lunedì 14 novembre 2016

Limes novembre.2016
Tra Roma e Ankara nulla è più scontato
di Germano Dottori
Interessi geopolitici ed economici hanno legato l’Italia alla Turchia.
Nato e Stati Uniti ci hanno avvicinato durante la guerra fredda.
Ma il clima sta cambiando. Erdoãan provoca Washington e si riavvicina a Mosca. La partita a scacchi in Libia e il caso Regeni.

1. Tutte le relazioni tra stato sono regolate dalla legge dell’interesse e quella tra Italia e Turchia non fa eccezione. A spingere Roma a sostenere le ambizioni di Ankara sono stati soprattutto i nostri rapporti con gli Stati Uniti, il peso dell’interscambio commerciale bilaterale e l’illusione che dall’asse con i turchi il nostro paese potesse trarre una maggior profondità geopolitica da spendere in ambito europeo. A questi fattori, di per sé già molto importanti, si sono più recentemente aggiunte le dinamiche scatenate dalle primavere arabe, che hanno consigliato all’Italia di adottare nei confronti della Turchia atteggiamenti improntati a una grande prudenza, anche per scongiurare il pericolo di attentati sul nostro territorio nazionale. Così, seppure appaia molto stabile in una prospettiva di lungo periodo, ormai neppure l’amicizia dimostrata dalla nostra repubblica nei confronti della nazione di Atatürk può più ritenersi scontata. Non solo perché allo storico partito trasversale degli amici della Turchia si contrappone ormai un vasto schieramento che le è ostile, ma soprattutto perché è cambiato il contesto geopolitico in cui le nostre relazioni con Ankara debbono essere definite. L’Anatolia non è più, infatti, la marca di frontiera di un Occidente monolitico, unito e compatto di fronte alla minaccia orientale del comunismo, che è svanita. Al contrario, sotto la guida del suo attuale presidente, Recep Tayyip Erdoãan, lo Stato turco ha elevato sensibilmente il profilo della propria politica estera, contribuendo in modo decisivo ad alterare consolidati equilibri regionali e a farli precipitare nel caos che è di fronte ai nostri occhi. Ankara si è riproposta nei panni della grande potenza, come portatrice di un progetto di cambiamento e rinnovamento di notevole respiro. È conseguentemente mutata anche la percezione che della Turchia hanno gli interlocutori ai quali si rapporta. Ciò spiega perché, in una situazione tanto fluida e confusa, accanto a interessi che continuano a spingere nella direzione del rafforzamento delle nostre relazioni con i turchi, come quelli di cui sono latori i nostri esportatori, stiano profilandosi all’orizzonte anche scenari suscettibili di provocarne il raffreddamento, se non addirittura la compromissione. 
2. Per capire cosa sia cambiato, occorre partire dalla posizione occupata dalla Turchia durante la guerra fredda e dalla reazione americana all’ascesa dell’islam politico nel primo decennio di questo millennio. Durante la guerra fredda, le Forze armate turche furono un bastione dell’Alleanza Atlantica. Ankara era soddisfatta che esercitassero tale funzione perché l’élite del paese vedeva in questo loro ruolo anche il logico prolungamento nella politica estera della scelta di Atatürk di laicizzare e occidentalizzare lo Stato turco. Quanto l’Anatolia fosse importante per le strategie di contenimento adottate da Washington nei confronti dell’Unione Sovietica lo illustrano due circostanze: il fatto che proprio in Turchia, presso Smirne, venissero piazzati nel 1962 alcuni tra i primi euromissili schierati dagli americani a ridosso delle frontiere sovietiche – in tutto 15 Jupiter che vennero ritirati nella primavera del 1963 dopo la crisi di Cuba – e la decisione statunitense di basare a Incirlik un consistente numero di testate nucleari B-61, che sono invece ancora sul posto e della cui sicurezza si è molto discusso dopo il tentato colpo di Stato del 15 luglio scorso. Completava il quadro il rapporto speciale stabilito dalla Turchia con Israele, che nel 1997 sarebbe stato formalizzato in una vera e propria alleanza, dalla forte valenza anti-siriana, anti-irachena e anti-iraniana. La Turchia, in sintesi, era parte essenziale del sistema attraverso il quale gli Stati Uniti perseguivano i propri interessi in Medio Oriente. Tale situazione consentiva anche all’Italia di investire con relativa tranquillità nello sviluppo dei suoi rapporti economici e politici con Ankara, seppure non mancasse qualche strappo. Così, il nostro appoggio all’aspirazione turca di entrare a far parte dell’Europa comunitaria serviva tanto a compiacere l’alleato americano quanto a soddisfare precisi interessi della nostra imprenditoria pubblica e privata. Rimase tutto sommato isolato anche l’incidente provocato nell’autunno del 1998 dall’arrivo in Italia del controverso leader del Pkk, Abdullah Öcalan, improvvisamente sbarcato a Fiumicino insieme al deputato Ramon Mantovani, all’epoca responsabile esteri di Rifondazione comunista, che lo aveva persuaso a lasciare Mosca per chiedere da noi l’asilo politico. Non lo ottenne, invece, e venne anzi presto incoraggiato ad andarsene, perché si era subito fatta concreta la possibilità che i turchi imponessero delle sanzioni nei confronti delle nostre aziende, in segno di rappresaglia per l’ospitalità che avevamo comunque accordato all’esponente curdo. Contribuì a far dimenticare quell’episodio anche il forte impegno profuso dai successivi governi di centro-destra presieduti da Silvio Berlusconi nell’assecondare la persistente richiesta statunitense di sostenere la causa dell’integrazione di Ankara nell’Unione Europea. Facilitò poi le cose anche il rapporto personale che si stabilì tra il nostro presidente del Consiglio e il nuovo premier turco Erdoãan. Con l’ascesa al potere dell’Akp, inoltre, le pressioni esercitate da Washington affinché venissero dischiuse ai turchi le porte dell’Europa comunitaria invece di attenuarsi si intensificarono. Malgrado nel 2003 fosse stata negata al Pentagono la possibilità di sfruttare l’Anatolia per attaccare l’Iraq di Saddam, amputando del suo braccio settentrionale il piano statunitense d’invasione, ampi settori dell’establishment americano si erano infatti convinti che il successo dell’esperimento islamico in atto in Turchia potesse costituire un esempio per tutto il Medio Oriente, dimostrando come islam e democrazia fossero compatibili. Fu in questo contesto che anche in Italia si formò un ampio schieramento politico filo-turco, di cui entrarono a far parte sia Forza Italia che Alleanza nazionale, un cui uomo di spicco, il sottosegretario agli Esteri Alfredo Mantica, avrebbe poi scelto nel 2011 di festeggiare proprio in Turchia i 150 anni dell’unità del nostro paese.
3. Non tutti peraltro avrebbero condiviso questa linea: non solo l’avrebbe avversata in chiave anti-musulmana la Lega Nord, ma vi si sarebbero opposti in modo più o meno palese anche la sinistra che simpatizzava per la causa dei curdi e, soprattutto, tutti quei politici che nella promozione della candidatura turca all’adesione all’Ue vedevano l’ennesimo tentativo di indebolire, annacquandolo, il processo di integrazione europea, come Romano Prodi. Tra gli attori ostili all’ingresso in Europa della Turchia figurava altresì la Chiesa di Joseph Ratzinger, il cui ultimo, simbolico, atto da papa sarebbe stato l’annuncio della beatificazione degli 800 martiri di Otranto, uccisi il 14 agosto 1480 dagli invasori ottomani per non aver abiurato il cristianesimo. In qualche modo, la relazione italo-turca finì quindi per divenire ostaggio dell’aspro confronto in atto tra atlantisti ed europeisti che dilaniava il cuore del nostro sistema politico e, insieme, del dibattito apertosi sulla più ampia questione del rapporto tra Occidente e islam, politico e non. Quindi vennero le primavere arabe e iniziò un’altra stagione di conflitti, purtroppo non ancora risolta, che avrebbe comportato un’ulteriore evoluzione del nostro rapporto bilaterale con la Turchia, questa volta contrassegnata da oscillazioni e riposizionamenti dettati da opportunità e percezioni di minaccia contingenti. È interessante notare come malgrado la vicinanza geografica nostra e la prossimità ideologica dell’Akp e del suo leader alla Fratellanza musulmana, né Roma né Ankara avessero svolto alcun ruolo particolare nelle prime rivolte, quelle che portarono alla fuga di Ben Ali dalla Tunisia e alla caduta del regime di Hosni Mubarak in Egitto. Italia e Turchia si sarebbero però trovate dallo stesso lato quando, dopo aver superato ogni residuo ostacolo diplomatico, il 19 marzo 2011 Stati Uniti, Francia e Regno Unito avrebbero deciso di intervenire militarmente in Libia insieme al Qatar in nome della responsibility to protect per fermare la vittoriosa controffensiva che il colonnello Muammar Gheddafi stava conducendo contro chi lo aveva sfidato. Per evitare di perdere qualsiasi possibilità di influire sul corso degli eventi, italiani e turchi si mossero insieme con successo per chiedere che la gestione delle operazioni occidentali fosse trasferita all’Alleanza Atlantica. I percorsi di Roma e di Ankara si sarebbero presto nuovamente divisi. Mentre Ankara avrebbe infatti scelto di allearsi con Doha per favorire gli elementi presenti in Libia più vicini alla Fratellanza musulmana, puntando in particolare sulla città di Misurata, dove risiedeva tra l’altro una storica comunità di turchi, l’Italia preferì invece assumere un profilo più basso, con l’obiettivo di salvaguardare i suoi interessi energetici e nella speranza di trovare col tempo interlocutori affidabili, con i quali cercare di ricomporre le fratture emerse nella sua ex colonia dopo la caduta del regime di Tripoli. Roma avrebbe tuttavia presto intuito la pericolosità di una situazione regionale nella quale la Turchia appariva in procinto di estendere una sua influenza predominante sull’intera area compresa tra l’Egitto e il Marocco e, lungo un’altra direttrice, tra le coste meridionali del Mediterraneo e il Corno d’Africa. Ci sorprese in particolare l’investimento geopolitico-strategico sulla Somalia fatto dai turchi, che riaprirono per primi la loro ambasciata a Mogadiscio, in largo anticipo su di noi, cercando poi anche di acquisire una base militare in quel paese, forse nell’intento di circondare l’Arabia Saudita con una rete di propri presidî. In altre parole, con il «risveglio arabo» l’Italia avrebbe sperimentato per la prima volta la concorrenza geopolitica della Turchia, con la quale non faceva i conti dai tempi della prima guerra mondiale. E seppure a Erdoãan non fosse riuscito il tentativo di affermare una forma di tutela turca sull’Egitto del presidente Mursø – anche a causa del rifiuto arabo dell’eredità ottomana – dopo il colpo di Stato che lo avrebbe deposto il nostro governo sarebbe stato fra i più decisi a scommettere sulla giunta militare che nel 2013 aveva ripreso il controllo della situazione al Cairo. All’ascesa di al-Søsø avrebbero poi fatto presto seguito quella di Matteo Renzi a Palazzo Chigi e quindi un’intensificazione dei rapporti bilaterali ai massimi livelli tra Italia ed Egitto: uno sviluppo che risultò specialmente gradito a Israele. In Libia, la svolta si tradusse in un’altra chiusura della nostra ambasciata a Tripoli, la seconda dopo quella attuata alla vigilia della nostra entrata in guerra contro Gheddafi nel 2011, e nel riconoscimento accordato all’esecutivo basato in Cirenaica, scelta che avrebbe destato sensazione in più di un ambiente, in considerazione della maggiore importanza degli interessi italiani in Tripolitania, ma che retrospettivamente appare oggi logica alla luce della necessità, allora certamente avvertita, di contrastare non solo le evidenti ambizioni francesi ma anche l’eccessivo rafforzamento turco in Nordafrica. Non vi sarebbero state nell’immediato conseguenze avverse di maggiori proporzioni, un po’ perché la legittimazione offerta a Tobruk si collocò nel contesto di un più ampio consenso formatosi nella comunità internazionale, ma in parte forse anche maggiore perché Ankara stava per essere completamente risucchiata proprio in quel periodo nel pantano siro-iracheno. Nel settembre 2013, neanche l’impiego di armi chimiche in un sobborgo di Damasco era bastato a provocare un risoluto intervento militare americano contro Baššår al-Asad, che anzi sarebbe uscito dalla crisi rilegittimato come rappresentante di una Siria che pur di sfuggire alle bombe alleate si era impegnata a smantellare completamente il proprio arsenale chimico. E il 2014 diventerà l’anno dell’affermazione del «califfato», alla cui espansione non sarebbe certamente rimasto estraneo lo Stato turco, responsabile, se non altro, almeno del flusso ininterrotto di aspiranti jihadisti in transito sul proprio territorio in entrambe le direzioni, da e verso il fronte. 
4. È in questo modo che si è progressivamente venuta a creare una situazione sempre più complessa e pericolosa, che avrebbe imposto al nostro paese una valutazione dettagliata e preventiva di tutte le possibili conseguenze di ogni decisione da assumere. Quando gli Stati Uniti mobiliteranno i loro alleati per contenere e fermare l’espansione di Då‘i4 – come verrà presto da molti chiamato il sedicente Stato Islamico – e all’Italia sarà chiesto di partecipare allo sforzo, la prudenza di cui si farà sfoggio sarà massima. Anziché prendere direttamente parte ad attività di combattimento nei confronti delle milizie dello Stato Islamico, per ridurre al minimo il rischio di eventuali ritorsioni si sceglierà infatti di contribuire all’addestramento dei peshmerga curdi, legati a Masud Barzani, a sua volta noto cliente di Erdoãan, evitando di bombardare direttamente qualsiasi bersaglio che fosse situato nei territori controllati dai miliziani di al-Baôdådø. Ciò malgrado, non mancheranno lo stesso dispiaceri e avvertimenti. L’11 luglio 2015 arriverà quello più eclatante, quando una bomba da 450 chilogrammi di tritolo devasterà il consolato generale d’Italia al Cairo. L’attentato avverrà all’alba, alle 6.25 locali, prima dell’inizio della giornata lavorativa, e solo per questo si concluderà con un bilancio relativamente contenuto: due morti e nove feriti, nessuno dei quali italiano. Dopotutto, la scelta dell’ora è probabilmente un gesto di riguardo, ancorché fortemente intimidatorio, pensato per dare al nostro governo tutto il tempo di riposizionarsi. Anche se per un po’ si nega l’evidente, l’attacco alla nostra sede consolare verrà alla fine interpretato anche ufficialmente per ciò che era stato: ovvero come una punizione per il sostegno assicurato dall’Italia al paese campione della repressione dell’islam politico e al contempo un invito a cambiar strada. Cosa che si verificherà gradualmente ma puntualmente, in un contesto peraltro più ampio nel quale si muoveranno più incisivamente anche gli Stati Uniti e il Regno Unito. Prenderemo così parte al processo che condurrà il 17 dicembre successivo agli accordi di al-Âaoeøråt e svolgeremo un ruolo di primo piano il 30 marzo di quest’anno nello scortare per mare fino a Tripoli Fåyiz al-Sarråã, il premier designato del governo di accordo nazionale che includerà anche le forze vicine alla Fratellanza musulmana. Torneremo in questo modo vicini ad Ankara, ma il distanziamento dall’Egitto verrà pagato con l’assassinio di Giulio Regeni, il cui corpo straziato sarà trovato il 3 febbraio 2016 proprio mentre al Cairo si trova una missione guidata da un ministro del governo italiano: un delitto politico, che in verità contiene messaggi pesanti anche per inglesi e americani, circostanza che spiega anche l’inusuale interesse prestato alla vicenda dalla stampa d’Oltreoceano e da quella d’Oltremanica. Ai francesi che esitano a saltare il fosso e che continuano ad assistere Il Cairo anche con importanti forniture militari, inclusa quella delle due portaelicotteri classe Mistral già destinate alla Russia e intitolate alla memoria dei presidenti Nasser e Sadat, andrà però persino peggio: un volo dell’Egyptair partito da Parigi e diretto verso la capitale egiziana avrà un misterioso incidente in quota e s’inabisserà il 19 maggio 2016 al largo di Creta, portandosi via le vite di 66 persone, 15 delle quali di nazionalità transalpina. Sui resti della carlinga saranno trovate tracce di Tnt. La guerra continuerà sino ai nostri giorni e molto probabilmente si protrarrà anche oltre: in seguito agli attacchi condotti nella prima decade dello scorso settembre ai danni delle milizie di guardia ai pozzi petroliferi fedeli a Ãadrån e favorevoli a Sarråã dalle bande del generale OEaløfa Õaftar, appoggiato dal regime egiziano, il governo italiano romperà gli indugi, annunciando in parlamento l’invio di un primo contingente di truppe terrestri a Misurata. La città sarà scelta perché ha avuto quattrocento caduti nella sua campagna contro le articolazioni libiche dello Stato Islamico. Ma si tratta anche del più solido punto d’appoggio di cui Erdoãan disponga in Libia. Si tornerà perciò a collaborare, proprio mentre soldati e carri armati turchi sono schierati nei pressi di Mosul, non lontanissimi da quella diga dove ci sono anche i nostri militari. 
5. Nell’ambiente caotico generato dalle rivolte mediterranee e mediorientali, le vecchie coordinate che i politici italiani utilizzavano per strutturare la relazione del nostro paese con la Turchia non offrono quindi più certezze granitiche, se non quella assai poco confortante di trovarsi a operare in un ambiente fluido e imprevedibile. È così ormai legittimo immaginare un contesto nel quale l’Italia fatichi maggiormente a tutelare i suoi interessi, che sono tanto geopolitici e di sicurezza quanto economici, come provano gli oltre 10 miliardi di euro di export fatturato e la realtà rappresentata dalle oltre 1.200 aziende operanti in Turchia con quote di capitale fornite dal nostro paese6. Nell’equazione che determina la salute dei nostri rapporti con Ankara sono inoltre ormai entrate altre variabili, come quella russa, che si riverbera anche nel campo dell’energia, nonché quelle legate alle elezioni presidenziali americane e alle scelte della nuova amministrazione. Erdoãan ha fatto la pace con Putin ed è riuscito a sopravvivere a un tentativo di colpo di Stato promosso il 15 luglio scorso contro di lui da alcuni elementi appartenenti all’Aeronautica e alla gendarmeria turche, probabilmente proprio per impedire il perfezionarsi della riconciliazione tra Ankara e Mosca. La loro sconfitta non è però sufficiente a concludere che sia avvenuto un cambio di campo irreversibile da parte della Turchia, anche perché gli americani stanno dischiudendo spazi significativi ai clienti siriani del governo turco. Gli accordi per il Turkish Stream, che potrebbe sostituire l’abortito South Stream, sono altresì un importante e concreto fatto nuovo, che è destinato a generare un rilevante interesse di lungo periodo a non compromettere relazioni restaurate dai turchi al prezzo della svendita di una politica di contrapposizione anche aspra, svolta per anni. Inoltre, l’influenza di Mosca sembra ora estendersi anche all’Egitto, dove proprio a El Alamein (al-‘Alamayn) paracadutisti russi si sono esercitati insieme ai militari del Cairo. Si dice anche che lo stesso Õaftar sia destinato a beneficiare presto di aiuti militari da parte del Cremlino, che potranno però in quel caso anche essere utilizzati contro gli alleati libici della Turchia e dell’Italia, specialmente se nel frattempo Ankara e Il Cairo non si saranno in qualche modo riconciliate, magari proprio in risposta a specifiche pressioni esercitate dalla Russia. È chiaro che la gran parte degli sviluppi futuri dipenderà proprio dagli esiti delle elezioni statunitensi, dal momento che sono state poste sul tappeto, davanti agli elettori americani, due opzioni di politica estera opposte e per di più suscettibili di prestarsi alle più varie declinazioni. L’Italia e la sua relazione con la Turchia non potranno non risentirne. Assumendo che Erdoãan non torni sui suoi passi e che il riavvicinamento alla Federazione Russia non venga rinnegato a breve, la vittoria di Hillary dovrebbe implicare più forti tensioni tra Washington e Ankara, che persisterebbero in assenza di cambi di linea apprezzabili da parte turca. E Roma dovrebbe adeguarvisi. È molto verosimile, di contro, che un’eventuale amministrazione Trump finisca con l’inserire le relazioni turcoamericane nella più vasta cornice del grande negoziato che si vorrebbe condurre con Mosca, circostanza che potrebbe dilatare anche i margini a disposizione del nostro paese per definire un rapporto con i turchi che soddisfi gli interessi reciproci. Andrà però sempre tenuto a mente, comunque vada a finire, che a differenza nostra la Turchia si sente una grande potenza, agisce di conseguenza senza alcun complesso e sarebbe quanto meno ingenuo pensare di poterla «usare» per accrescere il nostro peso in Europa. Abbiamo già visto nell’autunno del 1998 chi è il più forte. Vollero Öcalan. E lo ebbero in poco più due mesi. Senza neanche faticar troppo.