mercoledì 23 novembre 2016

ITALIA

La Stampa 23.11.16
Modello-Milano, l’arma di Renzi per ricostruire il centrosinistra
Il premier lavora con Pisapia e Zedda a un soggetto alleato al Pd Nella partita anche Boldrini, corteggiata per il post-referendum
di Federico Geremicca


È lo schema che alle amministrative della primavera scorsa salvò Renzi, evitando che una sconfitta si trasformasse in una irrecuperabile disfatta.
Il premier-segretario lo chiamò modello-Milano, ed ora è pronto a rilanciarlo su scala nazionale. Con tre nomi destinati, a giudizio di Renzi, a dare peso e credibilità al progetto. Due nomi sicuri e ormai acquisiti: quello di Giuliano Pisapia, ex sindaco di Milano, e di Massimo Zedda, quarantenne sindaco di Cagliari; un altro corteggiato, tentato ma non ancora del tutto convinto: quello di Laura Boldrini.
Ed è dunque così, nel buio pesto di questa campagna referendaria, che il presidente del Consiglio sta preparando il dopo: un dopo che - sia che vinca il Sì o che prevalga il No - ha già nell’orizzonte la sfida finale per il governo del Paese. Renzi è ormai rassegnato all’idea che quella battaglia sarà combattuta con una legge elettorale diversa dall’Italicum: una nuova legge, come si ipotizza, che non prevederà ballottaggio e che sposterà il premio di maggioranza da un partito ad una coalizione - nella migliore delle ipotesi - o che addirittura segnerà uno strabiliante ritorno agli indimenticati fasti del proporzionale.
In entrambi i casi, il Pd dovrà rinunciare all’originaria «vocazione maggioritaria» per cercare alleati e allestire una coalizione: da qui l’idea del rilancio del modello-Milano. Lo schema è antico e semplice: una lista Pd, una cattolica di centro e una di «sinistra di governo», molto caratterizzata dalla presenza di sindaci legati all’esperienza del cosiddetto «movimento arancione». Giuliano Pisapia sarebbe pronto a capeggiarla e Massimo Zedda a sostenerla. L’interrogativo - non da poco - riguarda Laura Boldrini, presidente della Camera, figura assai rappresentativa nel mondo della nuova sinistra ma ancora dubbiosa e indecisa.
Matteo Renzi sta insistendo da settimane perché la presidentessa della Camera accetti di dare lustro e sostanza alla lista di sinistra che vorrebbe alleata alle prossime politiche. Abboccamenti, pour parler, telefonate e una cordialissima chiacchierata la mattina del 4 novembre dopo l’omaggio all’altare della Patria. Ma più ancora che il premier, è la ministra Boschi - che ha costruito negli anni un buon rapporto con la Boldrini - a tenere i contatti con lei, insistendo sull’importanza di una sua presenza futura. Per altro, la presidentessa della Camera oggi è - di fatto - un leader senza partito (considerato lo scioglimento di Sel e le difficoltà di Sinistra italiana) e dunque non insensibile a offerte di nuovi impegni e nuove prospettive.
Ed è precisamente in questo quadro - segnato però dall’incertezza circa l’esito referendario - che nel giro stretto del premier e dei suoi pochi consiglieri andrebbe maturando un’ipotesi, una possibilità, sulla quale i ragionamenti sono aperti: indicare al Capo dello Stato proprio Laura Boldrini come la personalità incaricata di guidare un governo d’emergenza in caso di crisi dopo il 4 dicembre. Si soppesano gli elementi a favore (il fatto che sia donna, l’esperienza su un fronte decisivo come quello dell’immigrazione e l’esser stata più in sintonia di Grasso, presidente del Senato, con alcune politiche del governo) e quelli che suscitano perplessità (il non esser assimilabile in alcun modo al «renzismo» e l’inclinazione a muoversi in maniera autonoma e indipendente).
Se ne ragiona, ma senza perdere di vista quello che resta l’obiettivo principale: acquisire il sostegno di Laura Boldrini alla lista rosso-arancione che il Pd vorrebbe alleata alle elezioni politiche che verranno. Per altro, con Sel in via di scioglimento e di fronte alle difficoltà di Sinistra italiana a darsi un assetto credibile, l’ipotesi di un raggruppamento nazionale che abbia in Giuliano Pisapia il suo riferimento sta suscitando curiosità e interesse in un’area politica disorientata e sofferente nella tenaglia Renzi-Grillo. Ma c’è un problema, naturalmente: il referendum...
Il Sì e il No, infatti, stanno dividendo anche leader e comprimari del costruendo modello-Milano. Votare No, denunciare rischi per la democrazia e poi allearsi col «tiranno»? Difficile da farsi, e ancora più difficile svoltare del tutto e schierarsi con il Sì. E allora? E allora le vie della politica si confermano infinite, e qualcosa si muove. Massimo Zedda ha annunciato che non aderirà a Sinistra italiana e con Giuliano Pisapia ha inaugurato, sul referendum, una posizione inedita: non dicono cosa voteranno, ma annunciano cosa non voteranno. E naturalmente, guarda un po’, non voteranno No...

il manifesto 23.11.16
La lettera. Emanuele Macaluso al manifesto: l'iniziativa di Cuperlo e l'impegno della maggioranza del Pd alla riforma dell'Italicum mi spingono a votare sì al referendum
di Emanuele Macaluso


Caro manifesto,
mi preme una precisazione sull’articolo di ieri in cui c’era scritto che, insieme a Reichlin, io non sostengo la riforma.
In effetti, io non ho mai sostenuto la riforma con gli argomenti di Renzi, che ritengo sbagliatissimi, dalla personalizzazione iniziale alla battaglia finale contro «la casta».
Ho sempre avuto obiezioni anche e soprattutto sulla legge elettorale, ma non ho mai pensato di votare No al referendum, non solo per motivi di merito ma per motivi politici, che attengono alle ragioni espresse da tanti esponenti dei Comitati del No.
Il mio orientamento era di votare scheda bianca, appunto per non sostenere né Renzi né tantomeno il No.
Ma Cuperlo ha preso un’iniziativa che io ho condiviso e ha ottenuto un documento sulla modifica della legge elettorale che non ritengo carta straccia, firmato dai capigruppo del Pd, dal Vice Segretario e dal Presidente, e su cui anche Renzi si è impegnato, che è diventato non solo un documento interno al Pd, partito a cui io non aderisco, ma patrimonio di un’opinione pubblica più vasta.
Anche alla luce di questo fatto nuovo, gli argomenti che Napolitano ha sostenuto lunedì, che non sono quelli di Renzi e anzi sono molto critici con il modo in cui sta conducendo la campagna referendaria, mi spingono semmai ad orientarmi verso il Sì.
Rispetto le vostre posizioni, spero che rispettiate anche le mie.
Cordiali saluti,
Emanuele Macaluso
La replica di Andrea Fabozzi
Ringraziamo Macaluso per l’attenzione; come lui stesso riconosce non abbiamo mai scritto che voterà No. Lo ricordavamo fermo alla scheda bianca, ma ovviamente rispettiamo in pieno le sue posizioni. E i suoi più recenti orientamenti.
a. fab.

il manifesto 23.11.16
Berlusconi torna in tv: per il No e per una grande coalizione
Porta a Porta. Il Cavaliere prende le distanze dalla bagarre referendaria: «Perché voto No al referendum? Me lo chiedo anche io». Poi recupera: «Con il Sì c’è il rischio di una deriva autoritaria, di una sola persona padrona del governo, dell’Italia e degli italiani»
di Andrea Colombo


ROMA Si è fatto attendere per mesi, ma alla fine Silvio Berlusconi ha fatto quel che il partito gli chiedeva e che da sempre gli riesce meglio: è andato in tv. Nello studio più amico, quello di Bruno Vespa, e in ottima forma. Fedele al proprio ruolo esordisce con una battuta nella quale c’è probabilmente molta verità: «Perché voto No al referendum? Me lo chiedo anche io». Poi recupera: «Con il Sì c’è il rischio di una deriva autoritaria, di una sola persona padrona del governo, dell’Italia e degli italiani». L’ironia è anche un modo per prendere le distanze dalla guerra di religione ingaggiata intorno alle urne: se passa il No sarà tra i vincitori, se perde vuol essere solo mezzo sconfitto.
Ma l’ex onnipotente è in campo per il No e non, come molti pensavano, per il Nì. A risolvere gli ultimi dubbi sono stati, come sempre, i sondaggi che danno la riforma per probabilmente sconfitta. Dunque liquida sbrigativo il dissenso con i vertici Mediaset: «Temono ritorsioni». Ma sbagliano perché per l’azienda il guaio sarebbe casomai la vittoria del Sì. Più che sulla prova del 4 dicembre, Berlusconi sembra concentrato sul day after, e anche in quel caso getta acqua sulle preoccupazioni: «Il governo non cadrà. Ha la maggioranza e la manterrà. Poi i parlamentari che non sono certi di tornare in Parlamento saranno attaccati alla sedia». Conosce i suoi polli.
Non si può dire che il leader azzurro celi il proprio progetto: «Riforma elettorale proporzionale con sbarramento al 5% e poi Grosse Koalition sul modello tedesco». Così non ci sarebbe neanche bisogno di coalizzarsi con Salvini e con Fdi. Lo si può capire, è il solo modo per rientrare al governo, ma è anche la strada che Renzi vede come un incubo. L’uomo di Arcore tutto è tranne che un ingenuo: sa che il rischio è quello di tornare a votare con l’Italicum. Forse in estate, come dice il vicesegretario Pd Guerini: «Se vince il No si vota entro l’estate, se vince il Sì andiamo avanti fino al 2018». Ma forse anche prima: negli ultimi giorni è dilagata la sensazione che Renzi come anche, sul fronte opposto, Salvini intendano invece correre alle urne subito, entrambi per capitalizzare a botta calda i voti referendari.
Renzi, insomma, si chiede se per trasformare i Sì in altrettanti consensi e passare così il 40%, strappando il premio al primo turno, non sia consigliabile votare il prima possibile, anche con un sistema diverso per Camera e Senato. Per questo Berlusconi mette le mani avanti: «Quella di cambiare la legge elettorale è solo una promessa e se si sciogliesse con questa legge il rischio di andare incontro a una dittatura di Renzi o di Grillo sarebbe grosso».
C’è un ultimo capitolo spinoso: la leadership del centrodestra. Non sarà di Parisi: «Mai licenziato perché mai assunto. Vuol fare il federatore ma attacca Salvini. Buona fortuna». E allora? Un’idea Silvio il cabarettista ce l’ha: «Vespa sarebbe il migliore».

il manifesto 23.11.16
Nessun segreto, il voto è social
Referendum. Gli italiani all'estero stanno votando. E pubblicando le loro schede segnate su Instagram. Crescono i dubbi sulla regolarità del sistema previsto dalla legge Tremaglia. E il comitato del No annuncia un ricorso nel caso alla fine questi voti dovessero risultare decisivi
di Andrea Fabozzi


In un bar italiano di Sidney, vedete la foto qui accanto, qualcuno ha appeso al muro una scheda elettorale originale del referendum costituzionale. Ha aggiunto oltre al Sì e al No una terza opzione, Boh, e l’ha scelta con una X. La vita avventurosa delle schede elettorali all’estero è in pieno svolgimento. Stampate in tipografie scelte dalle ambasciate e dai consolati, recapitate attraverso servizi privati nelle residenze degli oltre quattro milioni di elettori italiani, stanno in questi giorni facendo il viaggio all’indietro verso le rappresentanze consolari. Quelle che non sono andate perse nei bar.
Le schede devono arrivare entro le 16, ora locale, del 1 dicembre. Poi saranno spedite a Roma, e scrutinate contemporaneamente a quelle degli elettori italiani nella notte del 4 dicembre. Potrebbero essere voti decisivi, le previsioni raccontano di un testa a testa tra i Sì e i No. E dovrebbero essere voti «personali, uguali, liberi e segreti» come da articolo 48 della Costituzione. Ma basta aprire uno dei social più frequentati, Instagram, per vedere che così non è. Tantissimi elettori stanno fotografando la scheda segnata, socializzando così con amici e follower la loro scelta. Nessun segreto. E c’è almeno un italiano famoso, Flavio Briatore, residente a Montecarlo, che si è fatto fotografare mentre barra – ovviamente – il Sì. Ha aggiunto un pensierino dei suoi – «è fondamentale votare #SI, perché l’Italia possa andare avanti, mentre chi vota No è per un’Italia che va indietro» – e si è preso anche qualche insulto per questo. Il post è piaciuto a quasi seimila utenti.
Alcune delle schede segnate compaiono in profili anonimi, altre in profili firmati con nome e cognome, in ogni caso in questo articolo non citeremo alcun account: è molto semplice per chiunque verificarlo su Instagram seguendo gli hashtag del referendum. «Lo so che è illegale, ma non me ne frega niente, è più illegale la casta dei nullafacenti pagata con le nostre tasse», scrive un italiano residente a Londra. Eppure al Viminale sono più prudenti. La legge del 2008 che serve a tutelare «la segretezza del voto nelle consultazioni elettorali e referendarie» si riferisce infatti ai soli seggi sparsi sul territorio nazionale, dove chi fotografa la scheda rischia il carcere (da tre a sei mesi) e una multa (da 300 a mille euro). Il ministero dell’Interno, spiegano dagli uffici di Alfano, non ha responsabilità per quello che accade all’estero, dove il controllo è (o dovrebbe essere) delle ambasciate e dei consolati.
Chi, a casa sua o al bar, ha in mano una scheda e uno smartphone non ci pensa. E così vediamo la scheda con il No di un elettore a Dublino, di un altro a Sidney e un altro ancora a Barcellona. Vediamo un Sì da Boston e un No dalla Cina. Un elettore di San Francisco fotografa la sua scheda con il No davanti alla tv con un fermo immagine del volto di Renzi.
Voti liberi, probabilmente, e personali, ma non segreti. Com’è impossibile che sia per tutti quelli espressi all’estero da quando (2001) trova applicazione la contestata legge Tremaglia. Ieri il presidente del Comitato del No al referendum costituzionale, Alessandro Pace, nel corso di una conferenza stampa dedicata in gran parte al voto all’estero, ha detto che «se il voto per il Sì dei cittadini italiani all’estero dovesse rivelarsi determinante, impugneremo questa consultazione davanti all’ufficio centrale del referendum, che è un organo giurisdizionale». Questa dichiarazione ha offerto l’occasione a Renzi per un attacco – «non hanno argomenti» – e non è piaciuta neanche ad alcuni esponenti del No, come D’Alema che ha detto che «i ricorsi li fa chi perde e invece il No vincerà».
Pace però ha fatto riferimento a una norma prevista dalla stessa legge sul referendum – l’articolo 23 della legge 352 del 1970 – per la quale «sui reclami relativi alle operazioni di votazione» del referendum decide, appunto, l’Ufficio centrale. L’occasione potrebbe essere quella buona non tanto per rovesciare il risultato delle urne, ma per portare la legge sul referendum davanti alla Corte costituzionale. Proprio ieri il Tar del Lazio dando torto a Onida ha detto però che la sede giusta è proprio l’Ufficio centrale. E ha aggiunto che i dubbi di costituzionalità sono «seri».

Corriere 23.11.16
Una campagna incattivita da sospetti incrociati
di Massimo Franco


Era difficile riuscirci, ma sta accadendo: la campagna referendaria si sta incanaglendo. Si allarga verso confini che mettono in discussione la legalità del voto. Con un’iniziativa da tempo in incubazione, segno anche di nervosismo, il Comitato del No allunga il sospetto di brogli nei seggi degli italiani all’estero. In caso di vittoria del Sì decisa dai voti di chi risiede oltre confine, scatteranno le denunce. In più, il M5S presenterà un esposto in Procura a Napoli contestando a Vincenzo De Luca un presunto «scambio elettorale politico-mafioso».
Non bastasse, ieri Silvio Berlusconi ha lasciato capire che perfino il Sì al referendum del suo braccio destro storico, Fedele Confalonieri, sarebbe stato offerto per evitare «ritorsioni» sulle aziende televisive di sua proprietà da parte di «chi ha il potere». Si tratta di un’affermazione grave, che allunga sulla campagna referendaria l’ombra del ricatto. Va presa con le pinze, visto che Berlusconi è schierato con il No. Ma si inserisce in un’atmosfera di veleni su alcune mosse contestate del governo.
Le parole del capo di FI arrivano dopo la pubblicazione di una registrazione nella quale il governatore Pd della Campania chiedeva a centinaia di sindaci il Sì al referendum per i finanziamenti assicurati da Matteo Renzi. Ed è alimentata dal dubbio che il governo voglia cambiare una legge nella manovra per consentire a De Luca di diventare commissario della sanità nella regione. Insomma, in vista del 4 dicembre, tutto fa pensare che i toni grevi possano impennarsi ancora. Alessandro Di Battista accusa: «Il voto clientelare ha distrutto il Paese e Renzi giustifica le parole mafiose di De Luca...».
Per l’esponente del M5S, De Luca è una bandiera negativa brandita contro il Pd. A qualunque critica su tessere false o malgoverno, la risposta è standard: pensate a De Luca. Lo fanno anche dopo che Grillo ha definito con particolare grevità il premier «una scrofa ferita» che attacca perché è terrorizzato. Renzi gli risponde con ironia che il voto «non è sulla scrofa ferita», cioè su di sé. Frasi che confermano la percezione di un esecutivo impopolare e di una campagna personalizzata. Eppure, Renzi non può cambiare spartito.
Martella dunque con quella che considera la parola magica: «cambio». Attacca la nomenklatura del passato e l’Ue, e addita in modo inelegante l’«accozzaglia del No». Almeno nelle intenzioni, l’obiettivo di tanta aggressività sono gli indecisi. Il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, invita a essere «educatamente molesti con le persone» per spingerle alle urne. Si accredita una rimonta del Sì. L’attenzione crescente sul Quirinale e su Sergio Mattarella per il «dopo» certifica la consapevolezza di una lacerazione che solo un arbitro finora silenzioso potrà ricucire.

Repubblica 23.11.16
Il rischio broglio venuto da lontano
di Sebastiano Messina


COME era forse inevitabile, dal momento che la campagna per il referendum è diventata una commedia all’italiana, la scena madre del 4 dicembre potrebbe essere girata all’estero. Non ai Caraibi, a Miami o in India, come nei film di Natale dei fratelli Vanzina, ma in tutti i cinque continenti. Il presidente del comitato per il No, il professor Alessandro Pace, ha infatti messo le mani avanti: «Se il voto degli italiani all’estero dovesse rivelarsi determinante per la vittoria del Sì, allora impugneremo questa consultazione ». Ed è impossibile non ricordare che anche Donald Trump, alla vigilia delle presidenziali americane, avvertì che avrebbe riconosciuto il risultato solo se non avesse vinto Hillary Clinton, ma la cattedra di diritto costituzionale su cui siede il professor Pace ci dà la certezza che lui presenterebbe ricorso anche se quel voto fosse a suo favore, e risultasse decisivo per la vittoria del No.
Ora, il sospetto del broglio alle elezioni fa parte della tradizione italiana, ben prima che il referendum sulla scelta tra monarchia e repubblica facesse nascere la leggenda — nonostante i due milioni di voti di scarto — che i partiti del Cln avessero truccato, alterato e taroccato un risultato favorevole al re. Ma il professor Pace evoca un broglio preventivo, una violazione delle regole costituzionali, e teme che il voto degli italiani all’estero non sia «né libero né segreto».
Timore, sia chiaro, per nulla infondato, a giudicare dai precedenti. Alle politiche di tre anni fa, nel grande edificio di Castelnuovo di Porto dove confluiscono i voti di tutti i 1361 seggi delle circoscrizioni estere, spuntarono schede compilate dalla stessa mano, fotocopie a colori, voti di elettori già passati a miglior vita e un gran numero (quasi il 10 per cento) di schede nulle per vizi di forma. E fu proprio l’ambasciatrice Cristina Ravaglia, capo della Direzione generale per gli italiani all’estero della Farnesina, a segnalare al Quirinale e a Palazzo Chigi che la procedura adottata per il voto per corrispondenza esponeva al «pericolo di furti, incette, pressioni, compravendite, sostituzione del votante, ma non solo».
Il governo, naturalmente, oggi assicura che vigilerà, controllerà e garantirà il rispetto della legalità, ma nessuno può mettere la mano sul fuoco sulla regolarità di un voto che negli ultimi anni ha rapidissimamente assunto un peso sempre maggiore sui già traballanti equilibri della politica nazionale.
È per colpa — o per merito: dipende dai punti di vista — del voto estero se l’Italia non ha abbandonato la proporzionale e adottato l’uninominale secco: il 18 aprile 1999, al terzo referendum che avrebbe completato la transizione italiana verso il maggioritario, il 91,5 per cento votò Sì, e nei seggi italiani il quorum venne superato d’un soffio, ma quando arrivarono i voti della circoscrizione estero la percentuale scese dello 0,42 per cento al di sotto della soglia minima, e il referendum fallì per 150 mila voti (si scoprì poi che dei 2 milioni 351 mila emigrati o residenti all’estero, 349 mila erano morti da un pezzo, ma ormai era troppo tardi per riscrivere il risultato).
Da allora ad oggi, gli elettori fuori dai confini nazionali sono diventati 4.128.497 — il 7 per cento del totale — grazie alle norme che hanno consentito di ottenere il passaporto (e il diritto di voto) a chi aveva, ovunque nel mondo, un solo genitore italiano. Con il risultato che l’Italia oggi è, in tutto il pianeta, il Paese con la più alta percentuale di elettori che vivono all’estero. E a differenza di Gran Bretagna e Germania, dove gli emigrati a un certo punto (dopo 15 o 25 anni) perdono il diritto di voto, l’Italia ha fatto diventare elettori non solo gli emigrati, come era giusto, ma anche i loro discendenti di seconda, terza o quarta generazione che non solo sanno poco o nulla di quello che accade in Italia, ma non ci hanno mai messo piede. L’ambasciatore Sergio Romano ha scritto sul Corriere che «tra i Paesi di grande emigrazione l’Italia è il solo che abbia spensieratamente elargito il diritto di voto anche a coloro che non hanno mai vissuto nella patria d’origine e non parlano italiano». È così, il caso-limite è quello degli italo-brasiliani: 9 su 10 non parlano la nostra lingua e 7 su 10 neanche la capiscono.
Però sono elettori, vengono calcolati nel quorum e naturalmente possono votare. Eleggendo 12 deputati (che resteranno anche con l’Italicum) e 6 senatori, rappresentanti di interi continenti. Un mio compagno di liceo, Francesco Giacobbe, siciliano di Piedimonte Etneo, emigrato in Australia è stato eletto tre anni fa senatore nella circoscrizione “Africa, Asia, Oceania e Antartide”. E sono certo, conoscendolo, che lui onori con passione il suo impegno, ma mi sono sempre chiesto come sia umanamente possibile interpretare la volontà popolare di un elettorato sparso in tre continenti, dal deserto del Sahara al mare di Amundsen, e cercare voti in un collegio sul quale, come nell’impero di Carlo V, non tramonta mai il sole.

Il Sole 23.11.16
È esagerato il pessimismo dei mercati sul referendum
di Walter Riolfi


I catastrofici scenari che si dipingono, se vincesse il «no» al referendum costituzionale del 4 dicembre, potrebbero essere un tantino eccessivi. Quanto meno potrebbero essere state esagerate le conseguenze sui mercati finanziari. La sensazione s’è colta da qualche giorno tra alcuni economisti e strategist delle maggiori società d’investimento italiane e ieri s’è un poco riflessa tra gli operatori dei titoli di Stato e della Borsa. Non a caso lo spread del Btp è rimasto sostanzialmente stabile e il rendimento è un poco sceso, ma Piazza Affari ha avuto un discreto guizzo, in particolare grazie ai titoli bancari: quelli più sensibili all’eventualità di una instabilità politica dopo il referendum.
Paradossalmente questo apparente ripensamento o, meglio, ammorbidimento del pessimismo imperante, s’è notato dopo l’articolo di Wolfgang Münchau che, sulle colonne del Financial Times, ha prospettato l’affermazione dei populismi e l’uscita dall’euro dell’Italia in caso di vittoria del «no». Il mondo finanziario anglosassone non è nuovo a questi giudizi taglienti, specie quando in questione sono la politica e l’economia italiana e i destini della valuta comune. Basta leggere i commenti di gran parte degli investitori americani per avere un’idea di quanto schematiche ed omologate siano le loro analisi e come ineluttabili appaiono le conseguenze.
Mettere insieme Brexit, Trump, l’eventuale no al referendum italiano, come se fossero una sequela della medesima natura, è esercizio a dir poco approssimativo: perché la reazione popolare nei tre eventi ha caratteristiche alquanto diverse, come osserva anche Erik Nielsen di UniCredit. Il cosiddetto fronte del no al referendum costituzionale non significa il trionfo di chi invoca l’uscita dall’euro. E il ballottaggio tra Francois Fillon e Alain Juppé alle primarie del centro destra francese, con la conseguente esclusione di Nicolas Sarkozy , è semmai, come sottolinea Giovanni Landi di Anthilia, un fattore rassicurante per la stabilità dell’unione monetaria europea: quanto meno perché rende assai più difficile l’affermazione di Marine Le Pen.
È vero, come scrive Fitch, che la diffusa paura dell’immigrazione e l’insofferenza verso l’austerità fiscale dell’Unione europea alimentano le spinte populiste al nazionalismo e alla spesa pubblica, specie in quei Paesi che, come l’Italia sono affaticati da un grande debito. E il tutto finisce per minare il già fragile processo d’integrazione europea. Ma l’eventuale affermazione di questa deriva populista sarà fenomeno che verificheremo il prossimo anno dagli esiti delle elezioni politiche in Olanda, Francia, Germania ed, eventualmente, pure in Italia, se vincesse il «no».
È anche probabile che l’eventuale sconfitta del governo Renzi, renda più difficile la ricapitalizzazione del MontePaschi (e forse di UniCredit) e allunghi i tempi necessari alla riorganizzazione delle più sofferenti banche italiane, poiché s’aprirebbe una fase di parziale vuoto politico. Ma anche in questo caso, all’indomani del referendum, non sarebbe la catastrofe per Piazza Affari. Un calo nella prima seduta, e una certa debolezza nei giorni successivi, è da mettere in conto secondo Intermonte: ma, «nell’arco di qualche settimana», si porrebbero le «basi per un recupero altrettanto marcato», sottolinea la Sim di Alessandro Valeri. Forse ancor meno preoccupante potrebbe essere la reazione sui titoli di Stato, poiché, in un mercato controllato dalla banca centrale, è probabile un deciso intervento della Bce, se le cose volgessero al peggio: tanto più se fossero vere le voci secondo le quali Draghi potrebbe decidere di acquistare meno titoli tedeschi (che scarseggiano dati i rendimenti negativi) e più Btp. Anche Nielsen di UniCredit è convinto che, dopo qualche seduta, lo spread dei bond italiani dovrebbe scendere a livelli di settembre, ottobre: attorno a 1,40, insomma, dall’1,80 di ieri.
Non a caso, tutta questa serie di piccoli ripensamenti ha finito per rendere meno cupo lo scenario post referendario. E, su mercati che già hanno scontato l’esito peggiore e che sono stati dominati da diffuse vendite al ribasso sui Btp e sui titoli azionari, hanno fatto capolino le prime ricoperture. Come si può arguire dal rimbalzo di ieri.

Il Sole 23.11.16
Legge elettorale al bivio: come potrebbe cambiare a seconda dei risultati referendari
Provincellum con il Sì, proporzionale con il No
di Emilia Patta


Va da sé che le leggi elettorali, essendo leggi ordinarie, sono indipendenti dalla Costituzione. Tanto è vero che l’attuale bicameralismo paritario, pensato all’origine in combinato disposto con il sistema proporzionale, ha convissuto negli ultimi 22 anni con sistemi elettorali maggioritari o ipermaggioritari come sono stati prima il Mattarellum (basato per il 75% su collegi uninominali all’inglese) e poi il Porcellum (che attribuiva il premio di maggioranza fisso al 54% senza fissare una soglia minima di voti per ottenerlo, motivo per cui è stato bocciato dalla Consulta due anni fa). È pur vero, tuttavia, che la riforma che abolisce il Senato elettivo è stata pensata in combinato disposto con l’Italicum per dare una spinta verso un moderno modello di democrazia decidente: ossia un vincitore certo - in questo caso dato dal meccanismo del ballottaggio nazionale - che governa cinque anni cercando di approvare il suo programma per poi sottoporsi nuovamente al giudizio dell’elettorato. Al di là del fatto che lo stesso Matteo Renzi ha già annunciato modifiche all’Italicum sia che vinca il Sì sia che vinca il No il 4 dicembre prossimo - pressato in questo senso dalla minoranza interna del suo partito oltre che da autorevoli personalità come il presidente emerito Giorgio Napolitano - il risultato delle urne referendarie non sarà certo neutro per quanto riguarda le modifiche alla legge elettorale. E in campo ci sono almeno sei proposte per il dopo referendum, che possiamo tentare di raggruppare in due caselle: le proposte probabili se vince il Sì e le proposte probabili se vince il No. Disegnando in questo modo due modelli di democrazia, una più “decidente” e una più “rappresentativa”.
In caso di vittoria del Sì, oltre alla possibilità che resti l’Italicum di fronte a un mancato accordo tra partiti su eventuali modifiche, Renzi sarebbe più restio ad abbandonare il ballottaggio dal momento che in una situazione di tripolarismo di fatto come quella attuale - Pd, M5S e centrodestra se avrà il tempo di rilanciarsi - è l’unico sistema che garantisce un vincitore certo la sera stessa del voto. Anche se quel vincitore (da qui l’opposizione di Napolitano) potrebbe essere il partito “populista” di Grillo. Nello scenario post referendum favorevole a Renzi potrebbe dunque tornare utile la proposta del democratico Dario Parrini, una sorta di Provincellum: in sostanza collegi con ripartizione proporzionale, come quelli usati per l’elezione dei vecchi Consigli provinciali, accompagnati dal ballottaggio nazionale tra le prime due liste se nessuna raggiunge il 50%, magari con la possibilità di apparentamento tra liste tra il primo e il secondo turno. In senso maggioritario va anche la proposta avanzata dalla minoranza del Pd, il cosiddetto Mattarellum 2.0: un sistema di collegi uninominali con l’aggiunta di un premio di 90 seggi (circa il 14%) alla lista o alla coalizione che arriva prima a livello nazionale. In questo caso un vincitore certo non ci sarebbe, a meno di non sfiorare il 40%, ma si tratta comunque del modello più maggioritario possibile senza ballottaggio.
All’estremo opposto le proposte in campo nell’ipotesi che vinca il No. Una è il proporzionale semplice con lo sbarramento al 5% così come rilanciato ancora ieri da Silvio Berlusconi, che non a caso ha precisato che con un modello del genere ogni partito correrebbe da solo (e quindi lui non sarebbe costretto ad allearsi con il lepenista Salvini) e la sua Forza Italia sarebbe disponibile per un governo di Grosse Coalition alla tedesca con il Pd. Modello rappresentativo-comnsociativo puro, insomma. C’è poi la proposta del M5S, il Toninellum, che guarda alla Spagna: proporzionale sulla base di collegi elettorali provinciali in modo da ottenere un effetto-soglia implicito e preferenze al posto delle liste bloccate. Anche in questo caso la conseguenza probabile sarebbe un governo di larga coalizione. Esattamente in mezzo si pone infine la proposta avanzata dal presidente del Pd, il “giovane turco” Matteo Orfini: proporzionale con un premio alla lista del 15% come in Grecia (da qui il nome Italikos), che nella variante caldeggiata dai centristi di Alfano diventa premio alla coalizione. Un modello sul quale potrebbe ripiegare tutto il Pd in caso di sconfitta alla urne per salvare quel tanto di maggioritario possibile.

Corriere 23.11.16
La lettera del Papa e la storia del sarto pio
Hanno detto che sull’aborto la Chiesa «si è aperta al mondo». Ma cos’è il mondo?
di Claudio Magris


C’è una frase stereotipa che molti hanno ripetuto banalmente, commentando la decisione del Papa di accomunare agli altri peccati gravi l’aborto, la cui assoluzione — previo ovviamente il reale pentimento e il proposito di non commetterlo ulteriormente — può ora venire impartita da qualsiasi sacerdote e non più, come in precedenza, solo dal vescovo.
La soppressione di un individuo nelle primissime fasi della sua esistenza è e rimane una colpa grave, ma non è più colpita da scomunica, da cui peraltro non erano e non sono colpiti peccati anche più gravi.
La decisione del Pontefice è perfettamente in linea con la dottrina della Chiesa e con lo spirito del Cristianesimo, il quale, prima di essere una religione, è un cambiamento della vita, è la promessa e la possibilità di rinascita, di resurrezione non solo di Cristo ma — cosa non meno importante — dell’uomo, la sua capacità di «metanoia», ossia di ricreare la propria vita. Fra l’altro, la tetra ritualità della scomunica e dell’assoluzione speciale solo da parte del vescovo poteva facilmente produrre un’atmosfera angosciosa, atta a provocare non la libertà della rinascita spirituale, quanto piuttosto oscuri e vaghi sensi di colpa, che la Chiesa saggiamente condanna perché li sa legati più a coatte tortuosità psicologiche che non a valori e a sentimenti morali. Chi insinua — per lodarlo o attaccarlo, in entrambi i casi ipocritamente — che il Papa abbia inteso minimizzare l’aborto mente, sapendo — o, peggio ancora, non sapendo — di mentire.
Si è detto, da molti, che con questa decisione la Chiesa «apre» o «si apre» al mondo. Anzitutto la frase non ha senso, perché tutti siamo nel mondo, il mondo siamo anche noi, Chiese comprese. Il mondo non è fuori e nemmeno noi — individui, Stati o istituzioni — ne siamo fuori; il mondo è il nostro incontrarci, scontrarci, comprenderci, fraintenderci, amarci, odiarci, farci del bene o del male. Il mondo siamo noi, è in noi, nelle nostre vene e nei nostri pensieri, e noi siamo nel mondo anche quando, secondo il monito di Cristo, non siamo «del» mondo. Ma la frase ripetuta come una pappagallesca giaculatoria sembra voler dire che il mondo, esterno alla Chiesa, è il bene, il giusto, il progresso e che finalmente la Chiesa — o anche altre istituzioni o individui — migliora, si eleva, si libera aprendogli le porte e facendolo entrare.
Ma cos’è questo mondo il cui ingresso finalmente concesso sarebbe un grande passo in avanti? Il mondo, con le sue parole d’ordine imperiosamente obbligatorie per ognuno, è tante cose diverse. Il mondo — il nostro mondo, il nostro tempo — è progresso ma anche regressione; è la crescente liberazione di popoli e classi sociali ed è pure la crescente inumana schiavitù di altri popoli e di altre genti; è l’orrore della guerra che divampa ovunque e sempre più. È la liberazione della donna ed è il diffuso femminicidio; è la nobiltà di tanti che si sacrificano per lenire sofferenze e feroci ingiustizie inflitte a milioni di dannati della terra ed è l’abiezione del mercato di organi che regola l’uccisione di bambini in nome del profitto procurato dalla vendita degli organi strappati ai loro cadaveri. Le «pompe» del mondo cui si rinuncia nel battesimo sono anche le stragi, le bestiali condizioni di vita (o meglio non vita) imposte a milioni di persone per il pomposo benessere di pochi. Certo, il Cristianesimo offre pure agli assassini, ai serial killer, alla delinquenza organizzata che fa sparire i bambini nel calcestruzzo, la possibilità di pentirsi, di rinascere spiritualmente, di essere assolti — anche se spesso vorremmo, comprensibilmente, mettere loro una corda al collo.
Nemmeno le parole d’ordine correnti e dominanti sono sempre verità cui bisognerebbe adeguarsi, «aprirsi». Il mondo ovvero l’ideologia in quel momento sovrana può essere verità o menzogna generalizzata e sta a ognuno, Papa o non Papa, valutare liberamente, e soprattutto con autonomia di giudizio e di pensiero, cosa accettare e cosa respingere, a che cosa «aprire» e a che cosa sbattere la porta in faccia. Il senso della vita, come dice il titolo di un libro di Camus, è quello di «resistere all’aria del tempo», agli idoli in quel momento regnanti. Resistere senza pregiudizi e senza rifiuti aprioristici; resistere elasticamente, criticamente e autocriticamente, cercando di capire quando il mondo ci fa più liberi e intelligenti e quando ci fa più beoti e più schiavi. Molte opinioni, gusti, scelte e convenzioni oggi prevalenti sono inganni, a cominciare dallo stupido e tirannico pensiero unico il quale ribadisce che l’attuale ordine — o disordine — che regge il mondo sia l’unico sistema possibile, destinato a durare per sempre, e che le innominabili diseguaglianze tra gli uomini siano immutabili.
Non è detto che sia sempre bene — né sempre male — aprirsi, inchinarsi al mondo. Se proprio si è costretti, si può farlo come Bertoldo dinanzi alla Regina; Bertoldo obbligato ad avvicinarsi al suo trono passando sotto un basso arco e dunque inchinato fin quasi a terra, ma che lo fa entrando a ritroso e mostrando quindi, inchinato, alla Regina il sedere. In una storiella ebraica un pio sarto ebreo, accurato ma lento nel lavoro, a chi gli rimprovera di metterci più tempo per fare un paio di pantaloni di quanto ne abbia messo Dio per creare il mondo, risponde: «Sì, ma guardate com’è fatto il mondo e come invece, modestamente, sono fatti i miei pantaloni».

La Stampa 23.11.16
Aborto, il no dei medici obiettori
“Per noi rimane un crimine”
“L’invito di Francesco a perdonare è un aiuto alle donne”
di Flavia Amabile


Non tutti i medici obiettori sono d’accordo con papa Francesco che due giorni fa ha chiesto di estendere la confessione delle donne che abbiano effettuato un’interruzione di gravidanza o dei medici e infermieri che abbiano partecipato all’intervento. La stragrande maggioranza sottolinea la grandezza del gesto e il fatto che comunque non cambia nulla per i medici e nemmeno per i cattolici. Ma c’è sempre chi pensa che sia molto rischioso lasciare la possibilità a tutti i sacerdoti di confessare questo che per i fedeli è un peccato.
«È un abominevole delitto secondo il Concilio Vaticano II - precisa Angelo Francesco Filardo, vicepresidente dell’Associazione Ginecologi Ostetrici Cattolici - e la procedura in vigore fino a due giorni fa prevedeva per quel che riguarda la confessione di questo peccato una delega da parte del vescovo che si riservava di individuare i sacerdoti più adatti non solo a impartire l’assoluzione dopo questo gesto ma anche a capire le cause, a seguire la famiglia nel percorso successivo. Da ieri invece tutti i sacerdoti potranno ricevere la confessione dell’aborto ma non tutti saranno in grado di far sentire alle donne e ai loro cari lo stesso sostegno. Per questo motivo temo che ci sia stata una eccessiva semplificazione di un momento che invece è molto complicato. È complicato anche confessare un eventuale medico che decida di diventare obiettore e voglia confessarsi per gli aborti fino ad allora compiuti. L’obiezione diventa operativa un mese dopo la richiesta, in quel mese il medico deve continuare ad effettuare le interruzioni. Un sacerdote capace deve saperlo e dire al medico che voglia confessarsi di tornare dopo trenta giorni».
Banalizzare? Giuseppe Noia, presidente dell’Agcoc, non teme questo rischio. «Il pontefice ha solo allargato il senso del perdono di quello che secondo la mia coscienza è un crimine orrendo». Anche Matteo Crotti, ginecologo obiettore, esclude questo pericolo nel modo più assoluto. «Se una donna si avvicina alla confessione vuol dire che ha iniziato un percorso, che riconosce di essere passata attraverso una situazione di peccato e di volersi riavvicinare a Dio».
Non cambia proprio nulla, quindi, dopo le parole del pontefice? Filippo Boscia, presidente dell’Associazione italiana medici cattolici: «Per noi non cambia l’orientamento, restiamo contrari all’aborto. Cambia l’atteggiamento che dovrebbe essere sempre più mirato alla prevenzione dell’interruzione di gravidanza, un atteggiamento cioè di aiuto più che di rimprovero».
Ora che il perdono è esteso e garantito da parte di tutti i sacerdoti, bisognerebbe insomma insistere sulla prevenzione. Bruno Mozzanega, ginecologo obiettore dal 1978, ricercatore e docente dell’Università di Padova: «Il papa spiega che anche il peccato più grave può essere perdonato, e ne cita soltanto uno, l’aborto. Per ogni cattolico è incomprensibile una madre che vada contro un figlio fino a togliergli la vita e quindi quella del pontefice è l’esaltazione di una Misericordia che non ha limiti. Ma è vero che oggi mancano gli aiuti, che non c’è lavoro, non c’è informazione sulla prevenzione e troppi farmaci abortivi reperibili senza alcun limite. È vero che si finisce per scaricare sulle donne tutti i carichi perché è la scelta più semplice».
È la strumentalizzazione il vero pericolo, secondo Paolo Scollo, presidente della Società di ginecologia e ostetricia: «In alcuni casi si sta dando una lettura di convenienza a quello che è solo un atto misericordioso del pontefice».

Corriere 23.11.16
Emilia, asili nido solo per vaccinati
L’Emilia-Romagna, prima regione in Italia, reintroduce l’obbligo di vaccinazione per iscrivere i bambini negli asili nido. Passa la linea dura: «Non si può tornare a morire di malattie scomparse»
di Margherita De Bac


ROMA «No vaccino, no nido». L’Emilia-Romagna arriva per prima e reintroduce senza tentennamenti l’obbligo di proteggere i bambini all’inizio del percorso educativo. Un grande consenso ha sostenuto la legge passata ieri in Consiglio, con l’astensione di Sel e centrodestra. Contrari i Cinque Stelle. Ha prevalso un concetto: «Tu, genitore, sei libero di scegliere, ma non di mettere a repentaglio la vita dei compagni di tuo figlio».
L’assessore alla sanità Sergio Venturi è molto soddisfatto: «Noi siamo stati sempre convinti di tenere la linea dura. La situazione è critica. Non vogliamo rivedere malattie scomparse. Altre Regioni dovrebbero seguire il nostro esempio perché il rischio è alto. La comunità medica e le famiglie sono d’accordo». L’obbligo riguarda le quattro punture base, difterite, poliomelite, tetano ed epatite B, offerte in un’unica soluzione. Le altre presenti nel calendario dell’infanzia sono definite «raccomandate», ma non perché ritenute meno importanti. Di morbillo e pertosse si può morire.
Il nuovo corso prenderà il via col prossimo anno scolastico, in questi mesi verranno organizzate iniziative di formazione per preparare il personale all’impatto con i genitori da convincere. In Emilia-Romagna per il secondo anno consecutivo la copertura delle «obbligatorie» in bambini di 24 mesi si è mantenuta sotto la soglia del 95%, quella ritenuta minima per evitare l’infezione dei piccoli che per ragioni di salute (i leucemici ad esempio) non hanno potuto fare profilassi. La media delle province è 93,4%, si salvano solo Piacenza, Parma e Imola. Il governatore Stefano Bonaccini è diretto: «Non si può tornare a morire di malattie scomparse». Il batterio della difterite è stato isolato nei linfonodi di un bimbo che per fortuna non si è ammalato. Segno che sta circolando. Il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Walter Ricciardi, ne è convinto: «Auspico una legge nazionale varata dal Parlamento».
La situazione è pericolosa in tutta Italia, con una media di copertura poco superiore al 93%-93,5%. Peggiore il bilancio delle «raccomandate», compresa l’antimorbillo, caduta a 85,3%. Le percentuali sono scese anche in Regioni che costituivano il fiore all’occhiello del Paese. Il Veneto nel 2007 ha promulgato una legge di abolizione dell’obbligo. Il segno di civiltà ha un prezzo salato. Oggi assiste a una fuga dalle vaccinazioni senza precedenti, complici la propaganda a-scientifica delle associazioni contrarie: 91% di vaccinati contro le 4 malattie storiche. «Crediamo nell’efficacia di un modello basato sull’adesione consapevole — afferma Francesca Russo, responsabile della prevenzione veneta —. Abbiamo un sistema di controllo che ci consente di intervenire nelle realtà che non rispondono, Comune per Comune».
L’ipotesi di ripristinare politiche coercitive sta risorgendo in Piemonte, Marche, Toscana, ancora alle prese con i casi di meningite, e Umbria. È un passo faticoso, bisogna essere in grado di mantenerlo con l’azione di servizi all’altezza. L’obbligo di presentare la certificazione vaccinale per entrare a scuola è stato abolito nel ’99: il diritto allo studio è stato considerato prevalente rispetto alla salute. I presidi devono accettare i bambini e possono inviare alla Asl l’elenco degli iscritti. Indicazione che si è persa per strada.

Repubblica 23.11.16
L’amaca
Perché i Cinquestelle votano contro l’obbligatorietà delle vaccinazioni?
di Michele Serra


PERCHÉ i Cinquestelle votano (vedi alla Regione Emilia-Romagna) contro l’obbligatorietà delle vaccinazioni? La domanda non vuole essere polemica. Semmai, soccorritrice. Perché un conto è la radicalità in campo economico-sociale: quella è giustificata e anche utile, in tempi di pensiero unico. Ma contro i vaccini, perché? Perché “la casta della sanità” specula sulle vaccinazioni, come sostiene qualche ammalato di sospettite, e come ebbe a dire Grillo sciaguratamente a proposito delle mammografie, che salvano molte migliaia di vite? Perché (ed è perfino peggio) tutto quello che odora di stravaganza scientifica, di eterodossia a prescindere, piace da matti a qualche frequentatore del web che ama spiegare al sarto come si fa un vestito, allo slalomista come si scia e al fantino come si cavalca? Facciamo un’ipotesi. Che, a partire dal reddito di cittadinanza, dall’antieuropeismo, dai curiosi criteri di selezione del suo personale politico, quel movimento riesca a convincermi della bontà delle sue proposte e delle sue qualità di governo. Magari mettendo a tacere i non pochi fascistoni che sostano in quei paraggi; e magari scusandosi per l’“alleanza tecnica” con il partito troglo-nazionalista di Farage. Poi però salta su il mattoide che ripudia le vaccinazioni come odiosa speculazione dei poteri forti; e basta quell’unico mattoide, ve lo assicuro, a distruggere l’intero castello della credibilità. Chissà se si rendono conto che hanno un problema.

il manifesto 23.11.16
Scuola   
Perché la riforma costituzionale di Renzi non fa scuola
Un ritorno al passato per l’istruzione e un vulnus all’art. 5 della prima parte della Costituzione, contrariamente a quello che dichiara lo schieramento del Sì
di Alba Sasso


La prima modifica della Costituzione del 1948, nel settore istruzione, avvenne nel 2001. Riforma che prevedeva, come esclusiva competenza della legislazione statale «la determinazione delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale e le norme generali dell’istruzione». Diventava materia concorrente quella dell’istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e competenza regionale esclusiva la legislazione su istruzione e formazione professionale.
Una riforma che nasceva dalla volontà di potenziare il ruolo delle Regioni e di garantire forme di decentramento e di autonomia. Sollecitava un loro impegno, anche legislativo, attraverso le cosiddette competenze concorrenti, che hanno però aperto la strada a numerosi conflitti e ricorsi presso la Corte costituzionale.
Ci fu poi la riforma costituzionale del governo Berlusconi del 2006, che assegnava, in alcuni settori, più forti prerogative anche legislative alle Regioni. In nome della devolution si apriva la strada a una frammentazione del sistema e alle ‘scuole etniche’ di bossiana memoria, mentre non risultava chiaro se lo Stato mantenesse una funzione persino sulle norme generali. Sembrava invece che si aprisse la strada a sistemi diversi, a seconda delle scelte regionali. Riforma, per fortuna, bocciata dal voto popolare in modo netto e inequivocabile.
È dunque sul testo del 2001, che insiste la modifica costituzionale, oggi sottoposta a referendum.
Che ci fosse bisogno di far chiarezza giuridica e normativa sulle competenze concorrenti è fuor di dubbio, ma il nuovo art. 117 sembra destinato ancora una volta a lasciare nell’indeterminatezza il «chi fa che cosa». Il principio base della riforma non è infatti quello di garantire un equilibrio tra i ruoli dei diversi livelli istituzionali, ma di affermare sull’istruzione, così come in ogni campo (si pensi all’ambiente e alle scelte sulle grandi opere) una vocazione neo-centralistica.
Si sottrae alle regioni la competenza esclusiva persino sull’Istruzione e formazione professionale, riassegnando allo Stato ogni prerogativa sulle «disposizioni generali e comuni» ad esse relative.
Alle stesse resta una competenza residuale «in ogni materia non espressamente riservata alla competenza esclusiva dello Stato (art.117,c.3)» e «l’organizzazione in ambito regionale dei servizi alle imprese e della formazione professionale, i servizi scolastici, la promozione del diritto allo studio, anche universitario».
Ecco che ritornano, di fatto, le competenze concorrenti, lasciando in piedi tutti i possibili contenziosi. Questo, mentre un lungo percorso di sentenze della Corte su ricorsi fatti dalle Regioni aveva cominciato a definire un quadro normativo più chiaro. Ribadendo che spettano allo Stato le «norme generali», che disegnano la struttura portante del sistema, ma affermando la necessità della legislazione regionale, «per collegare esigenze di uniformità e esigenze autonomistiche» .
Spetterà, con queste modifiche, ancora alle Regioni «costruire» il piano di dimensionamento scolastico, d’intesa anche con Comuni e Provincie? Collegare la fisionomia della scuola al suo territorio? Resterà la competenza sulla formazione professionale, rispetto alla quale, nel testo della legge, sembrerebbe che le Regioni abbiano solo potestà di «organizzazione dei servizi»?
Insomma, un clamoroso passo indietro verso l’onnipotenza ministeriale, tanto deprecata per decenni.
Non mancano poi i paradossi. Infatti, si lasciano inspiegabilmente intatti i poteri delle Regioni a statuto speciale.
E, ai sensi dell’art. 116, le singole Regioni «che mostrino capacità di governo e di gestione e ne faranno richiesta potranno ottenere su questa materia ulteriori competenze legislative, regolamentari e amministrative con apposita legge dello stato». Insomma se da un lato assistiamo al ritorno di un forte centralismo statale, dall’altro si disegna un regionalismo a geometria variabile.On demand.
Si finisce col deprimere un obiettivo di perequazione del sistema formativo su tutto il territorio nazionale, fortemente invocato dai principi della nostra Costituzione, che andrebbe al contrario promosso e incentivato.
Oltretutto non si fa chiarezza su molte questioni. In particolare per quel che riguarda gli istituti professionali quinquennali (statali), all’interno dei quali oggi insiste una competenza regionale sui percorsi triennali di Istruzione e formazione professionale (IFP).
Si dice che «su questi aspetti ci saranno poi leggi specifiche, che chiariranno e disegneranno meglio il sistema» .
Ma il prerequisito di ogni intervento su un testo costituzionale – giusto o sbagliato che sia – non dovrebbe essere proprio la chiarezza?
E viene in mente lo stile limpido della Costituzione del ’48.
Insomma né si migliora, né si semplifica. E il contenzioso e i ricorsi tra Regioni e Stato sono destinati ancora una volta a replicarsi.
Questo nel nome di un neo-centralismo, fondato sulla clausola di supremazia dello Stato.
È un passo del gambero. Un ritorno al passato. Si tratta di un vulnus all’articolo 5 della prima parte della Costituzione. Che recita che è lo Stato che deve adeguare i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.
E questo con buona pace di chi dice che la prima parte della Costituzione non viene toccata.

Repubblica 23.11.16
Se neppure il Vaticano difende la città eterna
di Alberto Asor Rosa


Perché serve una grande coalizione culturale per salvarla dal degrado
ROMA, per antonomasia la “Città Eterna”, rischia oggi di disfarsi sotto la spinta di fenomeni diversi ma convergenti: il traffico, la sporcizia, la crisi dei trasporti, l’inadeguatezza dei servizi, la mancanza di un chiaro indirizzo pubblico. Affrontarli tutti insieme sarebbe probabilmente più giusto, ma ci farebbe correre il rischio della genericità e dell’approssimazione. Preferisco fermarmi su quello che rischia, anche se forse non del tutto a ragione, di apparire il più evidente di tutti: il degrado del decoro urbano, l’aggressione commerciale ai suoi aspetti monumentali più straordinari, la dissoluzione e lo spopolamento dei vecchi quartieri storici.
In questo senso non basta parlare semplicemente di degrado. È, invece, come se Roma fosse letteralmente divorata dalla massa turistica e dal pellegrinare crescente. Non c’è più né limite né freno all’invasione (le altre “città d’arte” italiane, per esempio Venezia e Firenze, condividono in pieno questo destino).
LOCALI per la refezione e il dissetamento, per il commercio e lo svago, fioriscono dappertutto; le strade e le piazze, anche le più famose, sono invase da tavolini, sedioline, fioriere, sbarramenti cementizi abusivi di ogni genere; al di fuori dei negozi di oggetti religiosi o di gadget, l’esposizione delle merci annulla ogni possibile idea di “decoro urbano”. I vecchi cittadini si aggirano come estranei, anzi, nella maggior parte dei casi, come nemici da combattere e da estromettere, in questo ambiente sempre più ostile.
Questo è ormai del tutto evidente e riconosciuto. Quello che invece meriterebbe che cominciassimo a dire e sottolineare, è che non c’è risposta. Non c’è risposta pubblica, non c’è risposta istituzionale, non c’è risposta politica. Non c’è, per dirla con un termine un po’ logorato dall’uso, strategia: solo chiacchiere a vuoto. Faccio l’esempio che di questi tempi risulta ai miei occhi più clamoroso, e che, come capita, mi sta di più sotto gli occhi: ma che, contemporaneamente, presenta anche un’evidenza generale addirittura solare. Quello dell’apertura di un locale fast food, precisamente un McDonald’s, nella zona di Borgo e di San Pietro.
Si tratta di un locale gigantesco (538 metri quadri), destinato a rimanere aperto dall’inizio del giorno fino a notte fonda, nel cuore del rione Borgo, vicinissimo al Vaticano e a San Pietro. Per dare, a chi non ne ha esperienza alcuna, consistenza visiva alle mie affermazioni, ho percorso lento pede le distanze che lo separano da alcuni luoghi eminenti della cristianità. Solo settantadue dei miei passi separano il fast food dalla porta di Sant’Anna, il valico più consistente e prestigioso che attraverso le Mura Vaticane immette nella Città Santa. Sull’altro versante, il locale dà direttamente su piazza della Città Leonina, e quindi a venti passi dal leggendario Passetto di Borgo: e, appena un poco più avanti, a cinquanta dal colonnato di San Pietro (sì, quello del Bernini).
È nel pieno centro del rione Borgo: è destinato a snaturarlo definitivamente nella sua prestigiosa identità storica, oltre che a mandare in rovina i numerosi ristoratori tradizionali della zona, spesso presenti lì da decenni. I locali sono affittati a McDonald’s dall’Apsa, Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica presieduta dal cardinale Domenico Calcagno.
Ci sono state anche in questo caso lamentazioni e proteste. Ma anche in questo caso nessuna risposta. Il I Municipio, che ha concesso la licenza, tace e sta a guardare. Il Comune dichiara che la responsabilità è del I Municipio. Il Ministro dei Beni Culturali, Franceschini, spiega che la cosa non lo riguarda. Tace perfino l’Unesco, sotto la cui giurisdizione cade tutto il centro storico di Roma. Ma soprattutto non c’è un politico, un uomo o una donna delle istituzioni, insomma, uno o una che sta lì perché eletto o eletta da noi, che apra la bocca per dire: sì, avete ragione; no, non avete ragione; avete ragione solo in parte, vediamo ora cosa si può fare.
L’unico luogo istituzionale dove s’è avvertito un fremito è stato il Vaticano. L’ha documentato efficacemente questo giornale, presentando affiancate le interviste al cardinale Elio Sgreccia e al cardinale Calcagno, presidente dell’Apsa.
Uno scontro di tale portata fra eminenti personaggi della Chiesa, non si vedeva dai tempi del Concilio di Nicea (il primo, intendo, quello del 325 d.C.). Sgreccia vi rappresenta le posizioni trinitarie, ossia la “consustanziazione” del Figlio col Padre, che apre le porte a una visione autenticamente cristiana del mondo. I valori del cardinal Sgreccia possono essere talvolta discutibili, ma fuor di dubbio sono valori: «Non basta pensare solo agli affari e ignorare la natura finale delle attività che si vanno ad aggiungere al contesto. Ripeto, la megapanineria a Borgo Pio è un obbrobrio…». Il cardinal Calcagno interpreta invece piuttosto la parte dell’ariano che, riducendo la natura divina solo al Padre, gli attribuisce un potere illimitato e indiscutibile. In questa chiave l’unica legge a dominare, dal punto di vista del potere, è quella vetero-capitalistica della domanda e dell’offerta, e cioè l’”affare”. Inequivocabili le sue affermazioni: «C’è stata una trattativa per l’affitto. Gli Uffici tecnici dell’Apsa hanno ritenuto congrua e giusta l’offerta dei dirigenti dell’azienda americana e l’accordo è stato stipulato. Non vedo lo scandalo».
Comunque siano andate le cose, è un dato di fatto che anche in questo caso dall’Empireo vaticano sia calato sulla vicenda il più impenetrabile dei silenzi. Dunque, non c’è nessuno neanche in Vaticano che possa autorevolmente decidere se, quando un “affare” può essere ragionevolmente definito un “obbrobrio”, è il caso di intervenire ad esaminare ed eventualmente correggere l’errore?
Torno, per concludere, alle considerazione di ordine generale. A Roma, la “Città Eterna”, “Caput Mundi”, ci sono migliaia di situazioni come questa. I poteri pubblici hanno dimostrato di volta in volta o impotenza o connivenza. Il Vaticano, quando è toccato a lui, non si è comportato molto diversamente. La politica non se n’è accorta, ma chi va ancora tra la gente comune può dire tranquillamente questo: si sta manifestando un’ondata crescente di scontentezza e di rabbia, che ormai va al di là della fenomenologia grillina, sempre più avvertita anch’essa come perfettamente istituzionalizzata e partecipe del potere (e cioè: «anche i grillini sono come tutti gli altri»).
Se le cose stanno così, Roma da sola non può farcela. Solo un’inedita (e inaudita) alleanza fra Enti locali, Stato e Regione potrebbe garantirle la forza necessaria per uscire dal gorgo in cui sta rapidamente sprofondando. E fra loro anche il Vaticano? Sì, anche il Vaticano. Per esempio, decidere insieme quando e come inondare la città di milioni di pellegrini. Ma il Vaticano è una potenza universale, come fa a mettersi d’accordo con il Comune di Roma e il Governo del paese per decidere e regolare avvenimenti del genere? Sì, il Vaticano è una potenza universale ma contemporaneamente è un Rione di Roma, un suo quartiere privilegiato, e condivide la vita e il destino della città. La sua millenaria vicenda si è sempre basata su una duplicità operosa di tale natura. Per questo può essere inserito in una storica alleanza a favore di Roma: a patto, naturalmente, che ne rispetti le regole e gli interessi. Anche dei suoi cittadini, s’intende.

Corriere 23.11.16
La stazione Foster dell’Alta Velocità L’enorme buco nel centro di Firenze
Costato 774 milioni, cosa diventerà?
La stazione che non si farà. Annullato il progetto di Foster per l’Alta velocità. Cantieri fermi in attesa della decisione ufficiale. Adottata la stessa logica della stazione Tiburtina a Roma, costata 300 milioni di euro
di Sergio Rizzo

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