sabato 26 novembre 2016

Avvenire 25.11.16
Teatro classico. Salvatore Natoli: «Edipo, l'enigma all'interno di ognuno di noi»
di Alessandro Zaccuri


Tra libertà e destino: il filosofo Salvatore Natoli rilegge la figura centrale della tragedia antica, in scena a Milano con Glauco Mauri

Uccide il padre, sposa la madre, trasmette la maledizione ai figli concepiti in quell’unione colpevole. Eppure, nonostante tutto, Edipo è tra le figure del mito non solo maggiormente indagate (il proverbiale “complesso” teorizzato da Sigmund Freud è la più celebre, non la più convincente tra molte interpretazioni elaborate nei secoli), ma anche maggiormente disponibili a una rilettura in prospettiva cristiana. Una stranezza, almeno in apparenza. Ma il filosofo Salvatore Natoli suggerisce una spiegazione più che motivata. «Il punto è – osserva – che la storia di Edipo ci è nota in particolare attraverso Sofocle e Sofocle è il più religioso fra i tragici greci, il più aperto alla dimensione della pietà e del perdono». Edipo ritorna, dunque, ma in effetti non se n’è mai andato. In questi giorni al Teatro Franco Parenti di Milano va in scena il dittico composto dalle opere sofoclee di cui il personaggio è protagonista, Edipo re ed Edipo a Colono, e contestualmente viene proposto un ciclo di conferenze, Riflessioni sul tragico, che prevede la partecipazione di studiosi quali Maurizio Bettini (30 novembre) ed Eva Cantarella (2 dicembre). A inaugurare gli incontri, questa sera alle 18, è appunto Natoli, al quale è affidato un tema più che impegnativo: Libertà e destino nella tragedia greca. Ma lo studioso non si scompone e ribadisce che è proprio da lui, da Edipo, che occorre partire.
Perché, professore?
«Perché la sua è la tragedia per eccellenza, come già sosteneva Aristotele – risponde –. Una peripezia in senso tecnico, ossia un vagare da un luogo all’altro, che però non coinvolge un dio o un semidio, ma quello che saremmo tentati di definire l’uomo medio. L’umanità media, anzi. Qualcuno che ci assomiglia e che, come capita a ciascuno di noi, trova ad affrontare i dilemmi e le contraddizioni dell’esistenza. Per i greci, del resto, la realtà intera si presenta sotto la cifra dell’antinomia, dell’enigma, addirittura della doppiezza: tutti elementi che richiedono una costante decifrazione da parte dell’uomo».
In questo Edipo è un esperto, no?
«Fino a un certo punto. Non c’è dubbio che lui e lui soltanto riesca a risolvere il famoso indovinello della Sfinge, ma è una vittoria parziale. Edipo è a conoscenza della profezia che lo destina a uccidere il padre e sposare la madre. Anche a questo enigma prova a tenere testa, d’accordo, ma senza mai interrogarsi su se stesso. Ed è per questo che, fuggendo da colui che crede sia suo padre, finisce per imbattersi nel vero padre. Uccidendolo, sposandone la vedova, realizzando la profezia che si illudeva di aver aggirato».
Da dove viene questo fraintendimento?
«Dal fatto che l’enigma del tragico non si situa sul piano esclusivamente logico, è invece un conflitto tra potenze esterne all’uomo, dalle quali l’uomo stesso rischia sempre di essere schiacciato. Nella sua espressione più radicale, l’enigma è quello che ciascuno di noi ignora di se stesso. Il tragico esprime questa lacerazione profonda dell’esistenza, questo destino di morte insito nella vicenda umana fin dal momento della nascita. Così considerata, la vita non può essere se non sfida, battaglia, agone».
Si tratta di una condizione universale?
«Con una distinzione necessaria. Il tragico si manifesta anche nel mondo contemporaneo, ma in un orizzonte post-cristiano, di perdita e smarrimento. Il tragico greco, al contrario, scaturisce dalla natura. Fa perno sulla mancanza di identità e nello stesso tempo la ricostituisce attraverso la peripezia. Edipo conosce finalmente se stesso grazie al viaggio, altrimenti erratico, che da Tebe lo porta a Colono, alle porte di Atene, dove lo attende l’accoglienza ospitale di Teseo, ovvero la svolta capace di dare soluzione alla contraddizione del tragico».
Vuol dire che l’enigma arriva a uno scioglimento?
«Sì, è un’altra caratteristica che differenzia il tragico antico dal moderno. La struttura della trilogia greca prevede che, alla fine, una soluzione ci sia. Meglio ancora, che nell’esperienza della contraddizione l’uomo scopra la misura che gli è propria, secondo una dinamica già intuita da Nietzsche. La catarsi scaturisce da questa consapevolezza e, per compiersi, prende sempre una via obliqua, un detour alternativo al concatenarsi degli eventi. Può accadere per diretto intervento degli dèi, come nell’Orestea di Eschilo, oppure per iniziativa dell’uomo».
È il caso dell’Edipo di Sofocle?
«Esattamente. La figura decisiva è Antigone, il cui atteggiamento non rappresenta semplicemente la rivincita dell’arcaico nei confronti del diritto, come sosteneva Hegel. La mia personale convinzione è che Antigone, in quanto personificazione della pietas, indichi una via d’uscita laterale, e niente affatto arcaica, dalle strettoie della legge: tanto quest’ultima può essere implacabile, tanto la pietà dell’essere umano verso il suo simile si pone sotto il segno della comprensione. Grazie alla pietà, che sostiene le ragioni umane contro la durezza del diritto, la città stessa rivela il suo volto più accogliente, quello che permette a Teseo di prendersi carico dello straniero».
Ma come si realizza allora il rapporto fra libertà e destino?
«Se guardiamo a Edipo, dobbiamo rispondere che per essere liberi occorre conoscere il proprio destino. Il quale, a sua volta, non si colloca nel futuro, custodito magari da un’ambigua preveggenza. No, a condizionare ciascuno di noi è semmai il passato, che è la vera fonte della necessità. Qualcosa che ci spinge, non da cui siamo attratti. In questa chiave, il passato viene a costituirsi come premonizione di un futuro che si presenta sotto la forma della ripetizione, della reiterazione obbligata. Per scardinare questo meccanismo c’è un solo modo».
Quale?
«Fare chiarezza sulle proprie intenzioni. Gnòthi seautòn, il detto delfico solitamente tradotto come “conosci te stesso”, andrebbe inteso nel senso di “sappi che cosa stai domandando”. Affronta l’enigma che tu stesso sei ai tuoi occhi, prima di provare a risolvere l’enigma del mondo. Ma questo Edipo lo comprende solo al termine delle sue peripezie».

Avvenire 19.11.16
Paradossi del XXI secolo. La coscienza?
Libera per le macchine, determinata per l'uomo
di Andrea Vaccaro


L’umana libertà di azione soppiantata da determinismo neurale e macchine pensanti. Ma il principio della “sola materia” genera confusione

Quanto a esseri umani, macchine, coscienza e volontà, la cultura contemporanea sembra spesso leggermente confusa. Consideriamo, ad esempio, il libero arbitrio, anzi l'agency, come è rigorosamente da dirsi oggi, per non rischiar di richiamare le radici cristiane della nostra civiltà. Ebbene, mentre certi neuroscienziati sacrificano l'umana libertà d'azione sull'altare del determinismo neurale, ecco che i tecnologi inneggiano all'ultima generazione di macchine dall'autonomo decision making. In breve, nella nuova narrazione della realtà, le macchine decidono liberamente, mentre gli umani non possono più farlo. Un celebre articolo di Harold J. Morowitz tratteggiava l'assurda situazione della scienza di inizio anni Ottanta quando la biologia spingeva per ridurre il soggetto umano a pura materia fisica e la fisica, contemporaneamente, inoltrandosi negli anfratti della quantistica, riscopriva l'ineliminabile presenza della soggettività proprio nello studio della materia più profonda. «Due treni che sfrecciano a grande velocità in direzione opposta», suggellava Morowitz. Adesso la situazione è ancora più bizzarra. Su un binario, infatti, corre la neuroscienza che – sulla base di esperimenti come quelli di B. Libet (1983), J.- D. Haynes (2008) e, recentemente, A. Bear e P. Bloom ("Psychological Science", aprile 2016) – non solo nega il libero arbitrio, ma addirittura umilia la stessa coscienza. L'io cosciente, in tale prospettiva, è solo un "garzone di bottega" che esegue gli ordini del padrone (l'organo fisico del cervello) e che, forse per darsi un tono, «riscrive la storia» (Bear-Bloom) come se quello che sta eseguendo fosse una propria meditata deliberazione. L'illusione della volontà cosciente (Mit Press 2002) è il titolo di un famoso libro di Daniel Wegner; «fantasia della scelta cosciente» operata da un «burattino biochimico» provoca Sam Harris in Free Will (2012). E mentre alcuni neuroscienziati s'impegnano in quest'opera di demolizione ontologica e morale della coscienza, ecco che però, sull'altro binario, i teorici della tecnologia più avanzata declamano il passaggio dall'era dell'Intelligenza artificiale a quella della Coscienza artificiale, ovvero delle Macchine pensanti e deliberanti autonomamente. Qualcosa suona strano in tutto questo. Che senso ha ingegnarsi a "costruire" una coscienza artificiale quando si va appurando l'ingannevole inutilità di quella naturale? È forse per una forma di sadismo che vogliamo infliggere anche alle macchine tale istanza di auto-imbroglio e nefasta illusorietà? «Il risultato di tutte le nostre invenzioni e del nostro progresso sembra essere che le forze materiali vengono investite di vita spirituale e l'esistenza umana viene degradata a forza materiale»: così, in un'insolita veste profetica, scriveva Karl Marx nella Introduzione alla critica di politica economica. A guardar più approfonditamente, tuttavia, sotto l'appariscente contraddizione c'è un solido denominatore che accomuna neuroscienza e computer science: il paradigma del materialismo riduzionista secondo cui, null'altro sussistendo oltre la materia, l'intero cosmo senti-mentale e spirituale è da negare drasticamente (eliminativismo) oppure da riportare al determinismo fisico (incompatibilismo). Sola materia si potrebbe etichettare tale principio, con una commistione tra luteranesimo e scientismo. E poiché una coscienza (seppur illusoria) scaturisce dalla materia del cervello non si vede perché essa non possa essere prodotta anche dai circuiti debitamente ipercollegati di un computer. Se questa è la tendenza dominante, non v'è tuttavia chi non veda profonde incongruenze e pregiudizi in entrambi i fronti. In ambito neuroscientifico, un ko argument è portato, sul piano logico, da chi osserva come la figura di «una coscienza che definisce illusorie tutte le coscienze» apra ad un tale paradosso da far impallidire «il cretese che dichiara bugiardi tutti i cretesi». Sul piano metodologico, poi, l'obiezione cruciale riguarda il tradimento che gli attuali pronipoti di Galilei attuano nei confronti dello statuto del loro padre fondatore per il quale il dominio delle «qualità seconde» (esperienze soggettive) non è di pertinenza dell'organon scientifico, che ha giurisdizione appunto solo su quello delle «qualità primarie» e oggettive. È contraddittorio insomma che la scienza indaghi il soggettivo con il metodo istituito per conoscere l'oggettivo. Il filosofo americano Arthur Cody ha recentemente sentenziato che, nello studio della coscienza, se l'alternativa è tra il materialismo riduzionista e il nient'altro, allora, in fin dei conti, è da preferire il nient'altro. Parimenti avviene nel settore della Coscienza artificiale, come la stimolante domanda dello scorso anno di "Edge": «Cosa pensi delle macchine che pensano?», ha corposamente mostrato. È vero che per la maggioranza dei partecipanti al forum le macchine, in un futuro imminente, potranno pensare, o addirittura già lo fanno (in borsa, in auto ecc.). Si sono levate tuttavia anche ben distinte voci dissonanti come, ad esempio, quella dello scrittore Tor Nørretranders: «Solo l'amore crea il pensiero», o del fisico Freeman Dyson che sigilla così il suo perentorio «no» alle macchine coscienti: «Se sbaglio, la mia risposta è fuori luogo, ma se ho ragione, è la domanda ad esserlo», o, per citarne solo un altro, del neurobiologo Leo Chalupa che rileva come siano le domande eterne sulle origini, la morte e il senso di sé a far sorgere la coscienza e queste appartengono innatamente solo all'essere umano. Simulacri di coscienze aleggiano nella nostra cultura insieme a coscienze artificiali, paradossali coscienze auto-negantisi e soggettività oggettive: dobbiamo essere comprensivi se le giovani generazioni vengono su un po' disorientate.