Limes
novembre.2016
L'economia
della paura
di
Mariateresa Fiocca
L’impatto
economico del terrorismo segue modelli codificabili e pertanto
consente di programmare le necessarie risposte pubbliche.Il
peso della corruzione. L’importanza della contronarrazione.
Ma la
psiche individuale resta una variabile indipendente.
1. Quali
che siano le modalità offensive, a struttura organizzativa e le
latitudini, il jihåd scommette sempre sulla paura. Attraverso il
kamikaze o la decapitazione, o il camion che va a zig-zag per colpire
il maggior numero di civili. Indipendentemente dalla sua
«molecolizzazione »: folli o lupi solitari, piccoli nuclei che
operano in autonomia, organizzazioni più strutturate e complesse. Lo
Stato Islamico (Is) trascende le frontiere per il reclutamento. È
liquido, mutuando la terminologia di Bauman. K.F. Allam parla di
globalterrorismo o di eurojihadismo. E di un duplice piano
geografico: uno fisico, il teatro del conflitto, e uno virtuale, il
teatro mediatico, interpretabile come processo produttivo che,
attraverso una serie di input (manipolazione, religiosità, voglia di
rivincita e di appartenenza), produce un output: il jihadista.
Quest’ultimo può quindi trovarsi ovunque, anche alla porta
accanto. Un terrorismo di prossimità. La paura del jihåd ha
effetti domino attraverso il canale geografico: Madrid, Londra,
Parigi, Bruxelles, Nizza, Monaco; attraverso il canale mediatico,
nella ben architettata diade crudeltà medievale-moderni social
network; e, infine, attraverso il canale economico-finanziario.
Inoltre, la degenerazione dei problemi sociali, le diseguaglianze e
l’emarginazione, le «etno-banlieues», i crescenti flussi
migratori ci rimandano l’eco amplificata della paura. Le
aspettative che si autoalimentano sono uno dei meccanismi fondanti
della paura del jihåd: la percezione di impotenza e dell’ignoto
tende a chiudere società aperte, ripiegandole su se stesse,
dividendole e privandole di un’autonomia intellettuale. La paura
dell’islamismo radicale si fonda inoltre su numerosi complici del
jihåd: i fattori di contesto e la strutturale triade
terrorismo-criminalità-corruzione. Riguardo ai primi, in Europa il
succedersi e il sovrapporsi delle crisi sistemiche – finanziaria
(2008), economica (2009) e dei debiti sovrani (2010) – hanno
accentuato le percezioni di vulnerabilità e di difficoltà, anche
nell’azione di contrasto al jihåd. Nell’immaginario collettivo,
quest’ultimo segna la fine di un’epoca (iniziata nel secondo
dopoguerra) di sicurezza, benessere, crescita, e l’inizio di
un’altra fatta di ristrettezze, incertezza, declino, minacce
incombenti, assedio. La triade terrorismo-criminalità-corruzione dà
conto di come il pericolo sistemico sia esteso e articolato in tanti
gangli, quindi molto complesso e costoso da contrastare. L’economia
sommersa, le maglie larghe della regolamentazione finanziaria, il
mancato rispetto della legalità sono elementi di forza mediante cui
il jihadismo si fa metastasi. Varie risoluzioni del Consiglio di
Sicurezza dell’Onu (2195 del dicembre 2014; 2199 e 2253
rispettivamente di febbraio e dicembre 2015) hanno riconosciuto che i
gruppi terroristi funzionano come gli affaristi nel campo delle
attività criminali internazionali. Per la Fatf (Financial Action
Task Force), stessi strumenti e obiettivi diversi. Gli Stati
corrotti creano opportunità per il terrorismo perché la mancanza
dello Stato di diritto riduce il costo-opportunità della sua
attività e perché in tali paesi esiste una robusta
infrastrutturazione illegale che agevola i traffici e i movimenti di
capitale del terrorismo. L’Ocse esamina come corruzione e
terrorismo abbiano effetti sinergici nei paesi in guerra – e quindi
con basso livello di governance – dove le attività criminali
prosperano. Criminalità e terrorismo usano la medesima area grigia
dei sistemi legali e la fragilità dei sistemi finanziari per
indirizzare le fonti di finanziamento. Sintetizzando. I paesi,
indeboliti da una corruzione endemica, hanno maggiori difficoltà a
contrastare il terrorismo. La corruzione nel comparto della difesa –
soprattutto nei paesi dove l’industria delle armi è forte, molti
dei quali nell’area Ocse – pregiudica l’efficienza del settore
e la capacità di far fronte a gruppi quali l’Is o Boko Haram. I
militari sono mal pagati e mal equipaggiati, e basso è il loro
morale, poiché le risorse a loro destinate vengono convogliate verso
le commissioni per l’approvvigionamento. Malgrado l’emanazione di
normative anticorruzione, uno studio del 2015 di Transparency
International documenta che 107 società operanti nel settore della
difesa (due terzi del totale) sono scarsamente attrezzate per
arginare la corruzione. Il comparto giudiziario è corrotto dalla
criminalità e dal terrorismo, che riescono così a ostacolare le
indagini o a evitare la detenzione preventiva. La corruzione è la
«tecnologia» che permette a molti terroristi di effettuare atti
criminali. Ad esempio, due dei terroristi dell’11 settembre
utilizzarono patenti di guida fraudolente rilasciate dalla Virginia’s
Division Motor Vehicles come documento di riconoscimento per
imbarcarsi. I terroristi sono spesso in grado di corrompere il
personale degli aeroporti per far passare attraverso i sistemi di
sicurezza armi e bombe. Si sostiene che la corruzione aumenti il
rischio che i terroristi si impadroniscano di materiale nucleare. Il
maggior pericolo è il collegamento tra gli addetti corrotti con
accesso al materiale nucleare, i gruppi criminali che già ne
controllano il transito e i terroristi che lo acquistano. Infine, il
terrorismo si annida anche ai confini, dove la criminalità può
corrompere il personale doganale per vendere merci illegali (quali i
reperti archeologici). La paura del jihåd trova un ulteriore robusto
fondamento nella malvagità calcolata. È la strategia della
violenza sistemica, la cui attuazione ha vari fini: terrorizza i
nemici (occidentali e non), attrae nuovi volontari, potenzia il
«califfato ». Il voluto effetto shock del terrorismo ha mutato e
arricchito la batteria di strumenti: dai dirottamenti degli anni
Settanta e Ottanta ai kamikaze, fino alle decapitazioni e al rischio
di un futuro salto alle armi chimiche. La decapitazione è ad alto
impatto – molto più di un’autobomba – poiché vìola il
singolo corpo con efferatezza, dissacrandolo tramite la compiaciuta
esposizione agli occhi del mondo tramite video. La decapitazione è
giustificata dal Corano. Dalle sure 47 («Quando incontrate gli
infedeli, colpite i loro colli») e 8,12 («Getterò il terrore nel
cuore degli infedeli; levategli le teste e le punta delle dita»).
Il terrorismo religioso, per la sua carica messianica e nichilista, è
il più violento. La strategia della malvagità religiosa produce
dunque un doppio dividendo: crea nel nemico la percezione di
vulnerabilità e accresce il sostegno delle masse al jihåd. Tale
strategia funziona anche con una forma di terrorismo polverizzato e
l’azione di contrasto deve adattarsi a una capillarizzazione
estrema, cercando di tracciare il singolo portatore della malvagità
religiosa, se non lo squilibrato che si serve di tale alibi.
2. La
paura del jihåd ha una molteplicità di ricadute sul piano
finanziario ed economico e sulla finanza pubblica: riorientamento
della domanda individuale e collettiva, risposta dell’offerta,
creazione di mercati paralleli, intervento dell’operatore pubblico,
drastica revisione delle aspettative, fenomeni di panico di massa ed
«effetto gregge», maggiore volatilità dei mercati finanziari e del
tasso di cambio, bolle, fuga di capitali verso piazze più sicure,
fenomeni speculativi, effetti domino, impatto sui flussi commerciali.
In contesti decisionali complessi e in condizioni di informazione
imperfetta e d’incertezza pervasiva, la «regola del pollice»
(rules of thumb), le euristiche, l’informazione e la sua difficile
interpretazione vengono utilizzate nei processi decisionali e di
elaborazione delle aspettative. E qualsiasi notizia porta a un loro
aggiustamento, anche repentino e potenzialmente destabilizzante sui
mercati. Persino le taglie sui principali leader del terrorismo
veicolano l’informazione sul «valore sottostante» al terrorismo
in un dato momento e area. Tuttavia, tali succedanei a
un’informazione più diffusa e completa possono creare distorsioni
sistematiche (bias) nella comprensione dei fenomeni. Persino le
maggiori misure di sicurezza possono essere interpretate come segnale
di una maggiore rischiosità di contesto o di un imminente attentato,
peggiorando il clima di fiducia. In tal caso, funzione primaria
dell’operatore pubblico è un’efficiente politica della
comunicazione, che sostituisca con dati oggettivi i segnali e le
euristiche. Kindleberger sostiene che i mercati sono in grado di
«annusare» l’approssimarsi di crisi politiche, guerre, atti
terroristici. In tale prospettiva può essere interpretata la
circostanza che, a pochi giorni dall’attentato dell’11 settembre,
era stato acquistato un elevato volume di buoni del Tesoro americani
a scadenza quinquennale: investimento ideale in un clima di
incertezza, in cui le azioni registrano perdite in conto capitale. Il
sentiment (umori) e i rumors (voci) dei mercati trovano conferma
nella verifica empirica, con l’indice Vix (Volatily Index) relativo ai mercati finanziari. Esso registra la violenza dei
movimenti dei prezzi che i mercati si aspettano per il prossimo
futuro. Più alto l’indice, maggiore la paura di un repentino
sbalzo della Borsa. E dato che gli spostamenti più violenti e
improvvisi sono quelli verso il basso (nel gergo borsistico, «si
sale sulle scale e si scende in ascensore »), di norma se il Vix
sale i mercati si muovono nervosamente in discesa. Da qui, il nome
«indice della paura». Nelle stragi di Charlie Hebdo e di Parigi del
2015, delle bombe a Londra del 2005, di Madrid del 2004 e dell’11
settembre, si sono osservate delle regolarità: in ciascun caso,
l’indice Vix ha in qualche modo segnalato, nei cinque giorni
precedenti alle stragi, un aumento della tensione sui mercati.
Innanzitutto, nelle cinque sedute di Borsa precedenti agli attacchi,
l’indice della paura è salito. Non solo e non tanto nel giorno
dell’attentato, quanto nella media di quelli precedenti. Il giorno
dopo gli
attentati, il Vix ha sempre chiuso a un livello inferiore a quello
della seduta precedente. Con una sola eccezione: gli attacchi dell’11
settembre, ma in quella circostanza gli attentati avvennero prima
dell’apertura di Wall Street, che poi restò chiusa fino al 17. Il
Chicago Stock Exchange in quell’occasione nemmeno iniziò le
contrattazioni, quindi l’evento è atipico. Bizzarra coincidenza? È
come se i mercati si muovessero sulla base di un «inconscio
collettivo», o sulla base di una regola aurea della Borsa: buy the
rumour, sell the news («compra sulle voci, vendi sulla notizia»)
15. La paura del jihåd, aumentando l’avversione al rischio,
indirizza i capitali verso attività con un elevato premio al
rischio, essendo questo la remunerazione aggiuntiva che gli
investitori risparmiatori si attendono per compensare il rischio di
detenere titoli, anche del debito pubblico, con minor merito di
credito del paese colpito (rischio-paese). Ma questo oggi non sta
avvenendo per la debolezza congiunturale, che ha depresso l’umore
dei mercati e ha determinato flessioni su quello azionario. Anche i
tassi di interesse, su entrambe le sponde dell’Atlantico, sono
bassi, conseguenza delle politiche monetarie espansive di Bce e Fed.
Quindi la paura del jihåd, associata alla fase ciclica sfavorevole,
non sta producendo particolari effetti nel settore finanziario. In
più, poiché l’attentato di Parigi avvenne a mercati chiusi, gli
operatori ebbero il fine settimana per elaborare l’evento e
valutarne gli effetti sull’economia reale.
3. Gli attuali bassi
tassi di interesse non trasmettono significativi effetti espansivi al
settore reale, dov’è debole la componente privata della domanda
aggregata (consumi e investimenti), con il risultato di tenere bassa
la crescita. L’Ue, quindi, non sta rispondendo con lo slancio di
vitalità che ha caratterizzato la reazione americana all’11
settembre, benché anche gli Stati Uniti stessero allora
sperimentando lo scoppio della bolla dot-com. Nella componente estera
della domanda, i flussi commerciali – oltre a risentire della
debolezza congiunturale e del rallentamento delle grandi economie
emergenti – sono influenzati dal jihåd: agli embarghi e alle
conseguenti ritorsioni si aggiungono le misure di sicurezza, che
incidono sui tempi per i controlli e coincidono con la chiusura dei
confini. Dopo l’11 settembre, quando i confini vennero
temporaneamente chiusi, gli autotrasportatori che fanno la spola tra
Stati Uniti e Canada dovettero attendere fino a venti ore per un
attraversamento che normalmente richiede qualche minuto. Con
l’attentato a Charlie Hebdo, il governo francese ha comunicato
l’intenzione di ridimensionare gli scambi con i paesi che
simpatizzano culturalmente e religiosamente con le organizzazioni
terroristiche responsabili degli attacchi. Sul piano micro, la paura
del jihåd influenza le abitudini e i consumi. Si possono considerare
risposte di segno opposto: una riduzione dei consumi, dovuta a
comportamenti cautelativi; ma anche un loro aumento, dettato dal
senso di vuoto e precarietà. Nel settore della sicurezza, si sta
espandendo il mercato assicurativo e della riassicurazione. Alla luce
della loro storia, alcuni paesi – Regno Unito e Spagna – hanno
già una tradizione di polizze contro il terrorismo. Negli Usa e in
Germania esistono forme d’intervento pubblico per i casi in cui il
mercato non sia in grado di offrire polizze contro danni così
ingenti (market failure). In Italia la situazione è rimasta ferma:
mentre alcune compagnie internazionali hanno iniziato a offrire
polizze antiterrorismo, quelle italiane sono rimaste indietro.
Inoltre, al momento da noi non è previsto un apposito fondo di
riassicurazione per sostenere le compagnie in caso di danni legati ad
attentati terroristici e garantire il pagamento delle compensazioni,
almeno oltre un certo tetto, e ci si continua ad affidare
all’intervento pubblico, nonostante la sfiducia degli italiani
nella capacità di risposta delle istituzioni nei casi d’emergenza
(government failure). Una delle risposte più ricorrenti dopo gli
attentati di Parigi è stata l’accresciuta domanda delle consegne a
domicilio. Secondo un rapporto di Credit Suisse del 16 novembre 2015,
oltre a trasporto e turismo, sarebbe destinata a crescere la spesa
dell’home entertainment, mentre potrebbero ridursi i consumi di
beni di lusso (legati al turismo). Il cosiddetto travel retail per
l’Italia vale sei miliardi di euro. Le grandi griffe, che stanno
già subendo il rallentamento della crescita cinese e russa,
potrebbero subire il contraccolpo di un turismo in calo in Europa. La
robusta frenata del turismo avrà, quindi, conseguenze anche per il
made in Italy: la regione dell’Île-de-France, infatti, conta per
il 18% dell’export italiano in Francia. Tuttavia, gli individui
stanno interiorizzando a tal punto la convivenza col terrorismo che
molti non sono disposti a cambiare le proprie abitudini. Ovvero,
potrebbero farlo solo temporaneamente. In Spagna, dopo gli attacchi
del 2004, la società si strinse intorno a un simbolo: le mani
alzate, con i palmi aperti, disarmate, ma allo stesso tempo
determinate. Nel Regno Unito, dopo gli attentati del 2005, la società
si unì spontaneamente intorno allo slogan «We’re not afraid»,
lanciato su Internet da un ragazzo, e al messaggio dei mercati «Keep
going, business as usual». Questa capacità di controllo viene
agevolata dall’esperienza personale, dal livello di istruzione e da
altre forme di investimento in capitale umano. L’aggiustamento
dello stile di vita legato alla paura del jihåd comporta il
costo(-opportunità) del cambiamento. Nel caso di prassi e abitudini
radicate, il costo dell’aggiustamento è più elevato. Individui
diversi hanno schemi di consumo e abitudini diverse (nonché una
diversa avversione al rischio), sicché la risposta alla paura del
jihåd è del tutto soggettiva. C’è chi dopo un attentato in
metropolitana o in una stazione ferroviaria torna a servirsi degli
stessi mezzi e chi invece li eviterà per anni. Tipicamente, nel
trade-off tra libertà e sicurezza, oggi in molti non sono disposti a
cedere pezzi della propria libertà in cambio di una maggiore
sicurezza. Nel campo dell’economia pubblica, viene osservato che
i costi diretti degli attacchi sono relativamente più facili da
quantificare di quelli indiretti, che sono connessi anche alla
percezione del rischio e allo shock emotivo. L’elemento soggettivo,
quale componente dei costi indiretti del terrorismo, influenza
l’allocazione delle risorse e la spesa pubblica. La paura stimola
una domanda di beni e servizi – ovvero una sua ricomposizione –
che deve trovare una corrispondente offerta nelle politiche
pubbliche, con la fornitura di consumi collettivi volti alla
sicurezza, alla difesa, alla gestione dell’immigrazione e
all’inclusione, alla riduzione delle disuguaglianze,
all’occupazione, al contrasto della corruzione nella pubblica
amministrazione, a una nuova cultura «geografica» e valoriale
che faccia meglio comprendere l’alterità, all’efficienza della
giustizia e alla comunicazione. Nell’attuale contesto di revisione
della spesa (spending review), ciò richiede di ridefinire le
priorità dei programmi di spesa. Nell’ambito della governance
economica europea, la necessità dei programmi di spesa legati alla
sicurezza comporta un maggior ricorso alle clausole che attenuano
il rigore delle regole fiscali. Per l’Italia, nella legge di
stabilità 2016 è stato inserito un pacchetto di misure per
rafforzare l’apparato di sicurezza nazionale lungo due direttrici:
contrastare il rischio di atti terroristici con l’ammodernamento
degli equipaggiamenti in uso alle forze di sicurezza e di difesa, il
potenziamento della loro capacità di sorveglianza (anche
informatica) e l’incremento degli stipendi; la riqualificazione
urbana delle periferie (il caso delle banlieues povere ha allarmato),
diffondendo i valori culturali. Il contrasto al jihåd è un «bene
pubblico internazionale» finanziato dall’intera collettività. È
il caso degli aiuti europei alla Turchia per l’emergenza profughi.
Altro bene pubblico internazionale è il soft power, gli aiuti ai
paesi mediorientali dove il jihåd si addestra, si concentra e
prolifera. Ma l’effetto di tale politica è controverso, poiché
può distorcere la struttura degli incentivi del jihåd. Aumentare
gli aiuti a paesi dove c’è terreno fertile per il terrorismo può
accrescere il jihadismo stesso, dentro e fuori i confini nazionali,
anziché beneficiare le popolazioni locali. I cittadini europei
vengono messi di fronte a riflessioni inquietanti: come mai la
rinascita così rapida del «califfato», che secondo bin Laden
avrebbe potuto concretizzarsi solo attraverso un processo secolare?
Come contrastare la propensione di tanti giovani al proselitismo e
alla mobilitazione? Se la Turchia – alleato privo di convinzione
nella guerra all’Is – sperimenta la destabilizzazione, il volto
oscuro del mondo musulmano arriverà a manifestarsi in un paese Nato
dotato di armi nucleari? Se il mantra dell’Occidente e dell’Europa
è la competizione e il successo, quanti giovani frustrati saranno
pronti a sparare sulla folla per avere il loro momento di gloria? Una
società civile non si fa travolgere dalla paura, ma come governare
l’attuale caos? La globalizzazione è un bene di lusso che lascia a
terra i perdenti: cosa fanno le istituzioni europee per farli
rialzare, al di là di esasperanti regole numeriche che impediscono
ai governi adeguate politiche di welfare? La politica di soft power
che sta attuando l’Ue per abbattere i muri innalzati al suo interno
la metterà al riparo? O la esporrà a una maggiore vulnerabilità?