sabato 5 novembre 2016

La Stampa TuttoLibri 5.11.16
“Vi porto nel mondo degli schiavi dove erano le donne a ribellarsi”
La cospirazione di una bambina nera dagli occhi verdi e delle sue compagne contro violenze e stupri dei padroni nelle piantagioni della Giamaica
intervista di di Giuseppe Culicchia

Marlon James, giamaicano, già autore dell’imponente e acclamato Breve storia di sette omicidi, torna in libreria in Italia ancora per i tipi di Frassinelli con Le donne della notte
(traduzione di Paola D’Accardi), romanzo epico che prende le mosse dalla nascita in una piantagione di canna da zucchero alla fine dell’Ottocento di Lilith, una bambina negra colpevole di essere venuta al mondo con due occhi verdi capaci di illuminare la notte. Le donne che assistono al parto tremano letteralmente di paura, e da subito Lilith viene emarginata. Schiava tra gli schiavi, è ultima tra gli ultimi: quei suoi occhi dicono che in realtà è figlia di un bianco, e dunque di uno di quei padroni razzisti, violenti e sadici che incarnano l’orrore sulla Terra. Uno di questi, Jack Wilkins, è il sovrintendente della piantagione, ovvero di quel campo di concentramento ante litteram, e ha i suoi kapò, negri chiamati johnny-jumper che a colpi di frusta spronano i loro simili sulla via della produttività per arricchire la Montpelier Estate. E dato che nessuno vuole prendersi cura della neonata, Wilkins deve ordinare a una schiava di farsi carico della piccola. Così, Lilith cresce a modo suo, di fatto isolata dal resto dei dannati che tra fatica e torture accrescono le fortune dei bianchi, fino a che un giorno non s’imbatte nelle «Donne della Notte»: un gruppo di schiave decise a ribellarsi una volta per tutte e liberarsi da una vita fatta di lavoro forzato, punizioni corporali, stenti, stupri. Ma lei si reputa superiore a quelle schiave ribelli. Dopotutto i suoi occhi dicono che nelle sue vene scorre il sangue dei padroni. E cresciuta com’è in quel clima di violenza e soprusi ed esclusione, porta dentro di sé una ferocia insospettabile. Tra gelosie, cospirazioni, segreti, Lilith da voce «all’inesprimibile e all’impensabile», come ha scritto la
New York Times Book Review. E Marlon James, nato a Kingston nel 1970, professore di letteratura e scrittura creativa a St. Paul, Minnesota, riesce a portare a termine un’impresa come sappiamo assai difficile, ovvero a scrivere un secondo romanzo che non delude le aspettative suscitate dal primo.
Mr. James, le è riuscita un’impresa non facile dopo un libro di successo come «Breve storia di sette omicidi»: scrivere un romanzo assai diverso dal precedente senza farsi condizionare dalle aspettative dei lettori e della critica. Da dove nasce l’idea di «Le donne della notte»?
«In realtà ho iniziato a scrivere un romanzo che aveva per protagonisti dei rapinatori di banche giamaicani. Sono andato avanti per un po’, ma a un tratto ho capito che non era quella la storia che avevo urgenza di scrivere. Volevo scrivere un libro che raccontasse l’epoca dello schiavismo in Giamaica. Così ho messo da parte le pagine a cui avevo cominciato a lavorare, e mi sono tuffato in questa nuova avventura. In principio non sapevo nemmeno che Lilith sarebbe stata la protagonista, ma poco per volta il suo personaggio ha preso il sopravvento».
Come si è calato nella voce di una ragazzina cresciuta in una piantagione all’epoca dello schiavismo? A me ha ricordato per certi versi quella di Huck Finn.
«Ah, Le avventure di Huckleberry Finn è uno di quei romanzi che mi hanno davvero segnato: avevo quindici anni quando l’ho letto per la prima volta e ho scoperto che esistevano libri scritti in un inglese che non era quello standard che ci insegnavano a scuola, ma una lingua piena di parole gergali, presa letteralmente dalla strada. Da parte mia sono cresciuto tra ragazzi che parlavano quel broken English che mi ha aiutato a ricreare sulla pagina la voce di Lilith. In realtà la difficoltà maggiore non è stata sintonizzarmi con lei, ma raccogliere il maggior numero di informazioni sul suo mondo. Ho fatto un mucchio di ricerche sullo schiavismo, sul colonialismo, sulla condizione femminile all’epoca in cui si svolge la vicenda».
Quello schiavismo ottocentesco, oggi musealizzato, per certi versi sembra riaffacciarsi nella nostra contemporaneità ultra-liberista.
«Sì, gli abiti a poco prezzo che indossiamo sono prodotti in paesi come il Bangladesh da minorenni che vivono in condizioni di semi-schiavitù. Credo che il nostro sia un problema di domanda e di offerta, e naturalmente di costi e ricavi: c’è bisogno di una manodopera in grado di produrre a ritmi forsennati grandi quantità di capi di vestiario o di componenti per i nostri gingilli tecnologici, e per una paga da fame. Ma lo schiavismo era già praticato al tempo degli antichi Romani».
In Lilith, nata schiava ma con gli occhi verdi, c’è a un certo momento un sentimento di superiorità nei confronti dei suoi simili. Come se in un certo modo fosse stata contagiata dai bianchi.
«Il razzismo è uno stato mentale. Prima dell’arrivo dei bianchi, in Africa non esisteva. Credo si stato l’uomo bianco a inventare il razzismo».
E però, all’interno di un romanzo che ha pagine assai dure, segnate dalla violenza che si respira nella piantagione, c’è anche una storia d’amore.
«Sì. Quando sono arrivato a quel punto, per un istante mi sono detto che c’era il rischio di cadere nel sentimentalismo. E però la storia di Lilith mi spingeva lì. Ho deciso di affrontare il rischio».
Lilith è una vera forza della natura. Questa sua caratteristica ha qualcosa a che fare col fatto che appartiene al genere femminile?
«No, non penso. Lilith è allo stesso tempo molto forte in certi passaggi, capace di affermare la sua indipendenza, e tuttavia anche fragile in altri. In questi casi viene aiutata dalle sue compagne di schiavitù: la solidarietà scatta nel momento in cui si tratta di lottare per sopravvivere».
In una sua intervista, rilasciata all’uscita di «Breve storia di sette omicidi», ha dichiarato che per scrivere quel romanzo su un gruppo di uomini decisi ad assassinare Bob Marley era stato influenzato da autori com Faulkner e Bolano, ma anche Talese e Pahmuk. Sono questi i suoi modelli letterari?
«Beh, se devo pensare a dei veri modelli allora penso agli autori con cui sono cresciuto: il già citato Mark Twain, e con lui Jane Austen, e William Wordsworth, e Shakespeare. Li ho letti molto prima di capire che nella vita volevo scrivere, ma mi hanno formato. E mi hanno aiutato a fuggire dalla realtà quotidiana in cui vivevo. Ma tra le mie fonti di ispirazione ci sono l’hip hop e i fumetti, e la letteratura africana. Tutte queste cose mescolate hanno contribuito a fare di me quello che sono. E poi già che ci siamo citerei Bob Dylan: sono felice che abbia vinto il Nobel».
Che libro ha ora sul comodino?
«Sto leggendo War Music, un libro straordinario di Christopehr Logue, un poeta che ha deciso di avventurarsi con le sue parole nell’Iliade di Omero E’ un testo uscito nel 1987, che ho scoperto solo ora. Logue è scomparso nel 2011, e per me si è trattato di una vera rivelazione».