martedì 22 novembre 2016

Corriere 22.11.16
Il verdetto del 306
La scomunica in vigore dal 306 resta, dice l’arcivescovo Rino Fisichella: «Cambia la via per esserne liberati»
di Luigi Accattoli

CITTA’ DEL VATICANO Che succede con questa decisione del Papa che autorizza tutti i sacerdoti ad assolvere dal peccato d’aborto? Cade la scomunica che fino ad ora era prevista per chi procurava l’aborto? Ci sarà una riforma del Codice di diritto canonico, che tratta dell’aborto al canone 1398?
Poniamo la questione all’arcivescovo Rino Fisichella, che ha presentato la «lettera apostolica» di Francesco e che dà una risposta disgiunta: «Ci sarà una riforma del Codice per recepire la norma dettata ora dal Papa ma la scomunica non cade: cambia la via per esserne liberati. Fino ad ora occorreva rivolgersi a un confessore autorizzato dal vescovo a tale compito, che generalmente era il penitenziere della Cattedrale, ora si potrà avere l’assoluzione da ogni sacerdote e con l’assoluzione sarà tolta la scomunica». Per chiarire la nuova situazione normativa, Fisichella insiste sul fatto che l’estensione a tutti i sacerdoti della facoltà di assolvere il peccato d’aborto, che è già stata in vigore per tutti i mesi di questo Giubileo, ha convissuto per un anno con la previsione della scomunica. Osserva inoltre che «per la diocesi di Roma quell’estensione è in vigore da diversi anni, decisa già da Giovanni Paolo II». Ma anche in altre diocesi veniva concessa dai vescovi, negli ultimi tempi, per periodi più o meno lunghi e anche per interi anni.
Non si tratta dunque di un alleggerimento della condanna canonica dell’aborto, ma di un ampliamento della via per uscire dalla «pena» della scomunica. Del resto nella stessa lettera che estende a tutti i sacerdoti la facoltà di assolvere, il Papa continua a equiparare l’aborto all’omicidio («Pone fine a una vita innocente»), equiparazione che è a fondamento della severità con cui il mondo cristiano ha sempre guardato all’interruzione della gravidanza.
Una severità che nella storia è stata addirittura crescente e per la quale si possono indicare tre tappe: quella che riservava la scomunica all’aborto del solo «feto animato», cioè dotato di anima, che s’intendeva presente a partire dalla sesta settimana; quella dell’estensione della scomunica a ogni aborto volontario a partire dal concepimento e infine — la più recente: della condanna dei contraccettivi «abortivi».
La condanna dell’aborto è già nella Scrittura. L’Antico Testamento sanzionava penalmente l’aborto (Esodo 21, 22) e la condanna ebraica è fatta propria dai cristiani benché il Nuovo Testamento non nomini mai l’interruzione della gravidanza. Già la Didaché, uno dei primissimi testi cristiani, sentenzia: «Non devi abortire un bambino e non devi uccidere un neonato». La prima condanna formale dell’aborto arriva con il Sinodo di Elvira, che è del 306. Di lì a poco l’imperatore Costantino punisce l’aborto volontario con la pena di morte, alla pari con l’omicidio. Parificazione che prima il diritto romano non conosceva.
Per molti secoli i teologi (Agostino e Tommaso, ma anche Alfonso dei Liguori, che vive nel secolo dei Lumi e muore nel 1787) fanno propria la dottrina di Aristotele sulla formazione dell’anima razionale e distinguono tra feto animato e inanimato: secondo questa dottrina il feto maschile sarebbe «inanimato», dotato cioè di sola anima vegetativa, fino al quarantesimo giorno e il feto femminile fino al novantesimo. L’aborto degno di scomunica, secondo questa concezione, è quello del feto animato.
Quella distinzione è fatta propria anche dai Papi e per esempio è affermata da Gregorio XIV in un testo del 1591. L’estensione della scomunica a ogni aborto volontario arriva con Pio IX nel 1869. Il passo ulteriore della condanna dei contraccettivi abortivi — che cioè impediscono l’impianto dell’embrione nell’utero — arriva con Giovanni Paolo II nel 1995. La progressiva severità della condanna canonica è motivata con il contesto culturale, che in epoca contemporanea si è fatto progressivamente favorevole al riconoscimento della libertà di decisione della donna sulla propria gravidanza: la pena della scomunica mira a rendere evidente la riprovazione ecclesiale di un atto accettato dalle leggi degli Stati.