CULTURA
Repubblica 23.11.16
Dalle elementari alla Silicon Valley perché scrivere a mano aiuta a crescere
Quel rito di passaggio chiamato calligrafia
Venerdì e sabato si svolge all’Archivio di Stato di Milano il convegno “ La scrittura a mano ha un futuro?”
di Marco Belpoliti
Dal 1985 nelle scuole italiane non c’è più l’obbligo di addestrare nella calligrafia gli allievi delle elementari. La pratica è stata abolita. La conseguenza immediata è il prevalere delle “brutte scritture”, spesso illeggibili, al limite dell’agrafia; capita che gli insegnanti chiedano agli alunni che scrivono male di redigere temi, riassunti, o altri esercizi, in maiuscoletto. L’Italia non ha mai amato la calligrafia, nonostante la sua antica tradizione di scrittura elegante, che si lega alla vocazione tipografica e al lettering della nostra
cultura visiva. La Riforma Gentile nel 1923 aveva sostituito la parola “calligrafia” con l’espressione “bella scrittura” e sebbene la presenza di manuali per insegnarla nelle scuole dell’obbligo, come il famoso Marcucci ( La Bella scrittura nelle scuole elementari), questa pratica fu svalutata a vantaggio delle attività dello Spirito.
Eppure lo scrivere a mano e in modo chiaro ed elegante è ancora molto importante. Nella mitica Silicon Valley i figli dei dipendenti delle industrie iper-tecnologiche (Google, Apple, Yahoo, Hewel Packard) frequentano scuole come la Waldorf, dove ogni attrezzatura elettronica è bandita; al tablet e alla lavagna elettronica — la celebre Lim, panacea di tutti i mali — vengono preferite attività manuali come scrivere a mano, lavorare a maglia, intarsiare il legno, che secondo i docenti favoriscono maggiormente le capacità di problem solving, di sintesi e soprattutto di coordinamento psico- motorio, come ricorda Antonella Poce nel saggio compreso in I bambini e la scrittura, curato da Benedetto Vertecchi (Franco Angeli). Sebbene oggi la scuola elementare latiti nell’ambito calligrafico, la pratica è di moda e, come molte cose espulse dalla porta, rientra dalla finestra.
Lo testimonia il convegno che si sta per aprire a Milano, «La scrittura a mano ha un futuro» (25-26 novembre, Archivio di Stato, via Senato 10), curato dalla Associazione Calligrafica Italiana, oltre ai numerosi corsi frequentati da adulti e da bambini in tutta Italia. Monica Dengo, calligrafa, è una delle persone che più hanno promosso questo ritorno all’attività manuale. Nella prefazione al suo volume Scrittura corsiva. Un nuovo modello per la scuola primaria un type designer islandese, Gunnlaugur S. E. Briem, riferisce di una ricerca condotta negli Stati Uniti con bambini di età compresa tra i tre e i cinque anni. Divisi in due gruppi, è stato insegnato loro a scrivere usando la tastiera oppure a mano. Il gruppo di chi aveva appreso l’alfabeto a mano mostrava una maggior memoria rispetto all’orientamento delle lettere e distinguevano perfettamente la “p” dalla “q”; sottoposti a risonanza magnetica, manifestavano un’attività cerebrale simile a quella di un adulto; inoltre leggevano più rapidamente, dal momento che riconoscevano in anticipo le lettere, le “vedevano” rispetto ai bambini istruiti con il computer.
Certo, scrivere a mano non è affatto una cosa semplice. Narciso Silvestrini, studioso di teoria del colore e di geometria, ci ricorda che per poter scrivere con abilità occorre che il bambino possieda una raffinatezza nel movimento del braccio e della mano; tra l’omero e il pollice ci sono ben 29 ossa, che devono essere coordinate; questo avviene solo a partire dal quinto anno d’età, quando le abilità motorie cominciano ad accrescersi. La prima cosa che i bambini fanno con la matita è disegnare, mentre scrivere, oltre che un processo di apprendimento, necessità di un’ulteriore capacità motoria, come andare in bicicletta.
La scrittura diventa un fatto naturale, un abito psicofisico quasi spontaneo solo più tardi, come ha scritto Giorgio R. Cardona in Antropologia della scrittura (Utet), e si scrive così come si parla e come si gesticola. La scrittura a mano combina insieme vari aspetti complessi: quello linguistico (la lettera come simbolo che si rapporta con il suono), quello grafico (le lettere hanno una loro precisa forma), quello psicologico (la lettera è anche un modo di percepire ed esprimere se stessi). In un libro uscito qualche anno fa, molto utile per chi insegna a scrivere a mano, Scrivere meglio (Stampa Alternativa & Graffiti), Francesco Ascoli e Giovanni de Faccio mettono bene in mostra una cosa: ogni scrittura a mano corrisponde ad una personalità, l’evidenzia e l’esprime, in particolare la scrittura corsiva. Monica Dengo sostiene che la scrittura corsiva è la forma più evoluta, quella che permette il passaggio dal flusso dei pensieri al foglio; istituisce infatti un rapporto di continuità tra corpo, gesto e segno. Roland Barthes lo spiega bene in Variazioni sulla scrittura (Einaudi) del 1973: «Il rapporto con la scrittura è il rapporto con il corpo». Ci sono tante scritture quanti sono i corpi, e anche storicamente tante scritture quanti sono i supporti su cui gli uomini hanno scritto; inoltre, come ricorda il semiologo, scrivere non è solo un’attività tecnica, ma anche una pratica corporea di godimento. Spesso ci si dimentica di questo fondamentale aspetto. Barthes ribadisce come il tradizionale addestramento alla scrittura, partendo dal tracciare le aste prima delle lettere, fosse una pratica rigida che allontanava il godimento. Non a caso Maria Montessori suggeriva di iniziare con le forme rotonde. Nell’Ottocento l’insegnamento della scrittura era collegato a una sorta di ortopedia sociale: corpo eretto, posizione frontale, braccia appoggiate al tavolo, occhi disposti a eguale distanza dal foglio. La scrittura ha perciò a che fare con l’etica, scrive Barthes, com’è evidente in questa postura.
Perché a Silicon Valley insegnano pratiche lente come la calligrafia? Perché così si armonizzano meglio attività manuali e attività intellettuali. La rapidità della scrittura con la tastiera, priva di quella fisicità che avevano nel passato le macchine meccaniche, sviluppa una rapidità mentale quale valore, piuttosto che come un esito effettivo. Andare sempre più veloci, è il totem contemporaneo. E non c’è solo questo. Per arrivare a scrivere bene e chiaro, si è costretti a sperimentare, ha sostenuto Silvestrini, il vasto mondo delle forme grafiche, quello segnato da scarabocchi, graffi, sgorbi, quel caos scrittorio fondamentale nella formazione di ogni individuo, bambino o adulto che sia: tremolio, atarassia, pause, corea. È il vasto oceano dell’agitazione e del turbamento, il pelago che s’attraversa crescendo. Se non si scrive più a mano si smarrisce un altro dei fondamentali riti di passaggio, e svanisce insieme la memoria di quante emozioni e sconcerti comporti l’atto dello scrivere nel lento processo del diventare adulti.
Repubblica 23.11.16
“Così cancelliamo i ricordi più brutti”
Ricercatori britannici individuano e “riscrivono” le aree del cervello associate a esperienze negative
“Intelligenza artificiale e algoritmi ci hanno aiutato a riconoscere i neuroni coinvolti”
di Elena Dusi
ROMA. I ricordi hanno una forma. Un computer oggi è in grado di riconoscerla. E cancellarla. Il primo esperimento, ovviamente, è stato fatto a fin di bene, per eliminare un ricordo traumatico e superare una paura. Ma il termine “neurohacking” usato dalla stessa rivista che ha pubblicato lo studio (Nature Human Behaviour) la dice lunga sulle potenzialità di questo metodo, che consiste nel “riscrivere” un ricordo, trasfor-mandolo da negativo in positivo, senza che l’individuo nemmeno se ne accorga. Nei laboratori, in passato, la memoria umana era stata manipolata in vari modi. Con l’inserimento di ricordi artificiali (uno stimolo sonoro, all’università della California nel 2013). O con farmaci come il Propranolol, che blocca la formazione delle connessioni fra i neuroni ed è testato da anni sui veterani di guerra. Ma è la prima volta, oggi all’università di Cambridge in Gran Bretagna, che un ricordo viene cancellato senza che il soggetto dell’esperimento ne sia conscio.
«Senza rendersene conto» e «con i partecipanti del tutto ignari del contenuto e dello scopo della procedura» sono frasi che gli autori ripetono spesso, nel descrivere il loro test, che ha coinvolto 17 volontari. Il primo giorno, una griglia colorata che appare sullo schermo di un computer viene seguita da una scossa elettrica, leggera ma pur sempre dolorosa. Come ai tempi di Pavlov, i volontari imparano ad avere paura dello stimolo visivo. La risonanza magnetica (aiutata da potenti computer) decodifica intanto “l’immagine della paura”: la rete di neuroni che si attiva nel cervello (in particolare nella corteccia visiva) quando la griglia colorata appare sullo schermo.
Nei giorni successivi i volontari vengono chiamati a giocare con altre griglie colorate. Lì accade che il cervello, occasionalmente e senza una ragione precisa, ogni tanto riattivi la stessa rete di neuroni che corrisponde all’”immagine della paura”. I volontari nemmeno se ne accorgono, ma il computer collegato alla risonanza magnetica sì. Riconosce il pattern nella nostra testa e immediatamente offre un premio ai volontari, per sostituire con un’esperienza appagante quella dolorosa del primo giorno.
Cosa c’è di più appagante di una somma di denaro? Questo è il premio - piccolo, ma sempre gradito - associato alla griglia colorata che rispunta sotto forma di ricordo inconscio. Al quinto e ultimo giorno di esperimento questo disegno non suscita più sudorazione e accelerazione del battito cardiaco. La paura della scossa è stata rimpiazzata dal profumo della pecunia.
«Le informazioni vengono rappresentate dal cervello in modo molto complicato» sintetizza Ben Seymour, ingegnere di Cambridge e coautore della ricerca. «Ma grazie all’intelligenza artificiale e all’uso degli algoritmi siamo riusciti a identificare queste informazioni. La sfida poi è stata ridurre o cancellare il ricordo della paura, senza che i volontari avessero nemmeno il bisogno di rievocarlo».