MONDO
il manifesto 23.11.16
Un muro per i palestinesi anche in Libano
Ain al Hilwe. L'esercito libanese ha cominciato la costruzione, per presunte ragioni di sicurezza, di una barriera intorno al più grande dei campi profughi palestinesi nel Paese dei Cedri
di Michele Giorgio
Circondati da muri, nella loro terra e ora anche in un Paese arabo. È il destino dei palestinesi, in particolare dei profughi. L’esercito libanese ha iniziato a costruire un muro di cemento alto diversi metri e torri di guardia intorno ad Ain al Hilweh (Sidone) il più grande, con circa 80mila abitanti, dei campi profughi palestinesi nel Paese dei Cedri. Un muro che ufficialmente dovrà impedire che i ricercati, specialmente i jihadisti in fuga, trovino rifugio nel campo ma che ben rappresenta la condizione degli oltre 400mila rifugiati palestinesi in Libano, di fatto segregati nei loro campi, esclusi da decine di lavori, costretti a sopravvivere grazie agli aiuti umanitari internazionali e locali. L’avvio dei lavori della barriera intorno a Ain al Hilwe, progettata nei mesi scorsi e che sarà completata in 15 mesi, coincide con l’ascesa alla presidenza del Libano dell’ex generale Michel Aoun, che non ha mai nascosto la sua storica avversione per la presenza dei palestinesi. E non è insignificante che tutte le formazioni politiche libanesi, incluse quelle che si proclamano dalla parte dei diritti dei palestinesi, siano rimaste in silenzio rispetto a una costruzione che trasformerà in una enorme prigione.
Sono deboli e isolati i palestinesi in Libano, non in grado di impedire la realizzazione di questo “muro della vergogna”. Anzi hanno dovuto fingere di aver coordinato il progetto con le autorità libanesi. «Il muro è stato costruito al di fuori del campo e lontano dalle aree abitate, queste costruzioni servono a risolvere problemi di sicurezza», si è affannato a spiegare il generale Mounir al Maqdah, capo della sicurezza palestinese ad Ain al Hilwe. Anche al Maqdah però ha dovuto riconoscere che il muro avrà un effetto negativo sugli abitanti del campo. «Le implicazioni psicologiche di questo muro saranno negative e difficili da superare» ha ammesso, aggiungendo che l’esercito ha accettato alcune modifiche al percorso della barriera e alle posizioni delle torri di guardia. In rete però le proteste sono aumentate con il passare delle ore. Sui social non pochi hanno paragonato il muro di Ain al Hilwe a quelli costruiti da Israele in Cisgiordania, al confine con l’Egitto e a quello che correrà lungo il confine orientale della Striscia di Gaza.
A distanza di nove anni dalla distruzione del campo profughi palestinese di Nahr al Bared (Tripoli), rimasto per mesi sotto il fuoco dell’artiglieria dell’esercito libanese intenzionato a stanare i jihadisti di Fatah al Islam che vi si erano rifugiati, anche Ain al Hilwe paga il conto della penetrazione di gruppi di islamisti radicali che approfittano del vuoto di sicurezza che regna nel campo profughi. Le formazioni palestinesi, a cominciare da Fatah, hanno provato senza successo ad impedire che i jihadisti creassero delle basi nel campo. E in questi ultimi tempi non sono mancati gli scontri a fuoco con morti e feriti. Nel giugno 2015 uno dei leader di Fatah, Talal Balawna, fu assassinato da “sconosciuti”, un’uccisione che ha anticipato gli scontri armati di due mesi tra Fatah e Jund al Sham, andati avanti per più di una settimana. Jund al Islam da allora ha fatto il bello e il cattivo tempo ad Ain al Hilwe, fino all’arresto due mesi fa da parte dell’intelligence libanese del suo fondatore, Imad Yasmin, che è anche un leader dello Stato islamico. Un clima di cui i profughi sono le vittime e che invece ha contribuito ad alimentare la propaganda dei tanti che in Libano considerano i campi palestinesi un “problema” da risolvere anche con le maniere forti.
Ad alcune centinaia di chilometri di distanza da Ain al Hilwe, nel Neghev, centinaia di abitanti del villaggio beduino palestinese di Um al-Hiran lottano contro la demolizione delle loro case, ordinata nel 2015 dalla Corte Suprema di Israele. Le ruspe ieri hanno preso posizione ai bordi del villaggio protette da ingenti forze di polizia mentre gli abitanti, sostenuti da volontari stranieri e attivisti della sinistra israeliana, si sono distesi sul terreno nell’estremo tentativo di salvare le loro case. Nel frattempo i loro avvocati hanno presentato un nuovo ricorso. Per le autorità israeliane Um al-Hiran sarebbe un villaggio illegale e al suo posto è prevista la costruzione di un centro abitato ebraico, Hiran. È una beffa amara per gli abitanti beduini che furono spostati di autorità in quella zona nel 1956, dopo essere stati sgomberati dalle loro terre di origine. I progetti nel Neghev (Piano Prawer) prevedono l’evacuazione di decine di migliaia di beduini che vivono in centri non riconosciuti dallo Stato. In Cisgiordania, dove ieri al posto di blocco di Qalandiya è stato ucciso un palestinese che avrebbe tentato, secondo le autorità israeliane, di accoltellare un soldato, si attende l’avvio di nuovi progetti per l’espansione delle colonie israeliane con la benedizione di fatto di Donald Trump. Il neo presidente ha detto in diverse occasioni di non considerare gli insediamenti coloniali un ostacolo alla pace.
il manifesto 23.11.16
Profughi e reddito mettono in crisi la sinistra austriaca
Austria. A due settimane dal voto presidenziale le liti interne alla Spoe rischiano di favorire la destra xenofoba di Norbert Hofer
di Angela Mayr
VIENNA «Un rifugiato costa al contribuente austriaco 277.000 euro» ha accusato Norbert Hofer, candidato della xenofoba Fpoe nel duello televisivo su Puls 4. Cifra esorbitante, da dove è uscita? Hofer, giovane, istruito alla perfezione nelle tecniche più diverse di retorica ha scansato la domanda, il suo avversario, l’anziano professore Alexander Van der Bellen, ex capogruppo dei Verdi, molto più lento e decisamente poco televisivo non è riuscito a inchiodarlo. Così nei dibattiti televisivi finora vincente è uscito il candidato dell’estrema destra inventandosi allegramente la realtà, «democrazia postfattuale» la chiamano vari commentatori.
La paura e la preoccupazione che vinca il Trump austriaco crescono. Nei sondaggi tuttavia i due candidati al ballottaggio delle presidenziali austriache del 4 dicembre risultano alla pari. Sul tema più caldo, i rifugiati, la Fpoe martella senza sosta. La cifra 277.000 per singolo rifugiato esiste, ma non si tratta del costo annuale bensì della stima dei costi che va dal 2015 al 2060, periodo lunghissimo come ha precisato su richiesta del quotidiano der standard il ministero degli Interni.
Proprio a ridosso del voto decisivo di dicembre la questione immigrati è deflagrata anche all’interno del partito socialdemocratico (Spoe) viennese, unico bastione rosso rimasto nel paese, un pilastro importante per la campagna di Alexander Van der Bellen che rischia di indebolirsi. Nel ballottaggio scippato di maggio, a Vienna il candidato dei Verdi ha raggiunto il 63,1%. Già la primavera scorsa il cambiamento improvviso di linea sugli immigrati era stato un motivo determinante per la caduta dell’allora cancelliere Werner Faymann. Ora lo scontro è esploso tra i rappresentanti della Spoe nei quartieri operai di periferia. A Donaustadt, Simmering e Floridsdorf alle comunali di un anno fa masse di elettori socialdemocratici sono già passati alla Fpoe. Una batosta che ha portato la destra del partito socialdemocratico a chiedere un cambiamento di linea provocando uno scontro con l’ala snistra la ci punta di diamante è rappresentata da un gruppo di donne assessori schierate sulla posizione del «welcome refugees», prima fra tutte la responsabile per la sanità e il sociale Sonja Wehsely.
Wehsely è una convinta sostenitrice del reddito di cittadinanza (Mindestsicherung) uguale per tutti, austriaci autoctoni e rifugiati riconosciuti. 833 euro netti al mese a persona, che salgono a più del doppio con bambini e partner a carico. Concepito per garantire il livello di sussistenza, fu introdotto nel 2010 su scala nazionale.
Il comune di Vienna eroga i contributi maggiori, la spesa sociale negli ultimi anni è cresciuta del 40%. L’ala di destra ha chiesto le dimissioni di Wehsely, arrivando ad avvertire il sindaco Michael Haeupl, un ex intoccabile, di preparare la sua successione. Un attacco infruttuoso visto che la momento della conta la destra si è arenata al 20%. Haeupl ha ricordato a tutti di aver vinto le elezioni comunali del 2015 con una linea di aperto contrasto con la Fpoe in difesa dei diritti dei migranti. Per ora la resa dei conti è rinviata. «Il reddito di cittadinanza è uno strumento di lotta alla povertà. Mi batterò fino all’ultimo per il suo mantenimento. Vienna non farà la politica sociale della Fpoe» ha detto Haeupl.
Sul reddito di cittadinanza si divide da mesi il governo di coalizione tra socialdemocratici del cancelliere Christian Kern e i popolari (Oevp). I popolari su questo punto sono sulla stessa linea della Fpoe e chiedono che il reddito di cittadinanza pieno sia riservato ai soli cittadini austriaci. «Chi non ha pagato mai contributi nel sistema sociale non può avere gli stessi diritti» ripetono H.C. Strache e Hofer. «Chi non lavora non può prendere quanto uno che lavora», il mantra del Oevp. In Alta Austria, dove i popolari governano insieme alla Fpoe, è stato già introdotto un sussidio più basso per i rifugiati e un tetto massimo per tutti. Lo stesso è accaduto in Bassa Austria governata dai popolari. Sull’argomento reddito di cittadinanza è saltato ogni possibile accordo di governo, con l’ala dura dei popolari raccolta intorno al ministro degli esteri, l’astro nascente Sebastian Kurz, che ha chiesto la resa incondizionata dei socialdemocratici.
Kurz agisce per conto suo, tessendo rapporti con i paesi Visegrad in parallelo a Hofer. Tanto che ormai si discute delle possibili date di elezioni anticipate considerate ormai inevitabili, nonostante la possibilità che il partito di Hofer possa vincere anche queste. Intanto il cancelliere Christian Kern lavora per un riposizionamento più a sinistra della Spoe a partire dalla critica alle politiche di austerity e del liberismo sfrenato, per un rilancio del ruolo pubblico nella politica economica. Ma Kern deve fare i conti anche con la destra del suo partito, quella che nel Burgenland, regione a est di Vienna governa insieme alla Fpoe. Lì il presidente della regione Heinz Niessl, socialdemocratico, ha vietato ai suoi iscritti di fare campagna per Alexander Van der Bellen.
il manifesto 23.11.16
Juppé-Fillon, scontro sull’aborto
Primarie a destra. Juppé chiede a Fillon di "chiarire" sull'interruzione volontaria di gravidanza. Fillon è contrario per "la fede" (cattolica), ma assicura che non rimetterà in causa la Loi Veil. La feminista De Haas: "Fillon nega che sia un diritto fondamentale delle donne" e "puo' tagliare i finanziamenti e ridurre l'accesso"
di Anna Maria Merlo
PARIGI François Fillon e Alain Juppé si scontrano sull’aborto, in vista del secondo turno delle primarie della destra di domenica. Juppé, che è di fronte alla quasi missione impossibile di recuperare i 15 punti che lo separano dal vincitore del primo turno, ha individuato il punto debole dell’avversario, che ha vinto grazie alla mobilitazione del campo cattolico, con alla punta gli ultrà di Sens comun, emanazione della Manif pour tous (movimento contro il matrimonio gay). Ieri, Juppé ha chiesto a Fillon di “chiarire” la posizione “ambigua” sull’aborto. Fillon ha replicato: “non avrei mai pensato che l’amico Juppé cadesse cosi’ in basso”.
Ma Fillon preoccupa. Ha affermato di non aver intenzione di toccare la Loi Veil, che dal ’75 autorizza il ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg). Ma ha aggiunto di essere personalmente contrario all’aborto, “filosoficamente” e “per la fede” (cattolica). Il campo Fillon ieri ha continuato a coltivare una posizione ambigua, affermando che “non si puo’ banalizzare l’Ivg”, che deve restare “un’eccezione”, essendo un “trauma”. Ad aggravare l’ambiguità è arrivata ieri l’appoggio a Fillon di Jean-Frédéric Poisson (1,5% al primo turno), esponente del partito demo-cristiano, grazie alle posizioni sulla “famiglia e l’accoglienza della vita” (Poisson vuole la limitazione dell’aborto). Secondo Caroline De Haas, di Osez le féminisme, “quando qualcuno spiega – come ha fatto Fillon – che l’Ivg non è un diritto fondamentale, vuol dire che le donne non dispongono del proprio corpo. Mi inquieta, è un voto reazionario, un ritorno al XIX e XX secolo. Ha persino negato la realtà della violenza contro le donne, attribuendola agli stranieri. In Europa ci sono già stati tentativi di rimettere in causa l’aborto da parte della destra dura e pura, in Spagna e in altri paesi. Ma anche se Fillon non rimetterà in causa la legge, ci sarà la questione dei mezzi: con il suo governo (2007-2012) sono stati chiusi più di 150 centri di Ivg in Francia, rimettendo in causa il diritto di accesso”. Ieri, un sostenitore di Fillon, il sindaco di Aulnay-sous-bois, Bruno Beschizza, ha impedito che venissero affissi nel suo comune dei manifesti della campagna di prevenzione dell’Aids, rivolti in particolare agli omosessuali, perché “contrari al buon costume e alla moralità”. La ministra della Sanità, Marisol Turaine, ha sporto denuncia.
il manifesto 23.11.16
Spose bambine, Erdogan cede alla piazza
Turchia. Sospeso il progetto di legge per legalizzare lo stupro di minori
di Geraldina Colotti
Alla fine, Erdogan ha ceduto. L’Akp – il partito islamico che governa in Turchia e che lui ha fondato -, ha ritirato il disegno di legge che mirava a depenalizzare gli abusi sui minori, e che aveva provocato un’ondata di sdegno a livello internazionale. Il progetto prevedeva la cancellazione della pena per gli stupratori di minorenni qualora avessero sposato la vittima e nel caso l’atto fosse stato ritenuto consensuale. La legge era passata in prima lettura in Parlamento giovedì scorso, ma in mancanza di 184 voti (un terzo dei seggi) necessari per l’approvazione era stato rinviato in seconda lettura.
Le proteste di piazza e quelle dei partiti di opposizione – i socialdemocratici del Chp e i filo curdi dell’Hdp (che comunque non si recano in aula in solidarietà con i loro compagni arrestati), hanno indotto Erdogan a suggerire al governo «di prestare attenzione alle critiche e ai suggerimenti per trovare una soluzione basata su un ampio consenso». Da qui l’annuncio del premier Binali Yildirim di rinviare il disegno di legge alla commissione Giustizia perché venga rielaborato: «Per tenere conto delle opinioni di tutti e risolvere la questione».
La Turchia è la prima in Europa e terza al mondo per numero di spose bambine. Secondo l’Istituto nazionale di statistica (Tuik), nel 2015 sono state oltre 31.330. Dati al di sotto del reale, secondo l’associazione Kamer, anche perché non considerano le unioni religiose, che non hanno valore legale. La legge proibisce i matrimoni prima dei 17 anni, se non con il consenso dei genitori o con l’autorizzazione di un giudice e «in circostanze eccezionali» prima dei 16 anni. Secondo il governo, si sarebbe così sanata una situazione di fatto, facendo «tornare a casa dai figli molti giovani messi in carcere senza essere stupratori» perché quando una minore partorisce, l’ospedale chiama la polizia. La legge sarebbe stata applicata «per una sola volta e in modo retroattivo, sui matrimoni contratti prima dell’11 novembre del 2016».
I dati dell’associazione Kamer, impegnata contro la violenza sulle donne, nel sud-est turco a maggioranza curda, il 51% delle donne si è dovuto sposare prima dei 18 anni. Kamer è stata creata nel 1997. Quell’anno – ha dichiarato alla stampa la sua fondatrice, Nebahat Akkoc, che in Germania ha ricevuto il premio Anne-Klein – un sondaggio condotto a Diyarbakir evidenziava che 9 donne su 10 subivano violenze quotidiane. Nel 2009, però, 9 su 10 dichiaravano di non voler più cedere di fronte alle violenze.
Ieri, la reazione delle donne turche sembrava confermare questa volontà di resistenza. Oltre alle femministe, si sono fatte sentire anche le donne islamiche per chiedere che la legge venga ritirata e non solo sospesa: il rischio, infatti, è che il testo venga rimaneggiato in modo da abbassare a 12 anni la soglia per essere considerate consenzienti, Nel paese, il numero di bambine che partorisce tra i 10 e i 15 anni è molto elevato (il 32,5% delle intervistate da Kamer). A schierarsi contro il progetto di legge, anche l’Associazione per la donna e la democrazia (Kadem), che ha come vicepresidente la figlia di Erdogan, Sumeyye Bayraktar.
In Turchia, su 79 milioni di abitanti, solo il 29,9% dalle donne ha un lavoro (nell’Ocse lavora oltre il 58% delle donne). Le turche hanno acquisito il diritto di voto nel 1934, ma oggi in Parlamento sono scarsamente rappresentate. In compenso, sono molto presenti nei consigli d’amministrazione di grandi imprese: l’11% (dopo la Norvegia). Il Tusiad, l’equivalente della Confindustria, ha una presidente, Cansen Basaran, e così pure è donna la Segretaria generale del sindacato Disk, Arzu Cerkezoglu, che ha anche subito il carcere.
Repubblica 23.11.16
Quanti iscritti al club Putin
di Roberto Toscano
VLADIMIR Putin sembra riscuotere ultimamente un plauso transnazionale: da Trump a Fillon, da Le Pen a Salvini, senza contare le simpatie espresse da esponenti politici in quello che una volta si chiamava Terzo Mondo.
Cosa sta succedendo? La spiegazione più semplice — non falsa, ma certamente incompleta — ha a che vedere con l’evidente crisi del sistema internazionale. Un sistema che, a lungo basato sulla tensione/competizione Est-Ovest, sembrava fosse stato sostituito, nella breve stagione terminata nelle sabbie del Medio Oriente, dall’unilateralismo americano.
Mai come oggi, dopo l’elezione alla presidenza degli Stati Uniti di un candidato che sarebbe eufemistico definire problematico e imprevedibile, risulta evidente che ormai nessuno crede più che l’America possa fornire un quadro di stabilità globale.
VI È anche, da parte di Paesi che vanno dalla Turchia all’Egitto per arrivare persino a Israele, una sorta di insofferenza verso un’America che ha cercato di imporre regole agli altri ma nello stesso tempo non ha protetto i propri alleati, mentre la Russia di Putin, nonostante i suoi evidenti limiti sia economici che militari, sembra in grado di offrire una sponda al perseguimento di interessi nazionali sulla base di una realpolitik che lascia a ciascun soggetto internazionale lo spazio per definirsi. E questo senza le limitazioni che la leadership americana ha a lungo cercato di imporre. Ad essere in crisi è anche l’opzione multilaterale — quella che avrebbe dovuto essere basata a livello globale su regole internazionali e sulle Nazioni Unite, e a livello europeo sulla spinta integrativa dell’Unione europea. Su questo sfondo, Putin si presenta come una sorta di richiamo alla realtà. Una realtà magari inquietante, ma con cui bisogna fare i conti, accantonando ideali considerati poco realisti (e comunque falliti) come diritti umani, interventi umanitari, giustizia globale, multiculturalismo.
La clamorosa sconfitta dell’internazionalismo liberale, di cui Hillary Clinton era esplicita incarnazione, riporta il discorso internazionale ai livelli più basici: la potenza, le sfere di influenza, i giochi-a-somma-zero. Livelli su cui Putin ha dimostrato di essere in grado di muoversi in modo spregiudicato ed efficace.
Non è la politica di Putin ad essere popolare, ma il suo metodo, il suo stile.
Emerge, non solo negli Stati Uniti, l’insofferenza nei confronti di una “correttezza politica” che appariva egemonica soltanto perché ad essa aderivano le élite liberali e cosmopolite: dall’accoglienza di rifugiati e migranti all’impegno per l’aiuto allo sviluppo al dialogo con l’islam.
Ma la radice più profonda dell’irresistibile attrattiva esercitata da Vladimir Putin a livello mondiale ha a che vedere con un’onda lunga politico-ideologica che sta producendo i suoi effetti un po’ dappertutto: la combinazione di nazionalismo, populismo e autoritarismo.
Un’inchiesta condotta in vari paesi della Ue da You-Gov, prestigiosa società Britannica di sondaggi di opinione, rivela che una combinazione di nazionalismo, populismo e autoritarismo (anti-diritti umani, anti-Ue, anti- immigrati, per una politica estera basata sulla forza) viene presa seriamente in considerazione da un consistente numero di cittadini: in Francia, il 63 per cento (il che solleva legittime preoccupazioni sull’esito delle prossime elezioni presidenziali), nel Regno Unito il 48 per cento, in Italia il 47, mentre il più basso è il 33 per cento della Spagna. Quelli che risultano meno sensibili al richiamo del nazionalismo populista sono i cittadini tedeschi. Un dato confortante, visto il peso della Germania in Europa, ma nello stesso tempo un dato atipico, che si spiega con la potente “vaccinazione” antiautoritaria prodotta a livello di coscienza nazionale dall’esperienza del nazismo. Gli orientamenti delle opinioni pubbliche dei Paesi dell’Europa orientale sono ancora meno incoraggianti per chi ha a cuore le sorti della democrazia, con un 82 per cento di “propensione autoritaria” in Romania e un 78 in Polonia. Certo, i Paesi dell’Est Europa non sono necessariamente ammiratori della politica estera di Putin, di cui anzi temono gli istinti neo-imperiali. Ma invece di contrapporgli un’opzione democratica, sembrano molto tentati dall’affidare le proprie sorti a un “putinismo” autoctono con forti componenti nazionaliste e autoritarie.
Il fascino esercitato da Putin è direttamente proporzionale alle frustrazioni suscitate da una globalizzazione denunciata come promessa fraudolenta, al rigetto di élite liberali considerate poco patriottiche e focalizzate sulla tutela dei propri privilegi mascherati dietro i più nobili principi morali, alla paura — oggi ben più forte della solidarietà — non solo nei confronti del terrorismo, ma anche di un diverso che sbarca sulle nostre coste e attraversa le nostre frontiere. Trump si troverà probabilmente a confrontarsi e magari a scontrarsi con Putin sulla base di interessi divergenti, ma non ne contesta il metodo e le priorità, anzi nutre nei suoi confronti una malcelata ammirazione.
La popolarità di Vladimir Putin è un sintomo della crisi della democrazia liberale, una crisi che è da temere sia soltanto all’inizio, e alla quale l’elezione di Donald Trump minaccia di imprimere una micidiale accelerazione.
Corriere 23.11.16
La democrazia americana. Qualche riflessione
risponde Sergio Romano
Tra i vari giudizi sulle elezioni Usa brillano quelli della Lega e dei 5 Stelle che hanno brindato al risultato perché espressione democratica del sentire del popolo. Io, per ora, mi astengo in attesa di poter giudicare con in mano fatti concreti; però vorrei ricordare a questi signori che anche Hitler vinse con elezioni libere e democratiche. Attendo un suo pensiero.
Federico Tessore
Dopo la vittoria di Trump il New York Times si è scusato per l’abbaglio preso.
La libertà di stampa è uno dei principi fondamentali di una società democratica e liberale. Ma un giornale che non sia di partito e che non si sia apertamente schierato a favore di una della parti non dovrebbe per un principio deontologico informare correttamente i lettori senza barare anche sui sondaggi?
Domenico Agostini
Cari Lettori,
I vostri quesiti sono diversi, ma si prestano a risposte complementari. A quello di Federico Tessore rispondo che il voto per Hitler nel 1932 e quello per Trump negli scorsi giorni presentano effettivamente qualche somiglianza. In ambedue i casi vi sono stati tedeschi e americani che hanno votato entusiasticamente per il vincitore, mentre la maggioranza degli elettori voleva soprattutto il cambiamento. Nel caso di Hitler una larga parte della società era preoccupata dalle pessime condizioni economiche del Paese (circa 4 milioni di disoccupati) e stanca della litigiosità e della impotenza dei partiti tradizionali; mentre nel caso di Trump le analisi più approfondite sembrano dimostrare che fra i voti mancati a Hillary Clinton vi erano quelli desiderosi di un volto completamente nuovo. Anche nelle elezioni americane, come nelle elezioni tedesche, il fattore «cambiamento» è stato decisivo.
Naturalmente fra le due elezioni esiste una fondamentale differenza. Hitler aveva una milizia armata (le SA) e non esitò a servirsi di una occasione (l’incendio del Reichstag) per usarla brutalmente contro tutte le forze democratiche della Repubblica di Weimar; mentre Trump, per mettere fine al sistema democratico, se ne avesse le intenzioni, potrebbe contare, tutt’al più, su qualche «cavaliere» del Ku Klux Klan, la vecchia associazione creata contro i neri e gli ebrei, particolarmente attiva, alle origini, negli Stati del Sud.
Alla domanda di Agostini rispondo che il New York Times , in questa elezione, mi è parso più sbilanciato di quanto sia accaduto in altre circostanze. Non ha fatto mancare ai suoi elettori le notizie che potevano imbarazzare Hillary Clinton, ma ha letteralmente riempito il giornale di articoli esplicitamente ostili a Donald Trump. Non credo che abbia truccato i sondaggi, ma temo che il disprezzo per Trump e la convinzione della sua pericolosità abbiano prevalso su ogni altra considerazione.
il manifesto 23.11.16
Domani un Thanksgiving premonitore
Stati uniti. Soltanto chi ignora la “sacralità” del Thanksgiving Day tende a sottovalutare il fenomeno soggiacente: cioè la gravità dello strappo che sta sfaldando il tessuto sociale degli Stati Uniti
di Giuseppe Cassini
Almeno una volta all’anno tutti gli americani, sparsi nella vastità del continente, riuniscono le famiglie per condividere affetti, gioie, dolori e l’immancabile tacchino farcito. La ricorrenza da festeggiare è il Thanksgiving Day e cade domani, ultimo giovedì di novembre.
Ma quest’anno la parola “festeggiare” sembra fuori luogo. Per la prima volta dopo 150 anni dalla Guerra di Secessione, qui negli Stati Uniti si vedono famiglie spaccate dalle scelte elettorali dei propri congiunti, e che ora rifiutano di sedersi al desco comune. Attenzione, non è un’irritazione passeggera, ammoniscono i sociologhi: è una spaccatura epocale.
Bob Putnam, noto anche in Italia per le sue passate ricerche sul “familismo amorale” nel Mezzogiorno, osserva da decenni l’affievolirsi del “capitale civico” nel suo Paese e ora dice: «Se aveste partecipato a un Thanksgiving cinquanta anni fa, quasi certamente avreste avuto attorno a voi commensali di diversa estrazione. Oggi è raro sedersi a tavola con gente che non sia affine a noi».
Soltanto chi ignora la “sacralità” del Thanksgiving Day tende a sottovalutare il fenomeno soggiacente: cioè la gravità dello strappo che sta sfaldando il tessuto sociale degli Stati uniti.
Qualche cifra può bastare a misurarne la fragilità: nell’indice Gini che misura le sperequazioni di reddito gli Stati uniti si piazzavano nel dopoguerra alla pari con la Svezia, mentre oggi sono vicini al Messico. Nell’ultimo trentennio la produttività negli Stati uniti è cresciuta dell’80%, mentre i salari sono mediamente aumentati in termini reali appena dell’11% (chi ne ha profittato?).
Un terzo della popolazione è “creazionista”, anti-darwiniana e anti-abortista senza se e senza ma; ed è la stessa che difende la pena di morte, l’uso della tortura (quando ce vo’ ce vo’), la libertà di armarsi e la castrazione giudiziaria per i recidivi di reati sessuali.
Su 320 milioni di abitanti un terzo è obeso (fra cui il 14% dei minorenni), un altro terzo è sovrappeso (fra cui il 17% dei minorenni) e sono sopratutto i poveri ad ingrassare.
Le carceri ospitano un quinto dei reclusi del mondo (circa 2.200.000, di cui metà neri); in proporzione è come se l’Italia avesse 500.000 carcerati invece degli attuali 50.000.
La disoccupazione fra i neri è doppia della media nazionale e il 70% dei bambini neri nasce da madri senza marito, quasi tutte sotto la soglia della povertà.
I grandi imperi della storia sono decaduti per sfaldamento interno piuttosto che per attacchi esterni; l’attuale disgregazione del tessuto sociale spinge gli Usa in quella direzione. La vittoria di Trump ne è un sintomo, un sintomo roboante. Si sta facendo largo (è il caso di dirlo) una genìa di governanti di stazza extra-large, divoratori di Big Mac, arroganti, inclini alla violenza verbale e – temo – anche fisica.
I valori filadelfiani su cui si regge l’Unione erano permeati anche fisicamente di uno stile sobrio, di quella sobria eleganza originata nel Secolo dei Lumi e trasfusa nell’arredamento dell’Independence Hall a Filadelfia e della Casa Bianca a Washington.
Vi immaginate quegli interni arredati col gusto da satrapo turkmeno delle magioni del Donald? Ovviamente gli verrà impedito di provarci. Intanto, però, circola la battuta sul figlio più piccolo di Trump che entrando alla Casa Bianca esclama: «Papà, ma siamo diventati poveri?».
il manifesto 23.11.16
Il saluto nazista del National Policy Institute
di Marina Catucci
Il gruppo di alt-right, alternative right, ha celebrato a Washington la vittoria di Trump. Non erano tanti, poche centinaia di suprematisti bianchi con simpatie naziste che non si son fatti mancare niente, incluso il saluto a braccio teso al grido di «Heil Trump». Questa è stata una riunione fisica, ma il movimento di estrema destra è sempre stato molto attivo in rete, sui social network, solo che ora sta conoscendo per la prima volta della vera visibilità e si sente legittimato dalla presenza di Steve Bannon, anima nera e nuovo stratega della Casa Bianca, che fino a pochi mesi fa dirigeva un sito di notizie che egli stesso ha definito come «la piattaforma perfetta per alt-right». Questo tipo di gesti, dichiarazioni in cui ci si chiede «se gli ebrei sono persone o meno», non fanno parte della storia e di questo Paese, Alt-right, infatti ama l’Europa più legata ai movimenti nazional-populisti a cui si ispira e con cui dialoga.
Durante il convegno che si è tenuto a Washington ha parlato anche il loro poco carismatico ma loquace leader, Richard Spencer, direttore del National Policy Institute (think tank che produce idee per il gruppo), che si è espresso usando termini come « i figli del sole» il cui destino è quello di riprendersi l’America sottraendola «a quella gente di cui noi non abbiamo bisogno». È stato proprio Spencer a chiedere se gli ebrei siano «un popolo o dei golem senz’anima» e questa dichiarazione ha fatto il giro dei media.
il manifesto 23.11.16
Il presidente anti media nell’era delle fake news
Usa. Il potere distruttivo dei nuovi modi della comunicazione che hanno favorito l’ascesa di Donald Trump
di Giulia D'Agnolo Vallan
NEW YORK In un video di due minuti e mezzo, girato nel suo Trump National Gold Club Bedminister, da dove il prossimo presidente Usa sta molto telegenicamente intervistando i potenziali candidati al suo gabinetto, lunedì sera, Donald Trump ha aggiornato il paese sullo stato della sua transizione. Lo ha fatto postando il suo messaggio direttamente su YouTube, scavalcando le istituzioni mediatiche, nello stile «indiscutibile», sottovuoto, dell’infomercial, spesso usato durante la sua campagna elettorale, e che ricorda molto il formato di comunicazione di un despota.
Poche ore prima di rilasciare il suo messaggio, Trump aveva intrattenuto un meeting «off the record» con i direttori e i conduttori delle maggiori testate televisive che, a sentire il murdochiano New York Post (opportunamente informato del backstage), avrebbe coperto d’infamia, chiamando i presenti bugiardi, disonesti e di parte, per la delizia dei siti della alt-right.«Trump si mangia la stampa», ha esultato Breibart News, «Trump fa a pezzi l’elite mediatica», gli ha fatto eco il Drudge Report.
A conferma del suo turbolento rapporto con gli organi d’informazione istituzionali, alle 6 e 16 di martedì mattina, Trump annunciava via Twitter che il previsto incontro con la direzione del «fallimentare» New York Times, cui doveva seguire un q&a con i giornalisti della redazione, non si sarebbe effettuato; per poi cambiare idea 15 minuti dopo («anche se continuano a dire bugie sul mio conto»). Il problema? Il presidente eletto aveva chiesto di cancellare il q&a, e di tenere tutto off the record. Il Times gli ha risposto no.
Non solo, nel corso della sua campagna elettorale, Trump ha sedotto (a forza di ratings), manipolato e regolarmente insultato stampa e Tv, il suo esibito disprezzo per la categoria è parte del pacchetto con cui ha conquistato molti dei voti. A seguire le scaramucce di sopra, unite a quella della settimana scorsa con il cast del musical Hamilton e a quella in corso con Saturday Night Live, un’editoriale a firma Gersh Kuntzman, apparso sul New York Daily News di ieri anticipava: «Trump sarà il presidente più anti-media dai tempi di Richard Nixon».
Il fallimento colossale, da parte di stampa e televisioni Usa, non solo di prevedere la vittoria di Donald Trump, ma anche di gestire adeguatamente la sua ascesa politica (oltre che di documentare l’America che l’ha resa possibile) sono una delle grandi storie del 2016. E’ un fallimento che, dall’8 novembre a oggi, ha generato scuse pubbliche (per esempio Times e Washington Post) e numerosi esami di coscienza.
L’assunto generale – sponsorizzato dallo stesso Trump – è che l’establishment mediatico sia ormai talmente in combutta con «i poteri» della politica, della cultura e dell’economia da aver perso di vista quello che succede veramente. Certo, questa «teoria della bolla» contiene delle verità ma, tra le macerie del disastro, emergono anche le responsabilità di nuovi modi della comunicazione del cui potere distruttivo nessuno si era reso pienamente conto. E sul cui appoggio Trump sembra deciso a contare anche per il futuro.
È il caso delle fake news, le false notizie, generate -persino oltre i circuiti complottistici della alt right- da organizzazioni mediatiche inventate e/o semplici individui, spesso direttamente create nel contesto dei social, occasionalmente per motivi che non hanno nulla a vedere con la politica. Secondo un’analisi effettuata da Buzzfeed, nei tre mesi che hanno preceduto le elezioni, storie false, generate online e diffuse via Facebook, hanno infatti raggiunto piu’ utenti, sono state condivise e commentate, del coverage prodotto dagli organi d’informazione tradizionali.
Sempre su Buzzfeed, incredibile il reportage su un gruppo di teen ager della Macedonia che non avevano nessun interesse per la politica Usa, ma si sono temporaneamente arricchiti grazie ai profitti di pagine Facebook pro-Trump (molto più trafficate di quelle pro-Clinton o pro-Sanders), da dove diffondevano notizie come l’endorsement di papa Francesco al miliardariio newyorkese. «Credo che Donald Trump sia alla casa bianca per merito mio», ha detto invece al Washington Post Paul Horner, un trentottenne che si arricchisce a forza di fake news da anni (10.000/20.000 dollari al mese). E che non teneva nemmeno per Trump. Tra le sue «storie»?
Quella secondo cui un manifestante anti- Trump rivelava di essere stato pagato 3.500 dollari dalla campagna Clinton. La «notizia» e’ stata immediatamente ritwittata dal manager della campagna Trump e da uno dei figli del miliardario a tutti i followers.
È una realtà da cui lo stesso Obama ha detto di essere «stato colto di sorpresa» e su cui si è già pronunciato, per esempio sul New Yorker e durante il suo recente viaggio a Berlino: «Siamo in un’era in cui un’enorme quantità di disinformazione viene intenzionalmente presentata in modo da sembrare autentica. Se tutto sembra uguale, su Facebook o alla Tv, non si sa cosa proteggere.
Se non siamo seri sui fatti, su quello che è vero e quello che non lo è, particolarmente in un’era in cui tante persone consumano le news attraverso i social media, in soundbite che appaiono sui cellulari, se non possiamo discriminare tra cose serie e propaganda, è un problema serio».
Dopo che, in un primo momento, Zuckerberg aveva rifiutato l’ipotesi che i social media avessero avuto una responsabilità determinante nella diffusione di false notizie (su 20, solo tre favorivano Clinton, il resto era pro Trump) e quindi sui risultati delle elezioni 2016, sia Facebook che Google hanno annunciato che stanno lavorando per impedire se non la circolazione di fake news sulle loro piattaforme, almeno i loro tornaconti finanziari.
Repubblica 23.11.16
Leader anti Castro nel team di Donald Verso uno stop al disgelo con l’Avana
GRANDE retromarcia sul disgelo voluto da Obama con la Cuba dei fratelli Castro? È una delle incognite dell’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca. L’anticastrismo non è tra le principali preoccupazioni del neo presidente ma la sua vittoria, e quella dei Repubblicani alla Camera e al Senato, hanno riacceso le ambizioni di quella parte dei fuoriusciti dall’isola che avevano subìto “la distensione senza condizioni” promossa da Obama con la ripresa delle relazioni diplomatiche, interrotte fin dal 1961. Un primo segnale su quello che potrebbe fare Trump, è arrivato in questi giorni con la nomina di Mauricio Claver-Carone nel team che si occuperà della transizione presidenziale fino al 20 gennaio. Claver-Carone, un avvocato nato a Miami nel 1975, è uno leader emergenti di quella parte dei cubano-americani fortemente contrari non solo a eliminare l’embargo (una prerogativa del Congresso) ma anche ha tutte le concessioni fatte dal dicembre 2014 da Obama.
( o. c.)
Repubblica 23.11.16
Il fascino del protezionismo “Ma crea solo più povertà”
Esperti internazionali hanno rilevato le molte criticità dei “muri economici”
Dopo decenni di barriere più aperte, il tycoon sposta indietro l’orologio del mercato. Tra molte incognite
di Ferdinando Giugliano
ROMA. L’elezione di Donald Trump segna la fine del quarto di secolo, cominciato con il crollo dell’Unione Sovietica, in cui l’economia mondiale è stata dominata dalla globalizzazione. Il presidente eletto degli Stati Uniti si avvia a tornare indietro sui trattati di libero scambio siglati dai suoi predecessori come Barack Obama e a limitare l’immigrazione verso gli Usa.
Queste misure protezioniste mietono consensi nella coalizione tra destra nazionalista e classe operaia che ha proiettato il tycoon verso la Casa Bianca. Ma il revanchismo economico trumpista suscita qualche malcelata approvazione anche in porzioni delle classi intellettuali di sinistra, che sino dalla fine degli anni ‘90 hanno chiesto politiche economiche “no global”.
Il paradosso, però, è che i 25 anni che ci stiamo lasciando alle spalle sono stati segnati da un abbattimento della povertà e delle diseguaglianze mondiali senza precedenti. Il protezionismo trumpista rischia di provocare i maggiori danni proprio nei Paesi emergenti, le cui valute si sono deprezzate marcatamente dal giorno delle elezioni presidenziali Usa anche per le prospettive di crescita più incerte.
Il legame tra globalizzazione e miglioramenti delle condizioni di vita nei Paesi più poveri ha base teoriche solide: con l’apertura delle frontiere, le aziende possono delocalizzare parti della loro produzione nei Paesi dove la manodopera costa meno, creandovi occupazione. L’emigrazione permette ai cittadini delle economie emergenti di accedere a quella che l’economista Branko Milanovic della City University di New York ha chiamato la «rendita di cittadinanza», ovvero il diritto a guadagnare di più semplicemente grazie alla ricchezza dello Stato in cui si svolge una determinata professione, indipendentemente da quale essa sia.
I risultati sono stati impressionanti: secondo il rapporto “Taking On Inequality” pubblicato ad ottobre dalla Banca Mondiale, nel 2013 c’erano circa 1,1 miliardi di persone che vivevano in condizioni di estrema povertà in meno rispetto al 1990, nonostante la popolazione mondiale fosse aumentata allo stesso tempo di 1,9 miliardi di individui. Questa riduzione si è intensificata tra il 2002 e il 2013, quando una media di 75 milioni di persone all’anno sono uscite dalle condizioni di indigenza — più o meno la popolazione di Germania o Turchia. La percentuale di poveri nel mondo nel 2013 era al 10,7%, rispetto al 35% di 26 anni fa.
L’altro grande successo riguarda la disuguaglianza mondiale che, sempre secondo la Banca Mondiale, negli ultimi 25 anni è calata per la prima volta dalla rivoluzione industriale in poi. L’indice di Gini globale, un indicatore delle disparità, si è ridotto da 69,7 nel 1988 a 62,5 nel 2013. «Questo è coinciso con un periodo di rapida globalizzazione e di forte crescita dei Paesi poveri più popolosi come Cina e India », hanno scritto gli autori del rapporto.
Gran parte di questa riduzione è dovuta all’assottigliamento delle differenze fra Paesi, mentre le disparità all’interno dello stesso Stato sono, in media, cresciute. Tuttavia, negli anni della crisi, anche questo trend negativo si è fermato: in quegli anni 3,5 miliardi di persone, circa il 65% della popolazione mondiale, vivevano in Paesi in cui la crescita dei redditi per il 40% più povero è stata più rapida rispetto al 60% più ricco.
Oltre al miglioramento delle condizioni di vita per i più poveri, queste cifre mostrano il declino della classe media nei Paesi più ricchi. Milanovic l’ha rappresentata in maniera molto eloquente in un diagramma del 2012 che è stato ribattezzato, a causa della sua forma, “il grafico elefante”. Questa linea mostra come tra il 1988 e il 2008, i maggiori aumenti di reddito siano avvenuti per il 65% più povero della popolazione mondiale (ad eccezione dei poverissimi) e per i super-ricchi, mentre per gli altri i guadagni sono stati praticamente zero.
Possono le ricette di Trump aiutare la classe media americana? Ci sono ragioni per essere scettici. Il think tank Peterson Institute ha calcolato che le politiche commerciali di Trump potrebbero innescare una guerra commerciale che costerebbe agli Usa 4,8 milioni di posti di lavoro. Per un nazionalista economico, può comunque valere la pena prendersi il rischio ed appoggiare ricette come quelle di Trump. Per chi ha invece a cuore il welfare globale, le ragioni anche illusorie per confidare nel protezionismo sono invece molto più difficili da trovare.
Il Sole 23.11.16
Lo stop di Trump al Tpp
Un rischio per gli equilibri del capitalismo manifatturiero
di Paolo Bricco
Il Trump che fulmina dall’Olimpo della Casa Bianca il Tpp farà senz’altro bene alla pancia dell’America. Di certo, però, farà male al commercio internazionale. E, soprattutto, limerà e ammaccherà le catene globali del valore, nella loro dimensione tecnoindustriale. Roba da economisti specializzati in Global Value Chains? Insomma. Tema da politologi con il ditino alzato verso i neo-populismi? Mica tanto.
Tutto l’Occidente – perfino il nostro Paese, piccolo e lontano da Washington – rischia di essere influenzato da questo processo. Il programma economico protezionistico del neopresidente è una cosa molto concreta. Trump promette sfracelli non solo sul Tpp, l’area di libero scambio – o, meglio, la fu area di libero scambio - con i Paesi del Pacifico. A lui non piace nemmeno il Ttip – l’ipotesi di free trade fra le due sponde dell’Atlantico - che, nella sua realtà di negoziato lungo e estenuante fra sherpa, non ha pesato un granché nella corsa presidenziale con Hillary Clinton, mentre ha assunto una valenza politica significativa nell’Europa impegnata a fronteggiare e a contenere le pulsioni contrarie alla moneta unica e agli eccessi dell’euroburocrazia.
Il problema è che a Trump, a non piacere, è soprattutto il Nafta, il North American Free Trade Agreement, l’area di libero scambio fra Stati Uniti, Canada e Messico, entrata in vigore il 1° gennaio 1994. L’ossessione di Trump per il Messico – lasciando stare l’immagine e il progetto del muro fra quest’ultimo e gli Stati Uniti – ha origine nella delocalizzazione realizzata da una parte consistente della manifattura statunitense in un Paese confinante e con un costo del lavoro più basso. Il problema è che ogni ipotesi di rottura del patto del Nafta rischia di diventare una mina in grado di disarticolare dall’interno uno dei tessuti tecno-produttivi e commerciali più integrati e internazionalizzati del mondo. Con effetti, per esempio, anche su quelle imprese italiane che operano su tutto lo scacchiere del Nafta.
Basta leggere l’ultima pagina stilata da Mediobanca Securities. Fca ottiene l’80% del suo margine industriale lordo negli Stati Uniti; fatto 100 quanto vende negli Stati Uniti, una quota fra il 10 e il 15 proviene dal Messico. La tassa del 30% sulle importazioni dal Messico diventerebbe un problema enorme. C’è, poi, un tema di supply chain: Fca ha stabilimenti e fornitori sparsi fra il Michigan e il Midwest (Detroit Area e Ohio), l’Ontario (Brampton e Windsor) e il Messico (Toluca). Dunque, potrebbe diventare problematico qualunque provvedimento che rendesse più complicato il passaggio di uomini e cose e la circolazione di prodotti materiali e di flussi immateriali fra il Messico, gli Stati Uniti e il Canada. L’impatto su Fca appare, dunque, significativo. Ma non è l’unico. È sufficiente osservare la dinamica di un’altra impresa italiana specializzata in componentistica auto, la Brembo. Brembo ha uno stabilimento a Escobedo, in Messico, e uno a Homer, in Michigan. Il 30% dell’Ebitda di Brembo è ottenuto negli Stati Uniti. Ecco perché Trump sembra in grado di agitare i sonni non soltanto di Sergio Marchionne, ma anche di Alberto Bombassei, il proprietario della Brembo. Tutto questo per sottolineare come l’agenda Trump sia qualcosa di concreto che potrebbe mutare gli equilibri del capitalismo manifatturiero internazionalizzato, di cui l’Italia – pur con la sua marginalità strategica – è una componente non irrilevante. Senza contare la cancellazione dell’accordo di libero scambio fra Stati Uniti e Europa, che ormai appare sempre più lontano e improbabile, come lontane e improbabili appaiono le stime della Commissione Ue, secondo la quale, da qui al 2027 il Ttip avrebbe potuto valere un aumento medio annuo dello 0,48% del Pil comunitario e dello 0,39% del Pil americano più una crescita del 28% dell’export europeo verso gli Stati Uniti e del 36,5% dell’export americano verso l’Europa.
Corriere 23.11.16
Il Trattato Pacifico messo in soffitta
L’America che lascia il Pacifico
di Massimo Gaggi
Donald Trump fa colare a picco il Tpp, l’accordo di libero scambio Usa-Asia concepito da Obama come l’architrave economico e politico dei rapporti tra le due sponde del Pacifico. Intanto la Borsa americana continua a salire, con l’indice Dow Jones che supera la soglia dei 19 mila punti per la prima volta nella storia. Non c’è necessariamente una stretta correlazione tra i due fatti: le Borse avevano già dato per scontato l’abbandono del Trattato Trans-Pacifico negoziato dal presidente democratico ma contestato anche dal suo partito. L’annuncio di Donald Trump viene minimizzato dai fan dell’economia di mercato che ora inneggiano al leader populista appena eletto: quell’accordo era già stato denunciato da Trump durante la campagna elettorale e, comunque, non avrebbe avuto un rilevante impatto economico. Il pericolo sono barriere e dazi e di questi il tycoon non ha (per ora) parlato. Può darsi che, almeno nell’immediato, non ci sia da fasciarsi la testa per l’effetto Trump sull’economia. Anche chi giudica i suoi progetti su energia o deregulation deleteri per l’ambiente e per la stabilità del sistema finanziario ammette che a breve certe misure, o anche i semplici annunci, potrebbero dare una spinta al Pil. Ma, preoccupandosi solo di «riportare in America i posti di lavoro che ci hanno rubato», Trump invia un segnale devastante: un «ognuno per sé» che in Asia sta già facendo saltare gli equilibri geostrategici sui quali si è basata la politica estera Usa nel Dopoguerra.
L a Cina ripropone la sua alleanza asiatica anti Tpp e Paesi filo-occidentali come Singapore, Malesia e Vietnam, furiosi per il tradimento di Washington, aprono a Pechino.
Giappone e Corea del Sud, i due principali alleati Usa nell’area, sono nel panico. Il premier Abe si era precipitato giorni fa nella Trump Tower per cercare di ottenere garanzie dal neopresidente. E’ stato ricevuto da tutto il clan familiare, ha avuto un «bilaterale» anche con Ivanka, ma non deve avere ottenuto molto se ieri sera andava dicendo sconsolato che senza gli Stati Uniti il trattato di libero scambio non ha più senso.
Prima o poi toccherà anche all’Europa. Non nell’immediato: il Ttip, il trattato commerciale con la Ue, non ha mai visto la luce, quindi non c’è nulla da affondare. Ma un Continente che vive sempre sull’orlo della recessione dovrà affrontare contemporaneamente le pressioni protezioniste dell’America che rischiano di frenare l’export verso il più grande mercato del mondo e la richiesta di contribuire maggiormente alle spese per la Nato e la difesa comune. Facile prevedere che in un mondo sempre più instabile (a cominciare dal Medio Oriente e dal Nord Africa in fiamme) e con l’«ombrello» americano sempre più lacerato (se non, addirittura, chiuso) l’Italia e i suoi vicini dovranno fare e spendere molto di più per la difesa.
Quanto all’Asia e ai mercati, adesso c’è la tentazione di archiviare il Tpp come un accordo troppo complesso e burocratico, con troppi vincoli. È possibile che, negoziando accordi bilaterali, Washington, forte della vastità del suo mercato, riesca a strappare condizioni migliori. Così come è possibile che tornando a bruciare energia inquinante a basso costo venga data una momentanea spinta all’economia, anche a quelle delle regioni depresse degli Stati Uniti.
Ma, se è davvero questa la linea scelta dalla nuova Amministrazione, i prezzi da pagare nel lungo periodo saranno molto alti, e non solo in termini di «global warming». In Borsa, ad esempio, i valori bancari salgono perché gli investitori sperano con la «deregulation» che questi istituti tornino a scommettere di più su titoli ad alto rendimento, ma molto più rischiosi per la stabilità del sistema: tornerà inevitabilmente ad affacciarsi lo spettro della crisi del 2008. Salgono anche i titoli industriali. Molti considerano suggestiva l’idea di un mercato interno più forte e più protetto dalle importazioni asiatiche e messicane. Ma è pensabile davvero che si vada in questa direzione? Come si può ostacolare il commercio col Messico se nel 2020 il 20 per cento delle auto vendute dalle Case americane e più del 35 per cento della loro componentistica verrà da questo Paese?
Molti ricordano che negli anni 80 Ronald Reagan tentò di fare qualcosa di simile alzando barriere contro l’import di semiconduttori. Dovette desistere perché il blocco stava danneggiando in modo grave le aziende Usa dipendenti da quei componenti. Ma Reagan era un pragmatico, aveva una grande visione di politica estera e non viveva in un mondo spazzato da venti populisti. Con Trump rischia di essere tutta un’altra musica: lo stiamo già toccando con mano nel Sudest asiatico: dopo le Filippine, altri Paesi in «libera uscita». Per la Cina l’opportunità non solo di accrescere la sua forza economica e politica, ma di diventare anche il paradigma per un nuovo sistema di regole.
Il Sole 23.11.16
Il naufragio della Tpp avvantaggia Pechino
di Stefano Carrer
Ha pochi precedenti nella storia della diplomazia economica internazionale quanto successo negli ultimi giorni. Il vertice dei Paesi Apec a Lima si era chiuso non solo spezzando una lancia collettiva contro il protezionismo, ma sottoscrivendo, in una dichiarazione annessa, un impegno a promuovere – in attesa di arrivare alla sfuggente Ftaap (un’area di libero scambio tra tutti i 21 Paesi Apec) – accordi di libero scambio «completi e di alta qualità» tra cui la Tpp (Trans-Pacific Partnership). E prendeva nota favorevole degli sforzi in corso tra i Paesi firmatari della Tpp per completare le procedure interne di ratifica. A margine del summit, i leader dei 12 Paesi della Tpp si erano anche riuniti a parte: il portavoce del governo giapponese aveva dichiarato che i 12 si sono trovati d’accordo nel continuare a promuovere le ratifiche. Con sconcertante brutalità, già all’indomani del summit, Donald Trump ha preannunciato in video che intonerà il “De Profundis” alla Tpp fin dal primo giorno di insediamento alla Casa Bianca, definendo l’accordo multilaterale negoziato in sette anni «un potenziale disastro per il nostro Paese». A uscirne umiliato non è solo il presidente Obama, ridotto a un inutile e melanconico “canto del cigno” peruviano: è la statura politica e diplomatica degli States a risultarne abbassata, soprattutto in Asia, presso gli alleati così come presso i potenziali rivali. Ieri è stata una giornata proprio nera, in particolare, per il premier giapponese Shinzo Abe, che ha speso un ingente capitale politico per fare della Tpp il perno delle riforme strutturali del Paese (la cosiddetta ”terza freccia” dell’Abenomics) a dispetto delle proteste della tradizionale base rurale del suo partito. Pensare che, prima di arrivare a Lima, Abe era corso irritualmente a casa del presidente designato, alla Trump Tower di Manhattan, a consegnarli un regalo (attrezzature per il golf), dichiarando poi che Trump è una persona di cui si può avere grande fiducia. Dall’Argentina, dove si trova in visita ufficiale, poche ore prima del video-shock, aveva dichiarato che senza gli Usa la Tpp diventerebbe «senza senso», mentre una rinegoziazione è improponibile in quanto altererebbe il bilanciamento dei benefici. Poi gli è arrivata la notizia del nuovo terremoto nel Giappone settentrionale che ha rievocato il tragico marzo 2011, compresi malfunzionamenti a una centrale nucleare. Abe torna oggi in una Tokyo dove la Camera Alta sta discutendo l’ultimo passaggio procedurale della Tpp, già approvata dalla Camera Bassa: assicurati gli scherni dell’opposizione. La “Trumponomics” inizia dunque con uno schiaffo pubblico a Obama e ad Abe, i due personaggi che più avevano insistito sul significato strategico e non solo commerciale di un patto multilaterale in grado di dettare le regole del commercio internazionale evitando che sia la Cina a farlo. Come logica conseguenza , secondo la generalità degli analisti, emergerà un ripensamento complessivo delle strategie di molti Paesi asiatici, con un rilancio delle prospettive di intese multilaterali più blande e più regionalizzate, a partire dalla panasiatica Rcep con primattore la Cina (che era esclusa dalla Tpp). Una volta ripresosi dallo shock – osserva l’esperto Gerald Curtis della Columbia University (ieri a Tokyo), Abe potrà consolarsi proponendosi come il campione dell’anti-protezionismo. Tra i perdenti nel naufragio della Tpp provocato da un nuovo concetto di “America First” ampiamente sospettato di miopia egoistica, ci sarebbero in particolare Giappone, Singapore, Vietnam e Malaysia. Oltre a una America che rischia di disperdere “goodwill” anche sul piano politico. E in modi poco rispettosi degli altri, se non offensivi.
Corriere 23.11.16
L’espansionismo di Pechino e le difficoltà di Shinzo Abe
di G. Sar.
La rinuncia del neopresidente americano al Ttp (Trans Pacific Partnership) mette in difficoltà soprattutto il primo ministro giapponese Shinzo Abe. Per il grande Paese asiatico la costruzione di uno spazio commerciale tra le due sponde del Pacifico era uno strumento essenziale per contenere l’espansionismo commerciale della Cina, non a caso esclusa dal protocollo firmato il 5 ottobre del 2005.
Il governo di Tokyo, per altro, è seriamente preoccupato anche per l’attivismo militare di Pechino nel Sud-Est asiatico. I due Paesi si contendono la sovranità sulle isole Senkaku-Diaoyu. Shinzo Abe ha preso l’iniziativa diplomatica, incontrando il 17 novembre Trump a New York e poi il 20 novembre il presidente cinese Xi Jinping, a margine del vertice Apec di Lima. Ma il premier nipponico non è uscito rassicurato da nessuno dei due vertici.