Limes
novembre.2016
Tra
Roma e Ankara nulla è più scontato
di
Germano Dottori
Interessi
geopolitici ed economici hanno legato l’Italia alla Turchia.
Nato
e Stati Uniti ci hanno avvicinato durante la guerra fredda.
Ma
il clima sta cambiando. Erdoãan provoca Washington e si riavvicina a
Mosca. La partita a scacchi in Libia e il caso Regeni.
1.
Tutte le relazioni tra stato sono regolate dalla legge dell’interesse
e quella tra Italia e Turchia non fa eccezione. A spingere Roma a
sostenere le ambizioni di Ankara sono stati soprattutto i nostri
rapporti con gli Stati Uniti, il peso dell’interscambio commerciale
bilaterale e l’illusione che dall’asse con i turchi il nostro
paese potesse trarre una maggior profondità geopolitica da spendere
in ambito europeo. A questi fattori, di per sé già molto
importanti, si sono più recentemente aggiunte le dinamiche scatenate
dalle primavere arabe, che hanno consigliato all’Italia di adottare
nei confronti della Turchia atteggiamenti improntati a una grande
prudenza, anche per scongiurare il pericolo di attentati sul nostro
territorio nazionale. Così, seppure appaia molto stabile in una
prospettiva di lungo periodo, ormai neppure l’amicizia dimostrata
dalla nostra repubblica nei confronti della nazione di Atatürk può
più ritenersi scontata. Non solo perché allo storico partito
trasversale degli amici della Turchia si contrappone ormai un vasto
schieramento che le è ostile, ma soprattutto perché è cambiato il
contesto geopolitico in cui le nostre relazioni con Ankara debbono
essere definite. L’Anatolia non è più, infatti, la marca di
frontiera di un Occidente monolitico, unito e compatto di fronte alla
minaccia orientale del comunismo, che è svanita. Al contrario, sotto
la guida del suo attuale presidente, Recep Tayyip Erdoãan, lo Stato
turco ha elevato sensibilmente il profilo della propria politica
estera, contribuendo in modo decisivo ad alterare consolidati
equilibri regionali e a farli precipitare nel caos che è di fronte
ai nostri occhi. Ankara si è riproposta nei panni della grande
potenza, come portatrice di un progetto di cambiamento e rinnovamento
di notevole respiro. È conseguentemente mutata anche la percezione
che della Turchia hanno gli interlocutori ai quali si rapporta. Ciò
spiega perché, in una situazione tanto fluida e confusa, accanto a
interessi che continuano a spingere nella direzione del rafforzamento
delle nostre relazioni con i turchi, come quelli di cui sono latori i
nostri esportatori, stiano profilandosi all’orizzonte anche scenari
suscettibili di provocarne il raffreddamento, se non addirittura la
compromissione.
2. Per capire cosa sia cambiato, occorre partire
dalla posizione occupata dalla Turchia durante la guerra fredda e
dalla reazione americana all’ascesa dell’islam politico nel primo
decennio di questo millennio. Durante la guerra fredda, le Forze
armate turche furono un bastione dell’Alleanza Atlantica. Ankara
era soddisfatta che esercitassero tale funzione perché l’élite
del paese vedeva in questo loro ruolo anche il logico prolungamento
nella politica estera della scelta di Atatürk di laicizzare e
occidentalizzare lo Stato turco. Quanto l’Anatolia fosse importante
per le strategie di contenimento adottate da Washington nei confronti
dell’Unione Sovietica lo illustrano due circostanze: il fatto che
proprio in Turchia, presso Smirne, venissero piazzati nel 1962 alcuni
tra i primi euromissili schierati dagli americani a ridosso delle
frontiere sovietiche – in tutto 15 Jupiter che vennero ritirati
nella primavera del 1963 dopo la crisi di Cuba – e la decisione
statunitense di basare a Incirlik un consistente numero di testate
nucleari B-61, che sono invece ancora sul posto e della cui sicurezza
si è molto discusso dopo il tentato colpo di Stato del 15 luglio
scorso. Completava il quadro il rapporto speciale stabilito dalla
Turchia con Israele, che nel 1997 sarebbe stato formalizzato in una
vera e propria alleanza, dalla forte valenza anti-siriana,
anti-irachena e anti-iraniana. La Turchia, in sintesi, era parte
essenziale del sistema attraverso il quale gli Stati Uniti
perseguivano i propri interessi in Medio Oriente. Tale situazione
consentiva anche all’Italia di investire con relativa tranquillità
nello sviluppo dei suoi rapporti economici e politici con Ankara,
seppure non mancasse qualche strappo. Così, il nostro appoggio
all’aspirazione turca di entrare a far parte dell’Europa
comunitaria serviva tanto a compiacere l’alleato americano quanto a
soddisfare precisi interessi della nostra imprenditoria pubblica e
privata. Rimase tutto sommato isolato anche l’incidente provocato
nell’autunno del 1998 dall’arrivo in Italia del controverso
leader del Pkk, Abdullah Öcalan, improvvisamente sbarcato a
Fiumicino insieme al deputato Ramon Mantovani, all’epoca
responsabile esteri di Rifondazione comunista, che lo aveva persuaso
a lasciare Mosca per chiedere da noi l’asilo politico. Non lo
ottenne, invece, e venne anzi presto incoraggiato ad andarsene,
perché si era subito fatta concreta la possibilità che i turchi
imponessero delle sanzioni nei confronti delle nostre aziende, in
segno di rappresaglia per l’ospitalità che avevamo comunque accordato all’esponente curdo. Contribuì a far dimenticare
quell’episodio anche il forte impegno profuso dai successivi
governi di centro-destra presieduti da Silvio Berlusconi
nell’assecondare la persistente richiesta statunitense di sostenere
la causa dell’integrazione di Ankara nell’Unione Europea.
Facilitò poi le cose anche il rapporto personale che si stabilì tra
il nostro presidente del Consiglio e il nuovo premier turco Erdoãan.
Con l’ascesa al potere dell’Akp, inoltre, le pressioni esercitate
da Washington affinché venissero dischiuse ai turchi le porte
dell’Europa comunitaria invece di attenuarsi si intensificarono.
Malgrado nel 2003 fosse stata negata al Pentagono la possibilità di
sfruttare l’Anatolia per attaccare l’Iraq di Saddam, amputando
del suo braccio settentrionale il piano statunitense d’invasione,
ampi settori dell’establishment americano si erano infatti convinti
che il successo dell’esperimento islamico in atto in Turchia
potesse costituire un esempio per tutto il Medio Oriente, dimostrando
come islam e democrazia fossero compatibili. Fu in questo contesto
che anche in Italia si formò un ampio schieramento politico
filo-turco, di cui entrarono a far parte sia Forza Italia che
Alleanza nazionale, un cui uomo di spicco, il sottosegretario agli
Esteri Alfredo Mantica, avrebbe poi scelto nel 2011 di festeggiare
proprio in Turchia i 150 anni dell’unità del nostro paese.
3. Non
tutti peraltro avrebbero condiviso questa linea: non solo l’avrebbe
avversata in chiave anti-musulmana la Lega Nord, ma vi si sarebbero
opposti in modo più o meno palese anche la sinistra che simpatizzava
per la causa dei curdi e, soprattutto, tutti quei politici che nella
promozione della candidatura turca all’adesione all’Ue vedevano
l’ennesimo tentativo di indebolire, annacquandolo, il processo di
integrazione europea, come Romano Prodi. Tra gli attori ostili
all’ingresso in Europa della Turchia figurava altresì la Chiesa di
Joseph Ratzinger, il cui ultimo, simbolico, atto da papa sarebbe
stato l’annuncio della beatificazione degli 800 martiri di Otranto,
uccisi il 14 agosto 1480 dagli invasori ottomani per non aver
abiurato il cristianesimo. In qualche modo, la relazione italo-turca
finì quindi per divenire ostaggio dell’aspro confronto in atto tra
atlantisti ed europeisti che dilaniava il cuore del nostro sistema
politico e, insieme, del dibattito apertosi sulla più ampia
questione del rapporto tra Occidente e islam, politico e non. Quindi vennero le primavere arabe e iniziò un’altra stagione di
conflitti, purtroppo non ancora risolta, che avrebbe comportato
un’ulteriore evoluzione del nostro rapporto bilaterale con la
Turchia, questa volta contrassegnata da oscillazioni e
riposizionamenti dettati da opportunità e percezioni di minaccia
contingenti. È interessante notare come malgrado la vicinanza
geografica nostra e la prossimità ideologica dell’Akp e del suo
leader alla Fratellanza musulmana, né Roma né Ankara avessero
svolto alcun ruolo particolare nelle prime rivolte, quelle che
portarono alla fuga di Ben Ali dalla Tunisia e alla caduta del regime
di Hosni Mubarak in Egitto. Italia e Turchia si sarebbero però
trovate dallo stesso lato quando, dopo aver superato ogni residuo
ostacolo diplomatico, il 19 marzo 2011 Stati Uniti, Francia e Regno
Unito avrebbero deciso di intervenire militarmente in Libia insieme
al Qatar in nome della responsibility to protect per fermare la
vittoriosa controffensiva che il colonnello Muammar Gheddafi stava
conducendo contro chi lo aveva sfidato. Per evitare di perdere
qualsiasi possibilità di influire sul corso degli eventi, italiani e
turchi si mossero insieme con successo per chiedere che la gestione
delle operazioni occidentali fosse trasferita all’Alleanza
Atlantica. I percorsi di Roma e di Ankara si sarebbero presto
nuovamente divisi. Mentre Ankara avrebbe infatti scelto di allearsi
con Doha per favorire gli elementi presenti in Libia più vicini alla
Fratellanza musulmana, puntando in particolare sulla città di
Misurata, dove risiedeva tra l’altro una storica comunità di
turchi, l’Italia preferì invece assumere un profilo più basso,
con l’obiettivo di salvaguardare i suoi interessi energetici e
nella speranza di trovare col tempo interlocutori affidabili, con i
quali cercare di ricomporre le fratture emerse nella sua ex colonia
dopo la caduta del regime di Tripoli. Roma avrebbe tuttavia presto
intuito la pericolosità di una situazione regionale nella quale la
Turchia appariva in procinto di estendere una sua influenza
predominante sull’intera area compresa tra l’Egitto e il Marocco
e, lungo un’altra direttrice, tra le coste meridionali del
Mediterraneo e il Corno d’Africa. Ci sorprese in particolare
l’investimento geopolitico-strategico sulla Somalia fatto dai
turchi, che riaprirono per primi la loro ambasciata a Mogadiscio, in
largo anticipo su di noi, cercando poi anche di acquisire una base
militare in quel paese, forse nell’intento di circondare l’Arabia
Saudita con una rete di propri presidî. In altre parole, con il
«risveglio arabo» l’Italia avrebbe sperimentato per la prima
volta la concorrenza geopolitica della Turchia, con la quale non
faceva i conti dai tempi della prima guerra mondiale. E seppure a
Erdoãan non fosse riuscito il tentativo di affermare una forma di
tutela turca sull’Egitto del presidente Mursø – anche a causa
del rifiuto arabo dell’eredità ottomana – dopo il colpo di Stato
che lo avrebbe deposto il nostro governo sarebbe stato fra i più
decisi a scommettere sulla giunta militare che nel 2013 aveva ripreso
il controllo della situazione al Cairo. All’ascesa di al-Søsø
avrebbero poi fatto presto seguito quella di Matteo Renzi a Palazzo
Chigi e quindi un’intensificazione dei rapporti bilaterali ai
massimi livelli tra Italia ed Egitto: uno sviluppo che risultò
specialmente gradito a Israele. In Libia, la svolta si tradusse in
un’altra chiusura della nostra ambasciata a Tripoli, la seconda
dopo quella attuata alla vigilia della nostra entrata in guerra
contro Gheddafi nel 2011, e nel riconoscimento accordato
all’esecutivo basato in Cirenaica, scelta che avrebbe destato
sensazione in più di un ambiente, in considerazione della maggiore
importanza degli interessi italiani in Tripolitania, ma che
retrospettivamente appare oggi logica alla luce della necessità,
allora certamente avvertita, di contrastare non solo le evidenti
ambizioni francesi ma anche l’eccessivo rafforzamento turco in
Nordafrica. Non vi sarebbero state nell’immediato conseguenze
avverse di maggiori proporzioni, un po’ perché la legittimazione
offerta a Tobruk si collocò nel contesto di un più ampio consenso
formatosi nella comunità internazionale, ma in parte forse anche
maggiore perché Ankara stava per essere completamente risucchiata
proprio in quel periodo nel pantano siro-iracheno. Nel settembre
2013, neanche l’impiego di armi chimiche in un sobborgo di Damasco
era bastato a provocare un risoluto intervento militare americano
contro Baššår al-Asad, che anzi sarebbe uscito dalla crisi
rilegittimato come rappresentante di una Siria che pur di sfuggire
alle bombe alleate si era impegnata a smantellare completamente il
proprio arsenale chimico. E il 2014 diventerà l’anno
dell’affermazione del «califfato», alla cui espansione non
sarebbe certamente rimasto estraneo lo Stato turco, responsabile, se
non altro, almeno del flusso ininterrotto di aspiranti jihadisti in
transito sul proprio territorio in entrambe le direzioni, da e verso
il fronte.
4. È in questo modo che si è progressivamente venuta a
creare una situazione sempre più complessa e pericolosa, che avrebbe
imposto al nostro paese una valutazione dettagliata e preventiva di
tutte le possibili conseguenze di ogni decisione da assumere. Quando
gli Stati Uniti mobiliteranno i loro alleati per contenere e fermare
l’espansione di Då‘i4 – come verrà presto da molti chiamato
il sedicente Stato Islamico – e all’Italia sarà chiesto di
partecipare allo sforzo, la prudenza di cui si farà sfoggio sarà
massima. Anziché prendere direttamente parte ad attività di
combattimento nei confronti delle milizie dello Stato Islamico, per
ridurre al minimo il rischio di eventuali ritorsioni si sceglierà
infatti di contribuire all’addestramento dei peshmerga curdi,
legati a Masud Barzani, a sua volta noto cliente di Erdoãan,
evitando di bombardare direttamente qualsiasi bersaglio che fosse
situato nei territori controllati dai miliziani di al-Baôdådø. Ciò
malgrado, non mancheranno lo stesso dispiaceri e avvertimenti. L’11
luglio 2015 arriverà quello più eclatante, quando una bomba da 450
chilogrammi di tritolo devasterà il consolato generale d’Italia al
Cairo. L’attentato avverrà all’alba, alle 6.25 locali, prima
dell’inizio della giornata lavorativa, e solo per questo si
concluderà con un bilancio relativamente contenuto: due morti e nove
feriti, nessuno dei quali italiano. Dopotutto, la scelta dell’ora è
probabilmente un gesto di riguardo, ancorché fortemente
intimidatorio, pensato per dare al nostro governo tutto il tempo di
riposizionarsi. Anche se per un po’ si nega l’evidente, l’attacco
alla nostra sede consolare verrà alla fine interpretato anche
ufficialmente per ciò che era stato: ovvero come una punizione per
il sostegno assicurato dall’Italia al paese campione della
repressione dell’islam politico e al contempo un invito a cambiar
strada. Cosa che si verificherà gradualmente ma puntualmente, in un
contesto peraltro più ampio nel quale si muoveranno più
incisivamente anche gli Stati Uniti e il Regno Unito. Prenderemo così
parte al processo che condurrà il 17 dicembre successivo agli
accordi di al-Âaoeøråt e svolgeremo un ruolo di primo piano il 30
marzo di quest’anno nello scortare per mare fino a Tripoli Fåyiz
al-Sarråã, il premier designato del governo di accordo nazionale
che includerà anche le forze vicine alla Fratellanza musulmana.
Torneremo in questo modo vicini ad Ankara, ma il distanziamento
dall’Egitto verrà pagato con l’assassinio di Giulio Regeni, il
cui corpo straziato sarà trovato il 3 febbraio 2016 proprio mentre
al Cairo si trova una missione guidata da un ministro del governo
italiano: un delitto politico, che in verità contiene messaggi
pesanti anche per inglesi e americani, circostanza che spiega anche
l’inusuale interesse prestato alla vicenda dalla stampa
d’Oltreoceano e da quella d’Oltremanica. Ai francesi che esitano
a saltare il fosso e che continuano ad assistere Il Cairo anche con
importanti forniture militari, inclusa quella delle due
portaelicotteri classe Mistral già destinate alla Russia e
intitolate alla memoria dei presidenti Nasser e Sadat, andrà però
persino peggio: un volo dell’Egyptair partito da Parigi e diretto
verso la capitale egiziana avrà un misterioso incidente in quota e
s’inabisserà il 19 maggio 2016 al largo di Creta, portandosi via
le vite di 66 persone, 15 delle quali di nazionalità transalpina.
Sui resti della carlinga saranno trovate tracce di Tnt. La guerra
continuerà sino ai nostri giorni e molto probabilmente si protrarrà
anche oltre: in seguito agli attacchi condotti nella prima decade
dello scorso settembre ai danni delle milizie di guardia ai pozzi
petroliferi fedeli a Ãadrån e favorevoli a Sarråã dalle bande del
generale OEaløfa Õaftar, appoggiato dal regime egiziano, il governo
italiano romperà gli indugi, annunciando in parlamento l’invio di
un primo contingente di truppe terrestri a Misurata. La città sarà
scelta perché ha avuto quattrocento caduti nella sua campagna contro
le articolazioni libiche dello Stato Islamico. Ma si tratta anche del
più solido punto d’appoggio di cui Erdoãan disponga in Libia. Si
tornerà perciò a collaborare, proprio mentre soldati e carri armati
turchi sono schierati nei pressi di Mosul, non lontanissimi da quella
diga dove ci sono anche i nostri militari.
5. Nell’ambiente caotico
generato dalle rivolte mediterranee e mediorientali, le vecchie
coordinate che i politici italiani utilizzavano per strutturare la
relazione del nostro paese con la Turchia non offrono quindi più
certezze granitiche, se non quella assai poco confortante di trovarsi
a operare in un ambiente fluido e imprevedibile. È così ormai
legittimo immaginare un contesto nel quale l’Italia fatichi
maggiormente a tutelare i suoi interessi, che sono tanto geopolitici
e di sicurezza quanto economici, come provano gli oltre 10 miliardi
di euro di export fatturato e la realtà rappresentata dalle oltre
1.200 aziende operanti in Turchia con quote di capitale fornite dal
nostro paese6. Nell’equazione che determina la salute dei nostri
rapporti con Ankara sono inoltre ormai entrate altre variabili, come
quella russa, che si riverbera anche nel campo dell’energia, nonché
quelle legate alle elezioni presidenziali americane e alle scelte
della nuova amministrazione. Erdoãan ha fatto la pace con Putin ed è
riuscito a sopravvivere a un tentativo di colpo di Stato promosso il
15 luglio scorso contro di lui da alcuni elementi appartenenti
all’Aeronautica e alla gendarmeria turche, probabilmente proprio
per impedire il perfezionarsi della riconciliazione tra Ankara e
Mosca. La loro sconfitta non è però sufficiente a concludere che
sia avvenuto un cambio di campo irreversibile da parte della Turchia,
anche perché gli americani stanno dischiudendo spazi significativi
ai clienti siriani del governo turco. Gli accordi per il Turkish
Stream, che potrebbe sostituire l’abortito South Stream, sono
altresì un importante e concreto fatto nuovo, che è destinato a
generare un rilevante interesse di lungo periodo a non compromettere
relazioni restaurate dai turchi al prezzo della svendita di una
politica di contrapposizione anche aspra, svolta per anni. Inoltre,
l’influenza di Mosca sembra ora estendersi anche all’Egitto, dove
proprio a El Alamein (al-‘Alamayn) paracadutisti russi si sono
esercitati insieme ai militari del Cairo. Si dice anche che lo stesso
Õaftar sia destinato a beneficiare presto di aiuti militari da parte
del Cremlino, che potranno però in quel caso anche essere utilizzati
contro gli alleati libici della Turchia e dell’Italia, specialmente
se nel frattempo Ankara e Il Cairo non si saranno in qualche modo
riconciliate, magari proprio in risposta a specifiche pressioni
esercitate dalla Russia. È chiaro che la gran parte degli sviluppi
futuri dipenderà proprio dagli esiti delle elezioni statunitensi,
dal momento che sono state poste sul tappeto, davanti agli elettori
americani, due opzioni di politica estera opposte e per di più
suscettibili di prestarsi alle più varie declinazioni. L’Italia e
la sua relazione con la Turchia non potranno non risentirne.
Assumendo che Erdoãan non torni sui suoi passi e che il
riavvicinamento alla Federazione Russia non venga rinnegato a breve,
la vittoria di Hillary dovrebbe implicare più forti tensioni tra
Washington e Ankara, che persisterebbero in assenza di cambi di linea
apprezzabili da parte turca. E Roma dovrebbe adeguarvisi. È molto
verosimile, di contro, che un’eventuale amministrazione Trump
finisca con l’inserire le relazioni turcoamericane nella più vasta
cornice del grande negoziato che si vorrebbe condurre con Mosca,
circostanza che potrebbe dilatare anche i margini a disposizione del
nostro paese per definire un rapporto con i turchi che soddisfi gli
interessi reciproci. Andrà però sempre tenuto a mente, comunque
vada a finire, che a differenza nostra la Turchia si sente una grande
potenza, agisce di conseguenza senza alcun complesso e sarebbe quanto
meno ingenuo pensare di poterla «usare» per accrescere il nostro
peso in Europa. Abbiamo già visto nell’autunno del 1998 chi è il
più forte. Vollero Öcalan. E lo ebbero in poco più due mesi. Senza
neanche faticar troppo.