lunedì 14 novembre 2016

Limes novembre.2016
L'economia della paura
di Mariateresa Fiocca
L’impatto economico del terrorismo segue modelli codificabili e pertanto consente di programmare le necessarie risposte pubbliche.Il peso della corruzione. L’importanza della contronarrazione. 
Ma la psiche individuale resta una variabile indipendente.

1. Quali che siano le modalità offensive, a struttura organizzativa e le latitudini, il jihåd scommette sempre sulla paura. Attraverso il kamikaze o la decapitazione, o il camion che va a zig-zag per colpire il maggior numero di civili. Indipendentemente dalla sua «molecolizzazione »: folli o lupi solitari, piccoli nuclei che operano in autonomia, organizzazioni più strutturate e complesse. Lo Stato Islamico (Is) trascende le frontiere per il reclutamento. È liquido, mutuando la terminologia di Bauman. K.F. Allam parla di globalterrorismo o di eurojihadismo. E di un duplice piano geografico: uno fisico, il teatro del conflitto, e uno virtuale, il teatro mediatico, interpretabile come processo produttivo che, attraverso una serie di input (manipolazione, religiosità, voglia di rivincita e di appartenenza), produce un output: il jihadista. Quest’ultimo può quindi trovarsi ovunque, anche alla porta accanto. Un terrorismo di prossimità. La paura del jihåd ha effetti domino attraverso il canale geografico: Madrid, Londra, Parigi, Bruxelles, Nizza, Monaco; attraverso il canale mediatico, nella ben architettata diade crudeltà medievale-moderni social network; e, infine, attraverso il canale economico-finanziario. Inoltre, la degenerazione dei problemi sociali, le diseguaglianze e l’emarginazione, le «etno-banlieues», i crescenti flussi migratori ci rimandano l’eco amplificata della paura. Le aspettative che si autoalimentano sono uno dei meccanismi fondanti della paura del jihåd: la percezione di impotenza e dell’ignoto tende a chiudere società aperte, ripiegandole su se stesse, dividendole e privandole di un’autonomia intellettuale. La paura dell’islamismo radicale si fonda inoltre su numerosi complici del jihåd: i fattori di contesto e la strutturale triade terrorismo-criminalità-corruzione. Riguardo ai primi, in Europa il succedersi e il sovrapporsi delle crisi sistemiche – finanziaria (2008), economica (2009) e dei debiti sovrani (2010) – hanno accentuato le percezioni di vulnerabilità e di difficoltà, anche nell’azione di contrasto al jihåd. Nell’immaginario collettivo, quest’ultimo segna la fine di un’epoca (iniziata nel secondo dopoguerra) di sicurezza, benessere, crescita, e l’inizio di un’altra fatta di ristrettezze, incertezza, declino, minacce incombenti, assedio. La triade terrorismo-criminalità-corruzione dà conto di come il pericolo sistemico sia esteso e articolato in tanti gangli, quindi molto complesso e costoso da contrastare. L’economia sommersa, le maglie larghe della regolamentazione finanziaria, il mancato rispetto della legalità sono elementi di forza mediante cui il jihadismo si fa metastasi. Varie risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (2195 del dicembre 2014; 2199 e 2253 rispettivamente di febbraio e dicembre 2015) hanno riconosciuto che i gruppi terroristi funzionano come gli affaristi nel campo delle attività criminali internazionali. Per la Fatf (Financial Action Task Force), stessi strumenti e obiettivi diversi. Gli Stati corrotti creano opportunità per il terrorismo perché la mancanza dello Stato di diritto riduce il costo-opportunità della sua attività e perché in tali paesi esiste una robusta infrastrutturazione illegale che agevola i traffici e i movimenti di capitale del terrorismo. L’Ocse esamina come corruzione e terrorismo abbiano effetti sinergici nei paesi in guerra – e quindi con basso livello di governance – dove le attività criminali prosperano. Criminalità e terrorismo usano la medesima area grigia dei sistemi legali e la fragilità dei sistemi finanziari per indirizzare le fonti di finanziamento. Sintetizzando. I paesi, indeboliti da una corruzione endemica, hanno maggiori difficoltà a contrastare il terrorismo. La corruzione nel comparto della difesa – soprattutto nei paesi dove l’industria delle armi è forte, molti dei quali nell’area Ocse – pregiudica l’efficienza del settore e la capacità di far fronte a gruppi quali l’Is o Boko Haram. I militari sono mal pagati e mal equipaggiati, e basso è il loro morale, poiché le risorse a loro destinate vengono convogliate verso le commissioni per l’approvvigionamento. Malgrado l’emanazione di normative anticorruzione, uno studio del 2015 di Transparency International documenta che 107 società operanti nel settore della difesa (due terzi del totale) sono scarsamente attrezzate per arginare la corruzione. Il comparto giudiziario è corrotto dalla criminalità e dal terrorismo, che riescono così a ostacolare le indagini o a evitare la detenzione preventiva. La corruzione è la «tecnologia» che permette a molti terroristi di effettuare atti criminali. Ad esempio, due dei terroristi dell’11 settembre utilizzarono patenti di guida fraudolente rilasciate dalla Virginia’s Division Motor Vehicles come documento di riconoscimento per imbarcarsi. I terroristi sono spesso in grado di corrompere il personale degli aeroporti per far passare attraverso i sistemi di sicurezza armi e bombe. Si sostiene che la corruzione aumenti il rischio che i terroristi si impadroniscano di materiale nucleare. Il maggior pericolo è il collegamento tra gli addetti corrotti con accesso al materiale nucleare, i gruppi criminali che già ne controllano il transito e i terroristi che lo acquistano. Infine, il terrorismo si annida anche ai confini, dove la criminalità può corrompere il personale doganale per vendere merci illegali (quali i reperti archeologici). La paura del jihåd trova un ulteriore robusto fondamento nella malvagità calcolata. È la strategia della violenza sistemica, la cui attuazione ha vari fini: terrorizza i nemici (occidentali e non), attrae nuovi volontari, potenzia il «califfato ». Il voluto effetto shock del terrorismo ha mutato e arricchito la batteria di strumenti: dai dirottamenti degli anni Settanta e Ottanta ai kamikaze, fino alle decapitazioni e al rischio di un futuro salto alle armi chimiche. La decapitazione è ad alto impatto – molto più di un’autobomba – poiché vìola il singolo corpo con efferatezza, dissacrandolo tramite la compiaciuta esposizione agli occhi del mondo tramite video. La decapitazione è giustificata dal Corano. Dalle sure 47 («Quando incontrate gli infedeli, colpite i loro colli») e 8,12 («Getterò il terrore nel cuore degli infedeli; levategli le teste e le punta delle dita»). Il terrorismo religioso, per la sua carica messianica e nichilista, è il più violento. La strategia della malvagità religiosa produce dunque un doppio dividendo: crea nel nemico la percezione di vulnerabilità e accresce il sostegno delle masse al jihåd. Tale strategia funziona anche con una forma di terrorismo polverizzato e l’azione di contrasto deve adattarsi a una capillarizzazione estrema, cercando di tracciare il singolo portatore della malvagità religiosa, se non lo squilibrato che si serve di tale alibi. 
2. La paura del jihåd ha una molteplicità di ricadute sul piano finanziario ed economico e sulla finanza pubblica: riorientamento della domanda individuale e collettiva, risposta dell’offerta, creazione di mercati paralleli, intervento dell’operatore pubblico, drastica revisione delle aspettative, fenomeni di panico di massa ed «effetto gregge», maggiore volatilità dei mercati finanziari e del tasso di cambio, bolle, fuga di capitali verso piazze più sicure, fenomeni speculativi, effetti domino, impatto sui flussi commerciali. In contesti decisionali complessi e in condizioni di informazione imperfetta e d’incertezza pervasiva, la «regola del pollice» (rules of thumb), le euristiche, l’informazione e la sua difficile interpretazione vengono utilizzate nei processi decisionali e di elaborazione delle aspettative. E qualsiasi notizia porta a un loro aggiustamento, anche repentino e potenzialmente destabilizzante sui mercati. Persino le taglie sui principali leader del terrorismo veicolano l’informazione sul «valore sottostante» al terrorismo in un dato momento e area. Tuttavia, tali succedanei a un’informazione più diffusa e completa possono creare distorsioni sistematiche (bias) nella comprensione dei fenomeni. Persino le maggiori misure di sicurezza possono essere interpretate come segnale di una maggiore rischiosità di contesto o di un imminente attentato, peggiorando il clima di fiducia. In tal caso, funzione primaria dell’operatore pubblico è un’efficiente politica della comunicazione, che sostituisca con dati oggettivi i segnali e le euristiche. Kindleberger sostiene che i mercati sono in grado di «annusare» l’approssimarsi di crisi politiche, guerre, atti terroristici. In tale prospettiva può essere interpretata la circostanza che, a pochi giorni dall’attentato dell’11 settembre, era stato acquistato un elevato volume di buoni del Tesoro americani a scadenza quinquennale: investimento ideale in un clima di incertezza, in cui le azioni registrano perdite in conto capitale. Il sentiment (umori) e i rumors (voci) dei mercati trovano conferma nella verifica empirica, con l’indice Vix (Volatily Index) relativo ai mercati finanziari. Esso registra la violenza dei movimenti dei prezzi che i mercati si aspettano per il prossimo futuro. Più alto l’indice, maggiore la paura di un repentino sbalzo della Borsa. E dato che gli spostamenti più violenti e improvvisi sono quelli verso il basso (nel gergo borsistico, «si sale sulle scale e si scende in ascensore »), di norma se il Vix sale i mercati si muovono nervosamente in discesa. Da qui, il nome «indice della paura». Nelle stragi di Charlie Hebdo e di Parigi del 2015, delle bombe a Londra del 2005, di Madrid del 2004 e dell’11 settembre, si sono osservate delle regolarità: in ciascun caso, l’indice Vix ha in qualche modo segnalato, nei cinque giorni precedenti alle stragi, un aumento della tensione sui mercati. Innanzitutto, nelle cinque sedute di Borsa precedenti agli attacchi, l’indice della paura è salito. Non solo e non tanto nel giorno dell’attentato, quanto nella media di quelli precedenti. Il giorno dopo gli attentati, il Vix ha sempre chiuso a un livello inferiore a quello della seduta precedente. Con una sola eccezione: gli attacchi dell’11 settembre, ma in quella circostanza gli attentati avvennero prima dell’apertura di Wall Street, che poi restò chiusa fino al 17. Il Chicago Stock Exchange in quell’occasione nemmeno iniziò le contrattazioni, quindi l’evento è atipico. Bizzarra coincidenza? È come se i mercati si muovessero sulla base di un «inconscio collettivo», o sulla base di una regola aurea della Borsa: buy the rumour, sell the news («compra sulle voci, vendi sulla notizia») 15. La paura del jihåd, aumentando l’avversione al rischio, indirizza i capitali verso attività con un elevato premio al rischio, essendo questo la remunerazione aggiuntiva che gli investitori risparmiatori si attendono per compensare il rischio di detenere titoli, anche del debito pubblico, con minor merito di credito del paese colpito (rischio-paese). Ma questo oggi non sta avvenendo per la debolezza congiunturale, che ha depresso l’umore dei mercati e ha determinato flessioni su quello azionario. Anche i tassi di interesse, su entrambe le sponde dell’Atlantico, sono bassi, conseguenza delle politiche monetarie espansive di Bce e Fed. Quindi la paura del jihåd, associata alla fase ciclica sfavorevole, non sta producendo particolari effetti nel settore finanziario. In più, poiché l’attentato di Parigi avvenne a mercati chiusi, gli operatori ebbero il fine settimana per elaborare l’evento e valutarne gli effetti sull’economia reale. 
3. Gli attuali bassi tassi di interesse non trasmettono significativi effetti espansivi al settore reale, dov’è debole la componente privata della domanda aggregata (consumi e investimenti), con il risultato di tenere bassa la crescita. L’Ue, quindi, non sta rispondendo con lo slancio di vitalità che ha caratterizzato la reazione americana all’11 settembre, benché anche gli Stati Uniti stessero allora sperimentando lo scoppio della bolla dot-com. Nella componente estera della domanda, i flussi commerciali – oltre a risentire della debolezza congiunturale e del rallentamento delle grandi economie emergenti – sono influenzati dal jihåd: agli embarghi e alle conseguenti ritorsioni si aggiungono le misure di sicurezza, che incidono sui tempi per i controlli e coincidono con la chiusura dei confini. Dopo l’11 settembre, quando i confini vennero temporaneamente chiusi, gli autotrasportatori che fanno la spola tra Stati Uniti e Canada dovettero attendere fino a venti ore per un attraversamento che normalmente richiede qualche minuto. Con l’attentato a Charlie Hebdo, il governo francese ha comunicato l’intenzione di ridimensionare gli scambi con i paesi che simpatizzano culturalmente e religiosamente con le organizzazioni terroristiche responsabili degli attacchi. Sul piano micro, la paura del jihåd influenza le abitudini e i consumi. Si possono considerare risposte di segno opposto: una riduzione dei consumi, dovuta a comportamenti cautelativi; ma anche un loro aumento, dettato dal senso di vuoto e precarietà. Nel settore della sicurezza, si sta espandendo il mercato assicurativo e della riassicurazione. Alla luce della loro storia, alcuni paesi – Regno Unito e Spagna – hanno già una tradizione di polizze contro il terrorismo. Negli Usa e in Germania esistono forme d’intervento pubblico per i casi in cui il mercato non sia in grado di offrire polizze contro danni così ingenti (market failure). In Italia la situazione è rimasta ferma: mentre alcune compagnie internazionali hanno iniziato a offrire polizze antiterrorismo, quelle italiane sono rimaste indietro. Inoltre, al momento da noi non è previsto un apposito fondo di riassicurazione per sostenere le compagnie in caso di danni legati ad attentati terroristici e garantire il pagamento delle compensazioni, almeno oltre un certo tetto, e ci si continua ad affidare all’intervento pubblico, nonostante la sfiducia degli italiani nella capacità di risposta delle istituzioni nei casi d’emergenza (government failure). Una delle risposte più ricorrenti dopo gli attentati di Parigi è stata l’accresciuta domanda delle consegne a domicilio. Secondo un rapporto di Credit Suisse del 16 novembre 2015, oltre a trasporto e turismo, sarebbe destinata a crescere la spesa dell’home entertainment, mentre potrebbero ridursi i consumi di beni di lusso (legati al turismo). Il cosiddetto travel retail per l’Italia vale sei miliardi di euro. Le grandi griffe, che stanno già subendo il rallentamento della crescita cinese e russa, potrebbero subire il contraccolpo di un turismo in calo in Europa. La robusta frenata del turismo avrà, quindi, conseguenze anche per il made in Italy: la regione dell’Île-de-France, infatti, conta per il 18% dell’export italiano in Francia. Tuttavia, gli individui stanno interiorizzando a tal punto la convivenza col terrorismo che molti non sono disposti a cambiare le proprie abitudini. Ovvero, potrebbero farlo solo temporaneamente. In Spagna, dopo gli attacchi del 2004, la società si strinse intorno a un simbolo: le mani alzate, con i palmi aperti, disarmate, ma allo stesso tempo determinate. Nel Regno Unito, dopo gli attentati del 2005, la società si unì spontaneamente intorno allo slogan «We’re not afraid», lanciato su Internet da un ragazzo, e al messaggio dei mercati «Keep going, business as usual». Questa capacità di controllo viene agevolata dall’esperienza personale, dal livello di istruzione e da altre forme di investimento in capitale umano. L’aggiustamento dello stile di vita legato alla paura del jihåd comporta il costo(-opportunità) del cambiamento. Nel caso di prassi e abitudini radicate, il costo dell’aggiustamento è più elevato. Individui diversi hanno schemi di consumo e abitudini diverse (nonché una diversa avversione al rischio), sicché la risposta alla paura del jihåd è del tutto soggettiva. C’è chi dopo un attentato in metropolitana o in una stazione ferroviaria torna a servirsi degli stessi mezzi e chi invece li eviterà per anni. Tipicamente, nel trade-off tra libertà e sicurezza, oggi in molti non sono disposti a cedere pezzi della propria libertà in cambio di una maggiore sicurezza. Nel campo dell’economia pubblica, viene osservato che i costi diretti degli attacchi sono relativamente più facili da quantificare di quelli indiretti, che sono connessi anche alla percezione del rischio e allo shock emotivo. L’elemento soggettivo, quale componente dei costi indiretti del terrorismo, influenza l’allocazione delle risorse e la spesa pubblica. La paura stimola una domanda di beni e servizi – ovvero una sua ricomposizione – che deve trovare una corrispondente offerta nelle politiche pubbliche, con la fornitura di consumi collettivi volti alla sicurezza, alla difesa, alla gestione dell’immigrazione e all’inclusione, alla riduzione delle disuguaglianze, all’occupazione, al contrasto della corruzione nella pubblica amministrazione, a una nuova cultura «geografica» e valoriale che faccia meglio comprendere l’alterità, all’efficienza della giustizia e alla comunicazione. Nell’attuale contesto di revisione della spesa (spending review), ciò richiede di ridefinire le priorità dei programmi di spesa. Nell’ambito della governance economica europea, la necessità dei programmi di spesa legati alla sicurezza comporta un maggior ricorso alle clausole che attenuano il rigore delle regole fiscali. Per l’Italia, nella legge di stabilità 2016 è stato inserito un pacchetto di misure per rafforzare l’apparato di sicurezza nazionale lungo due direttrici: contrastare il rischio di atti terroristici con l’ammodernamento degli equipaggiamenti in uso alle forze di sicurezza e di difesa, il potenziamento della loro capacità di sorveglianza (anche informatica) e l’incremento degli stipendi; la riqualificazione urbana delle periferie (il caso delle banlieues povere ha allarmato), diffondendo i valori culturali. Il contrasto al jihåd è un «bene pubblico internazionale» finanziato dall’intera collettività. È il caso degli aiuti europei alla Turchia per l’emergenza profughi. Altro bene pubblico internazionale è il soft power, gli aiuti ai paesi mediorientali dove il jihåd si addestra, si concentra e prolifera. Ma l’effetto di tale politica è controverso, poiché può distorcere la struttura degli incentivi del jihåd. Aumentare gli aiuti a paesi dove c’è terreno fertile per il terrorismo può accrescere il jihadismo stesso, dentro e fuori i confini nazionali, anziché beneficiare le popolazioni locali. I cittadini europei vengono messi di fronte a riflessioni inquietanti: come mai la rinascita così rapida del «califfato», che secondo bin Laden avrebbe potuto concretizzarsi solo attraverso un processo secolare? Come contrastare la propensione di tanti giovani al proselitismo e alla mobilitazione? Se la Turchia – alleato privo di convinzione nella guerra all’Is – sperimenta la destabilizzazione, il volto oscuro del mondo musulmano arriverà a manifestarsi in un paese Nato dotato di armi nucleari? Se il mantra dell’Occidente e dell’Europa è la competizione e il successo, quanti giovani frustrati saranno pronti a sparare sulla folla per avere il loro momento di gloria? Una società civile non si fa travolgere dalla paura, ma come governare l’attuale caos? La globalizzazione è un bene di lusso che lascia a terra i perdenti: cosa fanno le istituzioni europee per farli rialzare, al di là di esasperanti regole numeriche che impediscono ai governi adeguate politiche di welfare? La politica di soft power che sta attuando l’Ue per abbattere i muri innalzati al suo interno la metterà al riparo? O la esporrà a una maggiore vulnerabilità?