Come il mare»?
«Non lo frequento da tempo. Però, ora che me lo ricorda, penso tornerò indietro per andare a vedere che sta facendo…».
I suoi personaggi non sembrano amare particolarmente la politica. E lei, che vive nel Paese della Brexit?
«A me la Brexit non interessa. Questi sono solo giochi della politica. Io preferisco essere coinvolto da questioni reali, che accadono davvero e mi entusiasma seguire le gesta e i successi dei “buoni contro i cattivi”. Io scrivo storie di brava gente minacciata, aggredita dalla cattiveria, in cui però alla fine il bene prevale. Penso che il mondo sia sempre stato ancorato a questa contrapposizione e sono convinto che verrà il tempo in cui i cattivi pagheranno per il loro male».
Com’è il rapporto con i suoi co-autori?
«Per me è una sorta di test. Ho pensato a come sarebbe stato lavorare con altri e dico che finora ho ottenuto più successi che fallimenti.
Quanto tempo dedica per un libro alla ricerca e quanto alla scrittura?
«Ogni libro ha i suoi tempi. Ogni storia che sogno, che porto a compimento, è diversa. Alcune rispondono a un flusso impetuoso, altre sono più difficili, hanno personaggi più complessi».
In “La notte del predatore” esalta l’Atlante. Anche lei lo sfogliava da bambino?
«Amo gli atlanti, le immagini del pianeta. Amo viaggiare. Ho ancora oggi un Atlante accanto a me, la mia vita è immersa in queste pagine».
Che leggeva da ragazzo?
«Libri scritti durante la Seconda Guerra Mondiale, come la serie su Biggles, il pilota e avventuriero della Royal Air Force. Sono sicuro che se mi fosse toccato la prima linea avrei odiato la mia sorte, ma leggendo quei libri la mia fantasia galoppava: credo che sia nata da qui la mia capacità narrativa. Anche oggi ci sono guerre intorno a noi. Basti guardare che sta accadendo in Siria, nel Mediterraneo, con tutte quelle persone in fuga da disagi terribili».
Molti dei migranti provengono dalla sua Africa: un continente perduto?
«Non più di quanto lo sia l’America. Ci sono nazioni buone e cattive, il mondo è in crisi dagli albori della storia e ogni suo nuovo capitolo è critico. Ma questo, a ben vedere, è quello che rende il tutto intrigante».
Così legge per evadere dalla realtà?
«Non direi. Ciò che leggo è più reale del mondo che mi circonda. Mi piace scoprire un nuovo libro, un nuovo autore, lasciarmi coinvolgere fino al punto da esclamare “Oh, dannazione!” e spingermi a cercare un seguito, un nuovo lavoro».
Quanti libri ha?
«Mio Dio, non so, probabilmente diverse migliaia. Perché ho due grandi case e la maggior parte delle loro stanze sono stipate di libri. Libri che amo e che leggo ogni volta che ho un po’ di pace e di tranquillità. Mi piace in particolare farlo nel giardino della mia casa di Città del Capo che ha dei grandi alberi: mi siedo sotto e sto lì per ore a leggere. La lettura è davvero uno dei miei grandi piaceri della vita».
Va ancora in libreria come un semplice cliente?
(Ride) «Non posso camminare oltre una libreria senza sbirciare in vetrina. Mi fermo, passo in rassegna le copertine, penso “Oh, guarda quello lì, di che si tratta?”. E poi entro per guardarlo da vicino. Mi piace la sensazione dei libri».
Ma quando è vi entrato l’ultima volta? E solitamente la riconoscono?
«Proprio ieri. Camminavo in Knightsbridge (il distretto di Londra dove ha casa, nda) e ho visto alcuni libri in vetrina, così sono entrato e ne ho comprato un paio. Non sempre mi riconoscono, ma quando accade è molto simile a un “Ciao, è molto bello rivederti!”. Ed è bello anche per me avere un gruppo speciale di persone che amano i libri come me».
Ho letto che si sta godendo la vita alla grande. Lo ha sempre fatto?
«Fino ai 20 anni mi sono divertito immensamente. Mio padre mi pagava i conti, ero all’Università, stavo scoprendo la vita, le amiche ed è stato meraviglioso. Poi ho detto a papà che volevo andare in Inghilterra, a Oxford. La sua risposta: “Ok, quando sarai in grado di mantenerti, lo farai”. Così per i successivi dieci anni ho lavorato duramente per pochi soldi, finché non ho pubblicato Il destino del leone. Da allora non ho più smesso di lavorare».
Che passioni ha oltre la scrittura?
«Mi piace scoprire nuovi libri, il cibo, la musica e il buon cinema. Adoro anche le escursioni in montagna e le macchine. Non guardo invece molto la tv».
Ma uno scrittore che ha venduto 130 milioni di copie, che è diventato ricco, sogna ancora? O ha sperimentato tutto?
«Tutto il tempo! Ogni mattina mi sveglio e penso: “Oh, che bel sogno è stato!”. Credo che la mia immaginazione corra in modo selvaggio, a volte troppo, ma mi piace così. Ho sperimentato tutto? Ma no! Sento di essere appena all’inizio, che c’è ancora tutta una vita davanti a me, con tutte le sue meraviglie, piaceri, sconvolgimenti».
Chi sono i suoi amici?
«Per lo più si tratta di persone che mi piacciono, con cui mi trovo bene e posso parlare. Uomini e donne che mi capiscono e che capisco, rispetto. Non si tratta di quanti soldi abbiano. C’è gente che è piena di soldi ed è mostruosa, orribile».
Che tipo d’uomo pensa di essere?
(ride) «Se glielo dicessi, poi penserebbe: “Oddio, che alta opinione ha di se stesso!».
Le piace il mondo in cui viviamo?
«Oh sì! Del resto, è l’unico che abbiamo».

La Stampa 27.11.16
Ascesa e trionfo della civiltà dell’immagine
di Claudio Gallo


Gli inizi sono sempre evanescenti: quando è cominciata la decadenza dell’Occidente? Quando è sorto l’individualismo? E la globalizzazione? Vedere la storia come un processo in cui si guadagna qualcosa o qualcosa si perde è una concezione originariamente mitologica che manifesta il bisogno di dare un senso alle cose.
Flavio Cuniberto, ordinario di Estetica all’Università di Perugia, crede platonicamente che l’universo non sia soltanto caso e necessità e che la nostra civiltà dell’immagine nasca dalla disgregazione progressiva di mondi antichi più oscuri e più luminosi insieme.
Nel Vortice Estetico (Morlacchi, pp. 393, €22) individua un percorso ideale attraverso il quale l’esperienza del mondo viene gradualmente sostituita dall’esperienza dell’immagine del mondo. Una lunga strada che ha condotto l’umanità al presente digitale, dove virtuale e iper-reale nascondono come un velo sgargiante la realtà materiale e sociale. Prendiamo le vacanze, non sono ormai per molti la preparazione alla narrazione che verrà dopo, fatta di racconti, fotografie, filmati? L’immagine digitale rimane, è più reale della vita che ha la seccante caratteristica di trascorrere. Il passato per quanto spettrale, si può «rivivere» a piacere grazie al digitale mentre vivere il presente è difficilmente un piacere.
La grande trasformazione è seguita attraverso la storia dell’arte, individuando i prodromi e gli eventi cruciali, senza cedere alla tentazione di una periodizzazione troppo esplicita da storiografia reazionaria dei primi del Novecento. Uno dei momenti in cui, secondo Cuniberto, il paradigma estetico si presenta potentemente in una nuova forma è a Firenze, intorno al 1426, quando Masaccio dipinge la Trinità a Santa Maria Novella.
La novità non è tanto il trompe l’oeil quanto piuttosto il fatto sconcertante che la Trinità non è più un soggetto teologico ma è l’elemento di «una messa in scena», gioco su un palco teatrale per provocare l’eros visivo. Nella seconda parte del libro, vediamo il nuovo diletto di rappresentare il mondo dispiegarsi simmetricamente alla scoperta dell’io, fino all’individualità romantica e oltre. L’antica oggettività estetica si sbriciola nella moltitudine d’individui ipnotizzati, ognuno a suo modo, dal proliferare infinito delle immagini. Così il nostro mondo si dissolve in un’interminabile fantasmagoria ad alta definizione.

La Stampa 27.11.16
Com’è arduo tradire l’amico in nome del comunismo
Un infiltrato vietcong negli Usa dopo la caduta di Saigon diviso tra la fedeltà all’ideologia e gli affetti personali
di Domenico Quirico


Per favore! Fate leggere questo romanzo, Il simpatizzante, vincitore del Pulitzer, a Salvini e ai suoi leghisti. Imponetelo come premessa elettorale a madame Le Pen, alla svelta protervia di tutti gli xenofobi, indigeni e da esportazione. Soprattutto: accertatevi che questi avvelenatori dei pozzi della psicologia collettiva scorrano la biografia dell’autore, Viet Thanh Nguyen, figlio di migranti vietnamiti negli anni settanta, rifugiato di seconda generazione diventato professore di inglese e studi americani alla Ucla, la prestigiosa università della California, autore di saggi sulla memoria e l’oblio e ora anche potente romanziere: il romanziere AMERICANO dell’anno. Che ha scelto come tema per il suo esordio letterario gli anni «americani» del Vietnam che furono proprio quelli che fecero tremare Popoli, Terre, Spiriti in tutte le loro fondamenta.
E’ compito bello e amabile presentare l’opera di un grande scrittore e Thanh Nguyen lo è. Bello chiosare la singolarità di una delle sue pagine: ad esempio, nel racconto delle ultime notti di Saigon ormai accucciata, esausta, nella morsa salda dei «liberatori», la scena in cui descrive le strade che portano all’ultima via di fuga, l’aeroporto, sui marciapiedi le divise abbandonate dai disertori prima di travestirsi da civili, scena classica di ogni débacle anche nostrana. Ma qui le divise non son gettate qua e là alla rinfusa, ma ben ripiegate, elmetto giubba pantaloni scarpe, in ordine rigoroso dall’alto al basso, quasi fossero esposte in vendita «… ma nessuno in una città in cui niente andava sprecato, nessuno osava toccarle…».
E’ bello additare al lettore indaffarato o insensibile, la frase, il personaggio, la battuta, certe bellezze ingegnose di una ispirazione mai incauta o incolta… «Era un uomo sincero che credeva in tutto quello che diceva anche quando mentiva…». Che storia è la sua: tragica terrificante bizzarra! Libro perfetto dunque come sono quelli dove ogni orrore e dolore, verità e menzogna, odio e morte diventano destino e struttura.
Tutto questo è vero: ma scopro che la vita dell’autore, la sua condizione umana, di persona e non di personaggio, mi folgora e mi attrae quanto e forse più della sua opera. Perché dimostra, con pertinenza didascalica, cosa sono e possono diventare i migranti, «invasori» descritti come devoti al saccheggio, impermeabili a ogni integrazione, che sia anche accettazione di ciò che siamo. Possono diventare ad esempio maestri in grado di darci lezioni nei nostri idiomi. Oppure di vincere il premio letterario più prestigioso. Tra dieci, venti anni avremo anche noi, in Italia, un vincitore del Campiello o dello Strega arrivato, bambino, sul molo di Lampedusa su una slabbrata caravella, o alla deriva per torridi deserti incalzato dalla paura: che è stato insomma Migrante.
Il libro è, a ridurlo a trama di vertiginosa proliferazione, la storia di un uomo, il Capitano, l’apprezzato braccio destro del capo della polizia di Saigon ma anche rivoluzionario vietcong, marxista, abilissimo infiltrato a cui i nordvietnamiti chiedono di seguire il generale fuggiasco in America per sorvegliare possibili «revanche» degli sconfitti. Nguyen ne coglie magistralmente la seduzione, il torbido fuoco, quanto basta a consentirci l’affaccio sul pozzo senza fondo della vita e vederci confusi, in ambigui intrecci, il bene e il male.
Un tempo ci avvertivano che non si debbono leggere libri per sapere come vanno a finire, né voltare le pagine per sapere cosa accade dopo. Che errore! Confesso di leggere per sapere, appunto, ciò che accadrà, quello che ci porterà la pagina dispari dopo quella pari.
Ma non nel caso de Il simpatizzante. Ogni parola scritta con magistrale perizia dal migrante Nguyen è, automaticamente, per una sorta di traslazione biografica, anche una pietra scagliata contro il pregiudizio, l’ottusità degli xenofobi, la meschinità di tutti gli egoismi, razziali ed economici. Sì. Il simpatizzante è un libro che nasce dal coraggio dell’uomo, è impastato dalla sua mirabile capacità di adattarsi e di crescere, della generosità del sopportare il dolore e il distacco da ciò che eravamo e non possiamo più essere. Che ci dice come gli uomini siano più saldi e buoni di quello che credono. Anche se talvolta lo sono meno di quello che dicono.

Il Sole Domenica 27.11.16
Spesso il male di scrivere ho incontrato
In tre deliziose lettere inedite, è all’opera il Montale del suo «secondo mestiere»: quello di critico letterario e di giornalista, svolto per necessità e sul quale non manca di scherzare
di Armando Massarenti


Non di rado Eugenio Montale ha parlato, riassumendo la propria vicenda umana e poetica,  «della nostra “vocazione” di scrittori poveri e magari di giornalisti», come si legge nel Secondo mestiere, il Meridiano, pubblicato 20 anni fa a conclusione dell’Opera omnia, che raccoglie i suoi scritti da giornalista, redattore, traduttore e critico di «arte, musica, società». Le tre lettere inedite, rivolte all’insigne grecista Manara Valgimigli in un periodo che va dal 1946 al 1954, ora pubblicate in un prezioso volumetto con il titolo Non possiedo neppure una Divina Commedia, vanno lette in questo contesto.  Coincidono non a caso con il periodo più proficuo del suo variegato “secondo mestiere” - che si può dire culminò nel 1965 (dieci anni prima del conferimento del premio Nobel) proprio  con una Lectura Dantis che nel ’54 dichiarava di non voler fare, sentendosi inadeguato - assai interessante per i rapporti di Montale poeta con Dante. 
Con tono delizioso, Montale, che a quel tempo viveva quasi esclusivamente della sua collaborazione giornalistica con Il Corriere della Sera, rifiuta la Lectura Dantis propostagli da Valgimigli adducendo vari argomenti («a me che non provengo dall’insegnamento, queste cose riescono difficilissime») fino a quello di non possedere «nemmeno una Divina Commedia»: «Libri non ne  posseggo - scrive - perché molti li ho perduti in seguito a un bombardamento e la mia casa è così piccola che non contiene che me e i pochi documenti necessari al mio mestiere». Le tre lettere rappresentano altrettante pennellate che disegnano l’atteggiamento del poeta nei confronti del lavoro di giornalista e di critico letterario, svolto per necessità, ma che ci ha regalato uno sguardo sulle arti del Novecento di una originalità e di un acume straordinari. Il Montale critico riluttante che emerge da questi tre inediti si tinge di astuzie varie, da un’ostentata umiltà per convincere l’amico a partecipare alla giuria di un premio letterario, alla richiesta di aiuto per scrivere un articolo dedicato alle poesie latine di Pascoli sulle quali si dichiara incompetente.
Con Non posseggo nemmeno una Divina Commedia Angelo Crespi, Luigi Mascheroni e Cristina De Piante,  inaugurano una nuova raffinata casa editrice, De Piante editore. Proporrà  testi di alto valore letterario, inediti, curiosi, in un supporto che punta sull’“oggetto libro”, prezioso dal punto di vista editoriale/tipografico e che ha come elemento distintivo la sopraccoperta disegnata ogni volta appositamente da un artista. Questo primo volume, stampato in 500 copie di cui 99 numerate a mano più 10 copie d’artista, è stato affidato all’artista astratto Roberto Floreani. In una breve postfazione Davide Brullo trova quasi paradossale l’affermazione che dà il titolo al volume, definendo Montale  «il più dantesco dei poeti italiani del Novecento», aggiungendo che «basta rileggere la grazia con cui quel verso paradantesco, “... tu / che il non mutato amor mutata serbi”, è incastonato nella Primavera hitleriana, ormai esattamente montaliano». Si tratta in realtà di un verso non della Commedia ma di un sonetto quasi sicuramente non dantesco che Montale leggeva nell’edizione delle Rime curata da Gianfranco Contini, forse a maggiore riprova dell’influsso sul poeta delle letture dantesche.
 In queste tre lettere troviamo confermata l’immagine che avevamo di un Montale antiretorico, povero e assai onesto intellettualmente. Cosa c’è di male nel riconoscere le proprie lacune, la propria incertezza circa il latino e la propria inadeguatezza in quanto dantista? E persino la propria pigrizia, quando si tratta di interrompere il proprio impegno di poeta già acclamato per concentrarsi sul “secondo mestiere”, quello di critico e di giornalista, abbracciato controvoglia e per mere esigenze di sopravvivenza economica, e che pure gli ha permesso di regalarci pagine meravigliose su autori e testi ai suoi tempi poco battuti?
Chi conosce Montale, conosce il suo carattere profondamente schivo, il suo non voler appartenere a nessuna chiesa (rossa, nera o bianca che sia: ma fu comunque antifascista, a partire dall’adesione al manifesto di Croce), la sua naturale ritrosia per i consessi letterari laureati, per le dicerie accademiche, per quelle maldicenze snobistiche che da sempre, e non solo oggi, accompagnano la pratica della critica letteraria. Chi non ricorda I limoni?  «Ascoltami, i poeti laureati / si muovono soltanto tra le piante / dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. / Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi / fossi dove in pozzanghere / mezzo seccate agguantano i ragazzi / qualche sparuta anguilla (…)». Neppure quando laureato lo fu, con il conferimento del premio Nobel per la Letteratura, nel 1975, cambiò di molto il suo atteggiamento, benché fosse ormai lontano dagli anni della povertà del dopoguerra.
«All’eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo, magari a rischio di una controeloquenza» dichiarava nel 1946.  E ancora: «Scrivo poco, con pochi ritocchi, quando mi pare di non poterne fare a meno. Se neppur così si evita la retorica vuol dire ch’essa è (almeno da me) inevitabile». Ed è forse qui che si nasconde il paradosso di chi si vede costretto a fare due mestieri, sentendo che in realtà quello di scrittore e poeta è l’unico che gli si attaglia. Anche quando si tratta di riconoscere il proprio debito con Dante, come fece nel 1966, dopo che Contini si era già da tempo occupato di rintracciare i riferimenti danteschi nella sua opera. In un’intervista del 1966 afferma: «Devo dire che io, dopo aver letto giovanissimo la Commedia, l’ho lasciata poi da parte per parecchio tempo (…). Certamente la sua lettura, sedimentata in me, ha avuto, per vie che è difficile definire, degli influssi». Che dire? Come al solito Montale ci dice una cosa saggia e ovvia nel contempo. Non sta parlando qui di un processo che da sempre caratterizza il fare artistico e poetico e il modo profondo in cui opera l’imitazione quando sa diventare innovazione?
«Quanti sono gli scrittori che riescono a vivere col frutto della loro arte, - scrive in Auto da fè - senza dover ricorrere a un altro mestiere? Apparentemente sono molti nelle così dette Repubbliche popolari; ma pochi, pochissimi negli Stati dove vige una relativa libertà di pensiero e di opinione. […] Scrittori notissimi, magari insigniti del premio Nobel, vivono della loro penna, non della loro arte. […] È quasi impossibile, in tutto il mondo, a uno scrittore di vivere dell’arte sua». Per questo nella citazione riportata all’inizio Montale parla, al plurale, della “nostra” vocazione. La stessa situazione era toccata ad altri grandi. Alberto Savinio per esempio, scrittore come Montale e insieme critico teatrale e musicale oltre che pittore e compositore. Nel recensire nel 1955 Scatola sonora, raccolta postuma di scritti musicali, Montale chiude così il suo pezzo: «scrittore limpido, elegantissimo, temperamento troppo aristocratico per cercare l’applauso e il successo, egli lascia un gruppo di scritti che resterà come uno degli ornamenti del nostro tempo. E la sua vita - che fu probabilmente quella di un povero – aggiunge ancora all’opera sua una nota di singolare ricchezza spirituale».
Come Savinio, Montale sapeva condire anche le considerazioni più amare con una deliziosa ironia. Come quando scrive:  «L’artista antico pare a noi [...] ben fortunato in confronto al moderno artista costretto a dividersi tra l’arte e un mestiere capace di dargli da vivere, in attesa che l’arte sua, una volta che sia riconosciuta (campa cavallo!), cominci a “rendere qualcosa”». O quando rimpiange di non aver potuto fare nella sua vita «il secondo mestiere più favorevole alle lettere: quello del “rentier”».

Il Sole 27.11.16
Giuseppe Ungaretti (1888 –1970)
Universi e fantasmi
Cent’anni fa usciva «Il Porto Sepolto». La sua lezione non fa che crescere nel nostro tempo di universale esilio
di Carlo Ossola


Ai primi di dicembre del 1916, mentre Ungaretti è, soldato semplice, sul fronte del Carso, esce a Udine, in «80 esemplari numerati», Il Porto Sepolto, una plaquette che avrebbe cambiato la poesia del Novecento italiano, un sillabato acuto, irto, che toglie di scena le «manate di parole» dei Futuristi: «Sono un poeta / un grido unanime / sono un grumo di sogni» (Italia). Fatti i primi studi, e le prime traduzioni (tra cui quella esemplare da Poe, Silenzio; ora Tallone, Alpignano, 2009) ad Alessandria d’Egitto, ov’era nato nel 1888 figlio di emigrati lucchesi, Ungaretti tempra la propria poetica a Parigi, studiando alla Sorbona e al Collège de France, alle lezioni di Bergson, e insieme divenendo compagnon di Apollinaire, Breton, Cendrars, Modigliani, Picasso, per poi rintrare in Italia allo scoppio della prima Guerra mondiale e arruolarsi come volontario. A 28 anni è già poeta di due continenti: a Moammed Sceab dedica la sua raccolta, poeta d’altra terra e di fraterno destino: «In memoria / di / Moammed Sceab / discendente / di emiri di nomadi / suicida / perché non aveva più / patria».
Occorre dare più importanza a quelle origini, in questo secolo XXI che sembra aver totalmente obliato l’altra sponda mediterranea della propria storia e della propria identità: «Quel vociare piano che torna, e torna a tornare, nel canto arabo, mi colpiva. Nell’accompagnamento d’un morto, quella sorta di costanza monotona che si differenzia quasi insensibilmente per quarti di tono, quel borbottio lento, quella scoperta di quanto potesse una persona commuoversi a un discorso dissimulato: non avrò ritenuto altro dell’insegnamento orientale, ma vi pare davvero poco? In quel salmodiare s’insediava il valore d’Essenza e ne divenivo quasi inconsapevolmente consapevole». E tale sarà uno degli Ultimi cori per la Terra Promessa, 26, tra i più struggenti: «Soffocata da rantoli scompare, / Torna, ritorna, fuori di sé torna, // E sempre l’odo più addentro di me / Farsi sempre più viva, / Chiara, affettuosa, più amata, terribile, / La tua parola spenta». È un ripetersi che si modula e si tende, per lacerarsi infine: «Ah! Se non fosse quella frustata che dalla pianta dei piedi vi scioglie il sangue in una canzone, rauca, malinconica, maledetta, direste che questo è il nulla. Essa entra nel sangue come l’esperienza di questa luce assoluta che si logora sull’aridità» (La risata dello Dginn Rull, 1931).
Poesia di ritmo dunque, più che di metro, essa si dilata e anima anche il poème en prose, obbedisce a una “tornitura” di ritmi, che non sono gli scatti della scrittura futurista. Di quella stagione rimarrà, grido insurrezionale e anarchico che risale alla Costituzione rivoluzionaria del 1791, soltanto l’«Ah! Vivre libre ou mourir» dell’Affricano a Parigi del 1919. In quei “ritratti” è tutta l’infanzia, e il presente, a ricapitolarsi: «A casa mia, in Egitto, dopo cena, recitato il rosario, mia madre ci parlava di questi posti» (Lucca); «In questa città lo spazio è finito e le strade sembrano interminabili. / Qui non si vive di abbandoni, ma di capricci. / Non mi è più concessa la gran fuga e il rifugio nel sole che addomestica e annulla. / [...] / Qui il tempo si scandisce, e i corpi si fanno secchi e smaniosi, come una corda musicale tesa. / Dopo tutto si tende al caos. // Ah! Vivre libre ou mourir» (L’Affricano a Parigi, stesura 1919).
Ungaretti non conosce le estenuazioni del Decadentismo italiano perché, dalla militanza degli anni parigini che precedono la guerra, apprende – immediata – l’urgenza della rottura: «Un génie fendu comme une pêche / Lautréamont / Chagall» (Blaise Cendrars, Atelier, 1913); il suo Roman cinéma non a caso è dedicato a Blaise Cendrars, perché tramite l’amico (che ammira Chaplin e sarà nel 1919 figurante nel film J’accuse di Abel Gance) e la sua Prose du Transsibérien, 1913, scopre la simultaneità pieghevole, elastica, mobile, degli spazi e delle arti, dispiegate in un poema-quadro, ma retrattile, di due metri d’altezza con composizioni intrecciate di Sonia Delaunay: «Je suis en route / J’ai toujours été en route». E Ungaretti in Fase: «Cammina cammina / ho ritrovato / il pozzo d’amore».
In Italia, a lungo, Ungaretti è stato posposto a Montale; la sapienza critica di Contini, il riconoscimento venuto dal Nobel, hanno imposto il poeta degli Ossi; ma Ungaretti respira in altri orizzonti: il suo rayonnement europeo e nordamericano sono piuttosto, e fortunatamente, legati alla grandezza dei suoi traduttori: Pierre Jean Jouve, Francis Ponge, Philippe Jaccottet, Ingeborg Bachmann, Paul Celan, Allen Mandelbaum.
A sua volta, del lungo esercizio del tradurre, da Esenin a Saint-John Perse, da Shakespeare a Racine, da Blake a Mallarmé, permane – nelle scelte operate da Ungaretti – un tono aurorale, che si prolunga nelle albe della propria poesia, poiché «L’infanzia viene dall’eternità» ( Murilo Mendes) e il poeta percorre e dona la «Terra arabile del sogno!» (Saint-John Perse).
Pari alle traduzioni è la sua coscienza dei classici: «Recuperate, in vuoto» saranno le forme della tradizione, in un acuminato “crescere per sottrazione”: la poesia dell’ultimo Ungaretti ritrova così il respiro classico del Lointain intérieur, come in Michaux: «On pèse sur le vide»; come in Celan, che tradurrà mirabilmente La Terra Promessa (Das verheissene Land) e il Taccuino del Vecchio (Das Merkbuch des Alten). Anche quando non rimanga che «dondolo del vuoto» (L’impietrito e il velluto, 1970), deserto e Lösspuppen, crisalidi di Loess e «Impalpabile dito di macigno», pure, per memoria di forma, il ritorno è, sempre, istante possibile: «Petrarca/ ist wieder/ in Sicht», «Fulmineo torna presente pietà» (L’impietrito e il velluto, clausola); eterno bagliore / abbaglio di illuminazione e miraggio: «L’unica luce sua che dal segreto // Suo incendio può guizzare» (Canto a due voci).
Dopo cent’anni, la sua lezione non fa che crescere, nel nostro tempo di universale esilio. Ungaretti ha un “senso radicale” della parola che lo pone entro una storia della «coscienza dei classici» saldamente disegnata e assunta, da Petrarca e Leopardi a Shakespeare e Baudelaire. Il volume di saggi Ungaretti, poeta delinea i percorsi di una poesia che «dal fondo di notti di memoria» s’innalza oltre il «Rilucere inveduto d’abbagliati / Spazi ove immemorabile / Vita passano gli astri / Dal peso pazzi della solitudine». Responsabilità cosmica della parola poetica, ereditata da Leopardi, e a noi offerta affinché accompagni il cammino di questo secolo smarrito, «en exil / partout».
Di Carlo Ossola è appena arrivato in libreria: Ungaretti, poeta, Marsilio, Venezia, pagg. 288, € 17

Il Sole Domenica 27.11.16
L’ultimo Caffè
L’economista Bruno Amoroso, allievo e amico di Federico Caffè, rivela nelle ultime righe delle sue «Memorie di un intruso» di averlo frequentato dopo la scomparsa: anni di meditazione, ritirato in convento
di Roberto Da Rin


Trent’anni dopo, in Danimarca. Sono qui le ultime tessere che ricompongono il mosaico della scomparsa di Federico Caffè.
Esce di casa, in via Cadlolo, a Roma, all’alba del 15 aprile 1987. Lascia sul comodino occhiali e orologio. Di lui non si saprà più niente.
Un rapimento, un suicidio, un ritiro spirituale in un convento. Sono queste le ipotesi su cui si orientano le indagini della polizia, degli investigatori, dei suoi amici, dei suoi studenti. Indagini di anni. Oggi sappiamo, come riveliamo in questo articolo, che Caffè ha vissuto a lungo, dopo la sua scomparsa. E che il suo allievo prediletto, Bruno Amoroso, custodisce il segreto dell’esilio del maestro.
Chi era Federico Caffè? Un economista stimato a livello internazionale, docente a La Sapienza. Un economista umanista, critico nei confronti dei tecnocrati, degli istituzionalisti, un alfiere dell’umanesimo di Keynes «contrapposto al darwinismo schumpeteriano». Parole sue.
Un economista affascinato dall’approccio interdisciplinare della scuola nordica, di Gunnar Myrdal e di Jan Tinbergen. In cima ai suoi pensieri l’obiettivo del benessere mondiale e di una radicale trasformazione di sistemi che, se realizzati, avrebbero sconfitto la controrivoluzione liberista.
Gli allievi ne parlano così: le sue lezioni esondavano dall’economia, lambivano la politica, la letteratura, la storia, la musica. La sua umanità come aspetto centrale, qualcosa di spiritualmente indefinibile che sprigionava dalla sua persona. Capace di domandarti di te, chi sei, cosa fai, a cosa aspiri, da dove vieni, dove ti piacerebbe andare.
Tra gli allievi, Bruno Amoroso è l’erede designato del grande patrimonio culturale e umano di Caffè. Amoroso vive e insegna in Danimarca da 40 anni, sbarcato in Scandinavia con il proposito di approfondire gli studi sui sistemi di Welfare e sulla loro esportabilità. Aveva in tasca le lettere di presentazione di Caffè, già allora apprezzato anche dagli economisti scandinavi.
In un bellissimo libro, Memorie di un intruso, edito da Castelvecchi, Amoroso racconta tutto della sua vita e quasi ogni pagina parla del maestro Caffè. Pur con le lettere di presentazione di Caffè, Amoroso aveva bisogno di un permesso di soggiorno per vivere in Danimarca e cerca un lavoro: lo trova come “assistente lavapiatti”. È laureato e impegnato nella ricerca, stimato e inviato all’estero dall’Istituto di Politica economica della Sapienza, ma inizia dal basso. Da “assistente lavapiatti” diventa “lavapiatti”, poi portiere di notte e dopo due anni è “professore associato” in una università danese. Con tutta l’incredulità degli impiegati dell’ufficio di collocamento che, pur consapevoli della mobilità sociale insita nei sistemi scandinavi, non avevano mai assistito a carriere così fulminee.
In questo stesso libro Amoroso, a pagina 178, nell’ultimo capoverso prima dell’Epilogo, scioglie l’enigma. A proposito di “silenzio e riflessione” Amoroso scrive: «Federico (Caffè) capì la situazione prima di noi e ha trascorso gli anni che ci separano da lui tornando alla sua amata musica classica e al silenzio. Una volta lo interruppi in questo ascolto con una canzone di Lucio Dalla, Come è profondo il mare. Ascoltò in silenzio, accennò un grazie con la mano, e riprese l’ascolto di una sinfonia di Mahler».
Così l’allievo più intimo, Bruno Amoroso, ci consegna un segreto: scrive di averlo visto e frequentato, dopo la sua scomparsa. A quasi trent’anni dalla sua uscita di scena, e a 102 dalla sua nascita, acquisiamo quindi un elemento importante del mistero di Caffè: né suicidio né rapimento.
Amoroso pochi giorni fa ne ha parlato con il sussiego e l’ammirazione di sempre: «I meriti di Caffè sono riconducibili al “piano etico” oltre che a quello scientifico». Tra gli allievi più noti di Caffè, ci sono Mario Draghi, presidente della Bce, Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia. E tanti altri nomi di prestigio, da Marcello De Cecco a Giorgio Ruffolo, da Guido Rey a Enrico Giovannini. Bruno Amoroso, l’allievo prediletto, è destinatario di centinaia di lettere confidenziali. Bruno, in convalescenza nella sua Copenhagen, è attorniato dagli affetti più cari e dagli amici di sempre: Ye e Danyi, Lutz e Luca. Con l’ironia di sempre e la lucidità dei ricordi, spinge lo sguardo oltre la finestra; e da Hellerup, un bel quartiere residenziale di Copenhagen, ci riporta al primo assioma del Caffè-pensiero: «L’economia è uno strumento importante al servizio del benessere delle persone».
È l’attualità di Caffè che lascia stupefatti.
L’allarme per le derive populiste alimentate da ingenti flussi migratori (che 40 o 50 anni fa non esistevano) è cronaca di questi mesi, di queste settimane. La sua profonda capacità di analisi e la sua lucidità previsiva, trovano conferma nelle parole che seguono: «Perché credi – chiede Caffè ad Amoroso con tono quasi accusatorio – che i sistemi di welfare siano in crisi? Sì certo, come tu giustamente insegni a Copenhagen, ci sono i costi sociali dell’impresa che sono cresciuti in modo esponenziale, così come sono aumentati i fruitori dei servizi pubblici. Ma in modo inversamente proporzionale è cambiata la disposizione delle persone per la solidarietà e i sentimenti».
Una riflessione di straordinaria attualità, nei giorni in cui Europa e Stati Uniti erigono barriere e muri “contro” i più deboli.
L’ipotesi suicidio si svuota quindi di qualsiasi valenza possibile e il ritiro in convento emerge in tutta evidenza. Con la copertura offerta da un ordine religioso. «La Chiesa è disponibile a offrire protezioni di questo genere, purché ricorrano determinate condizioni». Rispose così il sottosegretario padre Jesus Torres, autorevole rappresentante della “Congregazione per gli istituti di vita consacracata e le società di vita apostolica”, incalzato da Ermanno Rea che 25 anni fa cercò di risolvere il mistero della scomparsa di Caffè e scrisse il libro L’ultima lezione.
In un altro bel libro, La Stanza rossa, pubblicato nel 2004 da “Città aperta”, Bruno Amoroso racconta Caffè attraverso decine di lettere autografe e riflessioni scientifiche. Anche qui ci sono conferme importanti del ritiro del maestro: confessioni vergate dal professore al suo allievo preferito. Già nei primi anni Ottanta, pochi anni prima della pensione, Caffè pare voglia abdicare alla sua vita: «Sono triste e depresso; e solo; e angosciato; e malinconico; e trepidante».
Si legge in filigrana il desiderio di scomparire. Ancora una volta all’ultima pagina, si riporta una confessione premonitrice di Caffè, accolta e pubblicata da Amoroso: «Nella mia vita si sono ormai prodotte rigidezze che ponevano limiti invalicabili alla comprensione e all’esperienza: mi restava di continuare sulla via dell’isolamento delle idee, che avevo già intrapreso, e di aprire, in solitudine, la porta della meditazione esistenziale». Il convento, appunto.
Pochi anni dopo è lo sconforto che pervade la vita del professore, ormai “fuori ruolo”, lontano dai suoi collaboratori, dai suoi studenti. Cita Giuseppe Ungaretti, « mi pesano gli anni futuri».
Una decisione, quella di scomparire, maturata con la lettura di un libro di Leonardo Sciascia, La scomparsa di Majorana che Caffè leggeva prima di uscire di casa per l’ultima volta. Quella stessa copia del libro oggi è a casa di Bruno Amoroso, a Copenhagen, in via Webersgade. È convincente e plausibile il parallelo tra Majorana e Caffè. Due angosce con similitudini forti: per Sciascia la scomparsa di Majorana vale un mito: «il mito del rifiuto della scienza». Per Amoroso quella di Caffè è la solitudine di un riformista che non accetta il dissolvimento dei valori, la regressione culturale in atto.
L’altro mistero - dice Giorgio Lunghini, un economista importante con cui Caffè ha intrattenuto rapporti di lavoro e di amicizia - è questo: perché mai un liberale ha scritto così spesso su un quotidiano comunista, «il manifesto»? Lunghini ne dà una risposta ironica e persuasiva, soprattutto coerente con il pensiero di Caffè. «Una spiegazione ragionevole è che Caffè vedeva nel “manifesto” l’unico giornale il cui direttore non poteva imporgli di scrivere, non poteva rampognarlo per quanto avrebbe scritto e non poteva pagarlo: la condizione ideale per un uomo libero».
Federico Caffè, la passione civile e l’impegno accademico di una vita trascolorate nel silenzio, con narrazioni senza più nessi, come sogni.

Il Sole Domenica 27.11.16
Maturazione del cervello
Prima infanzia senza ricordi
di Arnaldo Benini


Nel 1895 la psicologa americana Caroline Miles attirò l’attenzione sulla mancanza di ricordi dei primi 3-4 anni di vita, un periodo del quale non si ricorda nulla ( American J. of Psychology 6, 534-558, 1895). In 89 bambini, l’età media dei primi ricordi era di 3 anni e 4 mesi, quella minima di 2 anni e 9 mesi. Si ricordavano nonni, malattie, morti e nascite in famiglia. Durante i primi 3-4 anni di vita i bambini hanno una grandissima facilità ad imparare, ad esempio la lingua madre (a volte anche più di una). Ma la memoria episodica è come se non esistesse, anche se esperienze di quel periodo possono condizionare inconsciamente la vita. È provato, ad esempio, che situazioni minacciose o paurose a quell’età predispongono a depressione, ansietà e a disturbi dell’umore. Come possono eventi dimenticati condizionare la vita?
Da oltre un secolo si cercano i meccanismi di questo paradosso. Sigmund Freud, nel 1915, parlò di Kindheitsamnesie (amnesia infantile, AI), sospettando che fosse dovuta alla repressione attiva dell’inizio della sessualità. Per questo la rimozione, secondo Freud, sarebbe stata orientata alla sola sessualità, cioè non tutto sarebbe stato dimenticato: in realtà la AI è totale. Oltre a varie teorie di psicologia cognitiva, si pensò che la memoria episodica si sviluppasse assieme al linguaggio e alla consapevolezza di sé. Da quando si sa che la AI è comune anche ad animali, come cavie e topi, le spiegazioni rigorosamente antropomorfiche hanno lasciato il posto alla ricerca sperimentale.
Secondo una delle recenti teorie, corroborata in topi e cavie, la causa della AI sarebbe, paradossalmente, la neurogenesi molto attiva nei primi anni di vita, quando nuove cellule sostituirebbero continuamente quelle preesistenti nell’ippocampo (piccolo organo nel mezzo dei lobi temporali) per cui niente si fisserebbe stabilmente. La AI regredirebbe quando la neurogenesi, al terzo-quarto anno di vita, rallenta il ritmo (si veda Il Sole 24 Ore dell’8 agosto 2015).
Dal Centro di scienze del sistema nervoso dell’Università di New York si propone un’altra teoria, più convincente, basata sullo studio strutturale e chimico della parte posteriore dell’ippocampo, che è l’organo chiave della memoria episodica e semantica, oltre che del senso dello spazio e del tempo. La teoria intende rispondere alle domande se la AI è una mancanza di trasmissione dell’informazione dai meccanismi della memoria a quelli della coscienza, oppure un difetto dell’archiviazione dell’esperienza o del richiamo.
Gli autori hanno scoperto meccanismi molecolari alla basedella AI che aprono prospettive nuove nello studio della memoria e della maturazione del cervello. L’analogia funzionale e strutturale fra ippocampo umano e quello dei topi consente studi sperimentali i cui dati, con molte cautele, possono essere riferiti all’uomo, nel quale tali esperimenti sono impossibili. Essi sono raffinati e complicati e qui si riassumono i risultati.
Uno stimolo doloroso (una scarica elettrica in un piede) è applicato a topi di 17 giorni, che, dopo circa mezz’ora, tornano nel luogo dello stimolo, ovviamente dimenticato. Se è applicato a topi di 24 giorni, rimane nella memoria e il luogo che provoca il dolore è evitato a lungo. Nei primi topi, nonostante la dimenticanza, un nuovo stimolo provoca una reazione più vivace della prima scarica dimenticata, che quindi in qualche modo era registrata.
L’AI sarebbe dovuta quindi principalmente ad un difetto del richiamo. Bloccando l’attività della parte posteriore dell’ippocampo con elettrodi non c’è alcuna fissazione del ricordo, anche nei topi di 24 giorni, a conferma del suo ruolo chiave. Ogni passo del meccanismo della memoria è caratterizzato da modificazioni chimiche dei recettori del glutammato nelle sinapsi dell’ippocampo, diverse a seconda dell’età. Inducendo nell’ippocampo dei topi di 17 giorni la stessa situazione chimica di quelli di 24 giorni, il ricordo é pari a quello dei topi più anziani. Gli eventi che non tornano alla mente sono nondimeno codificati in modo latente nell’ippocampo ancora immaturo e influenzano, nel futuro, il comportamento. L’AI nei mammiferi e nell’uomo sarebbe dovuta sostanzialmente all’immaturità fisica e chimica dei circuiti dell’ippocampo. Nei topi essi sono maturi a 24 giorni, nell’uomo verso la fine del terzo anno di vita.
Questi dati potrebbero influenzare lo studio dei meccanismi dell’apprendimento, cioè della memoria semantica. Sono importanti anche per l’educazione: bambini piccoli, anche se sembrano inconsapevoli, dovrebbero essere protetti da esperienze traumatiche, non solo fisiche ma anche psicologiche. Facile a dirsi, ma, per quel che succede ogni giorno nel mondo, quasi impossibile a farsi.
A. Rudenko, L-H.Tsai The ippocampus grows up, Nature Neuroscience 19,
1190-1191, 2016; A. Travaglia, R.Bisaz, E.S.Sweet, et al. Infantile amnesia
reflects a developmental critical period of hippocampal learning, Nature Neuroscience 19, 1225-1336,2016

Il Sole Domenica 27.11.16
Romanzo fisico
Oltre la spalla di Dio
Jérôme Ferrari si concentra sulla consapevolezza di Heisenberg su potenzialità e limiti del linguaggio
di Vincenzo Barone


Alla fine di maggio del 1925 Werner Heisenberg, giovane promessa della fisica teorica, è colto da una violenta allergia da polline. Per superarla si rifugia a Helgoland, una piccola isola brulla nel Mare del Nord, portandosi dietro gli appunti su cui sta lavorando e il Divano occidentale-orientale di Goethe. Nei dieci giorni successivi, in quell’angusto e remoto pezzo di terra privo di vegetazione nasce la meccanica quantistica. È l’episodio evocato nel folgorante incipit dell’ultimo romanzo di Jérôme Ferrari (già vincitore del Premio Goncourt 2012), Il principio: «A ventitré anni, su quell’isolotto desolato in cui non spuntano fiori, per la prima volta le è stato dato di guardare oltre la spalla di Dio. Nessun miracolo, naturalmente, e in realtà niente che somigliasse da vicino o da lontano alla spalla di Dio, ma per riferire ciò che è successo quella notte possiamo scegliere soltanto, nessuno lo sa meglio di lei, tra la metafora e il silenzio».
A dialogare a distanza con Heisenberg è uno studente di filosofia (alter ego dell’autore), che, alla vigilia della caduta del Muro di Berlino, deve affrontare un esame universitario sulle opere filosofiche dello scienziato tedesco. L’esame andrà male, ma il giovane, abbandonati gli studi umanistici e diventato un uomo d’affari, proseguirà nella sua frequentazione ideale del fondatore della meccanica quantistica, continuando a interrogarlo e a confrontarsi con lui. Il racconto che ne viene fuori ha una struttura discontinua, per balzi temporali, e non potrebbe essere diversamente, dato che «la nuova fisica […] ha fatto esplodere tutte le linee continue in una serie spezzata di avvenimenti discreti separati da oscuri baratri» e «forse neanche la linea del tempo è stata risparmiata». Saltando da uno stato quantico a un altro, incontriamo gli Heisenberg succedutisi nel tempo: lo scienziato insigne e celebrato, il patriota fedele alla Germania di Hitler, il leader del progetto nucleare nazista, il prigioniero a Farm Hall (dove i fisici tedeschi apprendono di essere stati battuti dagli americani nella corsa alla bomba atomica). Fino al Werner Heisenberg precocemente invecchiato del Dopoguerra, che riflette sul destino della scienza e dell’umanità: memorabile, e splendidamente rappresentato, è il suo incontro con Heidegger, nel 1953 a Monaco, dove i due – alla presenza di un altro grande e discusso intellettuale tedesco, Ernst Jünger – riflettono sulla tecnica (non più «prodotto di sforzi umani consapevoli», dirà Heisenberg, ma «evento biologico su larga scala… per sua natura sottratto al controllo dell’uomo»).
Oltre la spalla di Dio, nei giorni di Helgoland, Heisenberg scopre che la realtà, nei suoi aspetti più profondi, è inconcepibile nei termini della fisica tradizionale e dell’esperienza comune; si rende conto, con la disinvoltura tipica della giovinezza ma non senza una certa inquietudine, che «non rimangono vestigia del mondo descrivibili nel linguaggio degli uomini, c’è solo la forma pallida dei matematici, silenziosa e temibile, c’è la purezza delle simmetrie, lo splendore astratto della matrice eterna». Due anni dopo, tenta di rendere tutto ciò “visualizzabile” (anschaulich) con il suo principio di “indeterminazione”, o di “incertezza” (Unbestimmtheit è il termine originale tedesco), che dà il titolo al romanzo: la posizione e la velocità di una particella (e altre coppie di grandezze coniugate) non possono essere misurate simultaneamente con assoluta precisione; determinare esattamente l’una significa condannare l’altra alla totale vaghezza. Non si tratta di un impedimento sperimentale, ma di un limite intrinseco della natura e degli stessi concetti che usiamo per rappresentarla: una scoperta difficile da esprimere a parole, che «si rende di colpo comprensibile in un’equazione talmente semplice e concisa da mascherare la propria tossicità».
Sarebbe stato comodo, ma certamente banale, costruire una narrazione attorno alle tante suggestioni che parole come “indeterminazione” o “incertezza” (incastonati peraltro nella più enigmatica delle teorie fisiche) possono suscitare. Ferrari è scrittore troppo raffinato per cadere in questa trappola; né d’altronde si può pensare che il mondo degli atomi straripi a tal punto da scolorire e rendere sfumato tutto, compresi i pensieri, che «possono essere perfino contraddittori, ma non sono indeterminati». Il principio non è lo svolgimento di una metafora, ma un discorso sulle metafore, come unica alternativa che si offre a chi, guardando in fondo alle cose, «si rifiuta di risolversi al silenzio». Il vero tema del libro, in altri termini, è il linguaggio. Heisenberg è lo scienziato che più di qualunque altro ha inteso la propria ricerca – in maniera costante e sistematica – come un’esplorazione delle potenzialità e dei limiti del linguaggio, e il romanzo di Ferrari, sofisticato come il suo soggetto, e tuttavia ricco di pathos e di umanità, ce lo ricorda molto bene.
A Gottinga, in occasione del loro primo incontro, Bohr spiega al giovanissimo Heisenberg, ancora studente, che la sua vocazione di fisico è anche una vocazione di poeta, perché nel mondo degli atomi il linguaggio va usato come nella poesia, per creare immagini e stabilire connessioni. Heisenberg capirà presto che non si può pretendere che la realtà si lasci «ammansire dai concetti familiari del linguaggio degli uomini» e che bisogna pertanto, come fanno i poeti, «superare all’infinito le risorse della lingua per dire ciò che non può essere detto». Le pagine più affascinanti del suo saggio filosofico del 1942 rimasto inedito, Ordinamento della realtà, sono dedicate proprio a questo tema. Ogni conoscenza, osserva Heisenberg, ha un carattere “oscillante” tra due estremi complementari e simultaneamente irrealizzabili: la precisione dei concetti e la loro pregnanza, la concatenazione logica e la vivezza della parola, l’idealizzazione e la realtà. Alla fine, delle cose ultime non si può che parlare per metafore, o con l’astrazione matematica, anch’essa in fondo una sorta di metafora.
Recitano i versi del mistico sufi Al Niffari, posti in esergo al romanzo: «Tra la parola e il silenzio c’è un istmo in cui si trovano la tomba della ragione e la tomba delle cose». È il territorio in cui Heisenberg si è inoltrato con il suo principio e, in un certo senso, lo scenario di tutta la sua vita, che Ferrari ci restituisce in forma narrativa con grande sensibilità.
Jérôme Ferrari, Il principio , trad. di A. Bracci Testasecca, Edizioni e/o, Roma, pagg. 144, € 14

Il Sole Domenica 27.11.16
Post-verità
Cinquanta sfumature di né vero né falso
di Paolo Legrenzi


L’Oxford Dictionary si arricchisce ogni anno di una nuova parola. Nel 2016 ha scelto «post-truth», un termine che descrive il nuovo mondo del «dopo-verità». Il termine non allude alle panzane dei politici. Da sempre, in occasione di uno scontro acceso, volano molte frottole. Stefano Pivato ha ricostruito nel saggio Quando i comunisti mangiavano i bambini la storia di quella che probabilmente è l’invenzione più riuscita della propaganda anti-comunista nelle elezioni del 1948. Nel manifesto un bimbo indifeso si rivolge al padre: Papà salvami!
La post-verità è altra cosa. Abbiamo a che fare con la creazione di un fatto preciso che si presume accaduto e documentabile. Ma è post-vero, nel senso che è solo verosimile. A nessuno importa controllare se è falso. In questo senso il post-vero è inattaccabile perché è anche post-falso. Un caso recente mostra come funzionano le cose. La storia inizia a Austin, in Texas, quando Eric Tucker, alle 8 di sera del 9 novembre, mette su Twitter la foto di un autobus e commenta: «Le proteste anti-Trump non sono così spontanee come sembra. Ecco l’arrivo dei partecipanti». In quel momento solo 40 persone seguono i messaggi di Tucker. Sapendo della protesta nella sua città, e trovata una foto su Google, Tucker suppone (in buona fede, dice lui) che l’autobus sia quello usato dai dimostranti (in realtà si tratta di partecipanti a una conferenza). Il giorno dopo, alle 12.49, l’immagine compare sul sito di Trump. In poco tempo la notizia rimbalza 16mila volte su Twitter e 350mila volte su Facebook. La compagnia degli autobus smentisce. Eric Tucker, interpellato dai giornalisti, spiega: «Ero rimasto colpito dall’immagine degli autobus e sapevo delle proteste». Ammette però: «Non ho visto le persone con i miei occhi». Trump commenta: “Molto scorretto. I professionisti della protesta incitati dai media”. A quel punto Tucker toglie la notizia dal suo sito. Troppo tardi. La valanga procede. A mezzanotte Tucker rimette sul sito la foto con la scritta: FALSO. Riceve solo 29 risposte. Nessuno gli bada più. Dopo una settimana i suoi seguaci sono diventati 980 e Tucker, ingenuo, confessa: «Cercherò in futuro di fare affermazioni meglio documentate«. Tucker non conosce le regole con cui funziona l’attenzione, selezionata dall’evoluzione naturale per essere risucchiata da aspettative e schemi già predisposti.
In questa storia si manifesta tutta la nuova potenza della rete, ma ci sono anche tracce d’antico. Gaetano Kanizsa, il fondatore dell’istituto di psicologia di Trieste, nel 1952 presenta a 23 studenti di una scuola di assistenti sociali un test che consiste nel tracciare uno scarabocchio senza mai staccare la matita dal foglio. Si dice che la forma dello scarabocchio permette una diagnosi di personalità. In realtà Kanizsa presenta la stessa descrizione di personalità a tutti i partecipanti. È uguale, ma è fatta bene, in modo apparentemente circostanziato: la maggioranza dei partecipanti vi si ritrova. Paolo Zordan, nel 2000, ripete l’esperimento con 28 studenti del quinto anno di una facoltà di psicologia. Tutti gli studenti, tranne uno, credono che la diagnosi sia aderente, non inventata. Credono perché desiderano credere. E desiderano credere perché vogliono diventare psicologi clinici. Questo meccanismo di auto-inganno, per lo più inconsapevole, oggi riesce a nutrirsi delle miriadi d’informazioni presenti in rete. Una persona sceglie quelle che le danno ragione e può capitarle di innescare gruppi di seguaci.
La quintessenza dell’incapacità di pensiero critico, la totale mancanza di buona logica.
Chiamato in causa, il co-fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, risponde: «Non siamo arbitri della verità!» (come fare con 1.8 miliardi di utilizzatori?).

Il Sole 27.11.16
XVI secolo
Lepanto, libertà e vendetta
La battaglia pose fine al giogo di 12mila schiavi cristiani che spezzarono le catene
e compirono razzie e uccisioni di ottomani, in concorrenza con i soldati della loro fede
di Noel Malcolm


La battaglia si concluse nel tardo pomeriggio. Man mano che il combattimento scemava e le nubi di fumo pungente cominciavano a diradarsi, uno spettacolo di enorme devastazione accolse i sopravvissuti. Per usare le parole di Ferrante Caracciolo, «il mare era pieno d'huomini morti, di tavole, di vesti, d'alcuni Turchi, che fuggivano a nuoto, d'altri che affogavano, di molti fracassi di vascelli, che ardevano, & altri che andavano a fondo». Bartolomeo Sereno tratteggiò un'immagine simile: tra i relitti in fiamme, l'acqua era «piena di giubbe, di turbanti, di carcasse, di frecce, di archi, di tamburi» e altri oggetti, oltre a una gran quantità di uomini, ancora vivi, ma morenti a causa delle ferite, che i soldati cristiani finivano a «colpi di archibugiate e di zagagliate». Alcuni dei soldati e marinai ottomani che riuscirono a nuotare fino alle navi cristiane e ad attaccarsi alle loro fiancate si videro tagliar via le mani, mentre altri furono tirati a bordo nella speranza di ottenere un riscatto o di ricavarne dei soldi vendendoli come schiavi.
Per molti sulle galee ottomane, d'altro canto, la fine della battaglia significò la libertà tanto agognata: furono liberati più di 12.000 schiavi cristiani. Alcuni erano donne e bambini, catturati durante i raid dei contingenti ottomani nei territori veneziani nella prima parte dell'anno – tra loro gente di Dulcigno e Antivari, che era stata trattenuta infrangendo gli accordi stipulati al momento della resa di quelle città. Molti erano schiavi sulle galee, che sedevano incatenati ai loro banchi, in condizioni drammatiche, spingendo le navi con i remi; di questi, molte migliaia avevano fatto parte della flotta sin da quando era salpata da Istanbul all'inizio della campagna, ma molti erano stati acquisiti con le razzie, andando a rimpolpare i ranghi delle galee, decimati dalle malattie e dalle diserzioni. Come afferma un cronista del tempo, «quando udirono il grido ‘Vittoria! Vittoria!', spezzarono le loro catene e, con le armi che erano state abbandonate dagli ottomani, causarono caos e morte, vendicandosi di tutti gli abusi e le crudeltà subite». Se riuscivano a uccidere quel che restava dei soldati e dell'equipaggio ottomano, il passo successivo era quello di setacciare la galea – e gli indumenti degli ottomani morti – alla ricerca di oggetti preziosi. In questa operazione però dovevano vedersela con la concorrenza dei soldati cristiani, che si riversarono sulle navi nemiche in caccia di bottino. […]
In queste circostanze accadde il peggior incidente di tutta la storia della battaglia di Lepanto. Tra gli schiavi sulle galee ottomane, c'era l'arcivescovo Giovanni Bruni che, come molti del suo gregge, si era vista negare la libertà promessa. I nuovi padroni erano ben consapevoli del suo status, ma sapevano anche che si era opposto con decisione alla resa di Antivari, per cui avevano deciso di umiliarlo pubblicamente mettendolo a remare sul banco di una galea (insieme al nipote Nicolò, il comandante degli stradioti di Dulcigno). Fu su quella galea che Giovanni e Nicolò andarono incontro alla morte. Una relazione veneziana prossima agli eventi affermava che erano stati «ammazzati per mano de Turchi»; un resoconto più tardo, inviato ai gesuiti a Roma, diceva che erano stati entrambi giustiziati dagli ottomani mentre ancora infuriava la battaglia. In realtà furono uccisi da soldati cristiani. Alla fine del XVII secolo dicerie su questo fatto erano trapelate nella regione: l'arcivescovo di Skopje scrisse che «nel primo assalto» Bruni era stato decapitato da alcuni soldati che lo avevano preso per un ottomano. Più tardi, la tradizione di famiglia di un nobile dalmata raccontava la stessa storia: Bruni era stato ucciso per errore «al momento in cui la galea fu presa». La realtà era però anche peggio.
Questo testo è tratto dal libro di Noel Malcolm, Agenti dell’impero. Cavalieri, corsari, gesuiti e spie nel Mediterraneo del Cinquecento, traduzione di Aglae Pizzone, Hoepli, Milano, pagg.578, € 39,90, da domani in libreria

Il Sole Domenica 27.11.16
I 70 anni di Emilio Gentile
Il nostro storico più tradotto
di Raffaele Liucci


Le prime tracce di Emilio Gentile nella storia d’Italia sono riportate nel diario di Giuseppe Prezzolini. Il 20 agosto 1965, l’allora ottantatreenne fondatore della «Voce» annotava di aver conosciuto «un giovanissimo studente di liceo della provincia di Campobasso. Mi mandò un suo compito su Dante dandomi del tu! Gli risposi che poteva darmi del tu, del voi e del lei, non avrebbe cambiato nulla delle nostre relazioni». L’8 novembre, dopo aver pranzato con lui, il burbero Prezzolini confesserà di aver «concepito stima e simpatia» per quel volenteroso virgulto: destinato a diventare non soltanto suo «intimo amico e collaboratore», come ricorderà dodici anni più tardi, ma anche uno storico di fama internazionale, il nostro contemporaneista più tradotto nel mondo. Dagli studi sul «culto del littorio» a quelli sulle «religioni politiche», lo sguardo di Gentile ha aperto nuovi orizzonti storiografici e antropologici per comprendere la nostra inquietante modernità, spesso in balia di miti autodistruttivi. Senza dimenticare le sue ricerche di storia culturale della Grande Guerra e quelle, apripista, sul problema dell’Italia nazione difficile, avviate negli anni Ottanta, quando il tema era piuttosto negletto.
Prezzolini resterà una stella fissa nel pantheon di Gentile, tanto che il professore della Sapienza sta ancora lavorando, ormai da decenni, alla sua biografia “definitiva”, frutto di lunghe ricerche in archivi italiani ed esteri. Un tomo che coronerà le sue indagini sull’opera dell’intellettuale fiorentino, cui ha dedicato fra l’altro il libro d’esordio del ’72 e una fortunata antologia della «Voce», curata insieme allo stesso Prezzolini nel ’74. Sarebbe però fuorviante definire Gentile un prezzoliniano di stretta osservanza. Del «vociano» ha sempre ammirato l’intraprendenza culturale, l’indipendenza, «l’atteggiamento disperato verso la vita». Ma Prezzolini fu anche uno schietto antidemocratico (soprattutto nella seconda metà della sua esistenza, trascorsa quasi sempre all’estero) e un «antitaliano» un po’ inacidito. Il che non può certo dirsi di Gentile: autore di preoccupati volumi e interventi sullo sfilacciarsi del nostro sentimento nazionale e sulla fragilità degli istituti democratici.
Oltre a Prezzolini, gli altri due suoi grandi interlocutori sono stati Renzo De Felice (1929-96) e George L. Mosse (1918-99). Fu proprio grazie a Prezzolini se Gentile entrò in contatto con De Felice, il quale lo aiutò a muovere i primi passi nell’università, come studioso di storia contemporanea, dopo il primigenio entusiasmo per il medioevo. Quando sotto la sua ala protettiva il giovane storico pubblicò nel 1975 una monografia pionieristica sulle «origini dell’ideologia fascista» (ora nel catalogo del Mulino), il professore torinese Guido Quazza lo accusò di mirare «sostanzialmente alla riabilitazione del fascismo». Erano gli anni delle feroci polemiche fra «defeliciani» e «antidefeliciani». Questi ultimi in genere negavano al fascismo ogni profilo culturale e ideologico, dipingendolo come pura barbarie. Ma l’accusa di Quazza era davvero surreale, anche alla luce dei successivi libri sfornati dallo studioso molisano.
Se c’è infatti uno storico che abbia restituito un’immagine implacabile del fascismo, è stato proprio Gentile. Dalle sue pagine l’Italia del ventennio spicca come un Paese plasmato da un regime opprimente e totalitario, capace di permeare con la propria ideologia ogni minuscolo anfratto della società. Una prospettiva terrificante, per chiunque abbia a cuore l’autonomia dell’individuo, figlia dell’illuminismo. Gentile spinge il lettore a queste conclusioni senza esibire alcun moralismo, ma cercando di calarsi nel proprio oggetto di studio, ossia nel mondo mentale dei protagonisti di allora e nel loro disegno di forgiare un Uomo e uno Stato nuovi. Un progetto concreto, da lui ricostruito non soltanto nella liturgia, ma – va sottolineato – anche nella prassi quotidiana: violenta, soffocante, inesorabile. Con buona pace della vulgata dolciastra che, per usare le parole dello stesso Gentile, ha oggi «defascistizzato il fascismo», svuotandolo dei contenuti antidemocratici e razzisti.
A De Felice, «storico» e anche «personaggio», Gentile ha dedicato nel 2003 un denso volumetto, grato ma non agiografico. Se ci furono fra loro delle disparità (dalla freschezza di scrittura al giudizio sulla natura più o meno totalitaria del regime), queste non intaccarono la profonda stima reciproca. Gentile ha poi ritratto in una monografia del 2007 (Carocci) anche il suo terzo sodale, il grande storico tedesco naturalizzato statunitense Mosse, con cui intrattenne «una lunga amicizia intellettuale». Sarebbe tuttavia improprio circoscrivere Gentile a «erede» di Mosse e considerare Il culto del littorio (Laterza, 1993), il suo lavoro più iconico, una versione italiana del celebrato libro del tedesco, La nazionalizzazione delle masse (1974). Accomunati dalla curiosità per l’irrazionalismo politico e i suoi riti, i due studiosi hanno scelto un approccio diverso. Mosse più interessato ai risvolti culturali, Gentile attratto anche dalla dimensione politica e organizzativa (si vedano i suoi studi sul rapporto fra partito e Stato nel regime mussoliniano). Inoltre, Mosse e Gentile hanno affrontato contesti storici differenti. Il nazismo giunse al culmine di un processo secolare di nazionalizzazione delle masse, mentre il fascismo creò quasi ex novo «una religione laica incentrata sulla sacralità della nazione». È questo il succo dell’innovativa interpretazione di Gentile, suffragata da una ricca messe di reperti archivistici e iconografici. In un certo senso, la sua metodologia storiografica riflette una sorta di sintesi hegeliana fra De Felice (concentrato sui capillari spogli d’archivio) e Mosse (propenso ai grandi affreschi).
Per festeggiare i primi 70 anni del professore emerito della Sapienza, gli allievi hanno preparato una silloge di studi in suo onore, intitolata Il primato della politica nell’Italia del Novecento. Il XX fu il secolo della politica, ma fu anche il secolo in cui questo primato conobbe le sue degenerazioni più esiziali, come documentato dai lavori di Gentile. Ecco dunque alternarsi una serie di temi collaterali: la fortuna nell’Italia liberale del pensatore vittoriano Thomas Carlyle, poi rivendicato dal fascismo alla stregua di un proprio precursore (Lorenzo Benadusi); l’Istituto di Studi Romani sotto il regime (Donatello Aramini); le parole e i discorsi del fascismo (Alessandra Tarquini); i fasci italiani all’estero (Fabrizio Soriano); il culto di Palmiro Togliatti (Pierluigi Allotti) e il mito politico nella cultura della Dc (Paolo Acanfora). Non stupisca l’ampiezza dell’arco temporale. Come ci ha insegnato Gentile, il fascismo fu la manifestazione di un fenomeno ben più ampio, nel quale la passione politica non può essere ridotta soltanto a discorso o a ideologia, ma diventa un immaginario collettivo, replicabile in ambiti diversi. Per questo il culto di Togliatti rievoca quello del duce, mentre la sacralizzazione della politica fiorita sotto il regime littorio sarà rimasticata dalla cultura democristiana.

Il Sole Domenica 27.11.16
Due o una sola camera?
Costituente, dibattito istruttivo
di Sabino Cassese


Il leader socialista Pietro Nenni, all’Assemblea costituente, si pronunciò contro il bicameralismo sostenendo che esso costituiva una minaccia per la funzione legislativa, potendo bloccare qualsiasi legge. Un altro socialista, Lelio Basso, si pronunciò contro una seconda camera composta di rappresentanti di interessi economici e sociali. Emilio Lussu fu ancora più critico, sostenendo che il Senato fascista era stato «una stalla» e che una seconda camera sarebbe stato un «duplicato vano», «una specie di dama di compagnia». Alberto Giacometti, anch’egli socialista, affermò, ribattendo alla critica per cui una camera unica avrebbe portato quasi inevitabilmente alla dittatura di un uomo, che la seconda camera era «la Camera della paura».
Non furono da meno i comunisti, alla Costituente, nel criticare il bicameralismo. Un deputato Pci, Vincenzo La Rocca, osservò che «o il Senato esprime la stessa volontà della Camera dei deputati e non serve a niente; o esprime una volontà diversa, e allora una delle due camere riflette meno fedelmente dell’altra la volontà del Paese». Il comunista Gullo si battette per «evitare un inutile doppione». Infine, Togliatti osservò che quelle sul bicameralismo erano «norme ispirate dal timore».
Per misurare la distanza delle posizioni della sinistra rispetto a quelle della Democrazia Cristiana, basti ricordare che Umbero Tupini, presidente della prima sottocommissione, quella che doveva redigere la prima parte della Costituzione, pensava che il bicameralismo dovesse «integrare e rendere più sicura la democrazia».
Queste e altre opinioni critiche della sinistra nel corso del dibattito parlamentare sulla Costituzione sono ora raccolte nel volume in due tomi, a cura di Gian Luigi Capurso, che raccoglie gli interventi all’Assemblea costituente dei parlamentari socialisti e comunisti, interventi che spaziano su tutti i tempi principali della Costituzione, ma che riguardano principalmente i diritti sociali, i rapporti Stato – Chiesa, la magistratura, le autonomie e la scuola, nonché il tema, ridiventato d’attualità, del bicameralismo. Questo volume fa seguito ad altri due volumi, anche essi in due tomi, che raccolgono il primo tutti i Quaderni del Partito d’Azione, l’altro una scelta degli articoli pubblicati da «Cronache sociali» (la rivista di Dossetti). In questo modo, la casa editrice ha contribuito a ricostruire il dibattito pre-costituente e costituente sulla Costituzione.
La lettura di quel dibattito fa emergere due punti importanti. Il primo riguarda le rispettive posizioni di socialisti e comunisti e di democristiani. Ora, i primi erano fortemente contrari alle due camere, che in un primo momento erano però considerate come corpi differenziati, con investiture e composizione diverse. La ragione era che così si poteva falsare la volontà popolare. Emerse poi il compromesso, quello di avere due camere sostanzialmente simili, che potessero riflettere nello stesso modo l’elettorato. Così Togliatti e De Gasperi furono ambedue soddisfatti, meno la sinistra democristiana, Dossetti e Lazzati, che erano monocameralisti e furono convinti da De Gasperi a non opporsi all’altra tesi.
Il secondo punto riguarda le radici storiche del dibattito tra monocameralisti e bicameralisti, che trovano echi in molti interventi socialisti. Il dibattito ebbe origine con la Rivoluzione francese, quando Sieyès si oppose al bicameralismo spiegando che questo codificava la divisione della società in classi e propose un sistema di garanzie che prefigurava un controllo di costituzionalità delle leggi. Il problema si affacciò nuovamente nel 1848, quando la commissione per la Costituzione venne chiamata a decidere, optando per il monocameralismo. Ne dette un resoconto un autorevole membro della commissione, Alexis de Tocqueville.
L’argomento di Sieyès ridiventa attuale, ora che si sono diffuse giustizia costituzionale e corti costituzionali e, accanto a queste, altri legislatori, come quello europeo e quelli regionali.
Autori vari, La rivoluzione, la Costituzione. Quello che il movimento socialista voleva nell’Assemblea costituente, vol. I, I principi fondamentali, vol. II L’edificazione della Repubblica , a cura di Gian Luigi Capurso, Il settimo libro, Gorgonzola, pagg. 255 e 263, € 36